Dialoghi dei morti/1
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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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1.
Diogene e Polluce.
Diogene. O Polluce, i’ vo’ darti un incarico. Poichè tosto ritornerai su, chè, pensomi, spetta a te di riviver dimani, se mai ti avvieni in Menippo il cinico (lo troverai in Corinto presso il Craneo, o nel Liceo, deridendo i filosofi che si bisticcian tra loro), digli così: O Menippo, Diogene ti esorta, se hai riso a bastanza delle cose della terra, a venir qui, dove riderai di più ancora. Costà il riso aveva sempre un certo dubbio, quel tale dubbio: chi sa bene quel che sarà dopo la vita? ma qui non cesserai di ridere di tutto cuore, come fo io adesso; massime quando vedrai i ricchi, i satrapi, i tiranni così miseri e trasfigurati che si riconoscono ai soli lamenti; e come son codardi ed ignobili quando ricordano chi furono nel mondo. Digli questo: e di più che si porti la bisaccia piena di lupini assai, di un uovo lustrale, e di qualche altra coserella trovata in qualche trivio, o sovra una mensa consacrata ad Ecate.
Polluce. Glielo dirò, o Diogene: ma affinchè io possa riconoscerlo, che fattezze ha egli?
Diogene. È vecchio, è calvo, con un mantello sbrandellato che muovesi ad ogni poco di vento ed è rattoppato di vari colori; ride sempre, e spesso motteggia cotesti filosofi vanitosi.
Polluce. A questi segni è facile riconoscerlo.
Diogene. Vuoi che ti dica ancor due parole da riferirle ai filosofi?
Polluce. Di’ pure: le parole non pesano.
Diogene. Non altro che questo: ammoniscili che smettano le inezie, e il contender degli universali, e il mettersi le corna tra loro, e il far coccodrilli, o il riempir la mente di quistioni difficili.1
Polluce. Ma mi diranno che io sono un ignorante ed uno sciocco che biasimo la loro sapienza.
Diogene. E tu di’ loro da parte mia, che piangano.
Polluce. Riferirò anche questo, o Diogene.
Diogene. Ed ai ricchi, o carissimo Polluce, porta anche quest’ambasciata da parte nostra: Perchè, o sciocchi, serbate l’oro? perchè defraudate voi stessi, calcolando usure, e ponendo talenti sovra talenti, se tra poco non vi bisogna più d’un obolo per venir qui?
Polluce. Lo dirò anche a costoro.
Diogene. E di’ ai leggiadri ed ai forzuti, come a Megillo di Corinto, e a Damasseno il palestrita, che tra noi non ci ha più nè chiome bionde, nè occhi cilestri o neri, nè l’incarnato del volto; non ci ha nè valide membra, nè omeri robusti; ma di’ che siam tutti zucconi, teschi nudi di bellezza.
Polluce. Non mi grava dir questo anche ai leggiadri ed ai forzuti.
Diogene. Ed ai poveri (i quali son molti, e stentano, e si dolgono della miseria) di’ che non piangano e non si lamentino: racconta loro come qui siam tutti d’una condizione, e come ci vedranno i ricchi non punto migliori di loro. E piacciati di sgridare da parte mia i tuoi Spartani, e dire che sono divenuti altri.
Polluce. No, o Diogene: non mi commetter nulla per gli Spartani. Ad essi no; agli altri riferirò quel che mi hai detto.
Diogene. Lasciamoli, giacchè così vuoi: ma non ti smenticare quello che t’ho commesso per gli altri.