<dc:title> Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Cesare Balbo</dc:creator><dc:date>1846</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Balbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_quinto/13._La_casa_de%27_Franconi_o_Ghibellini._Corrado_il_salico&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20240908073908</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_quinto/13._La_casa_de%27_Franconi_o_Ghibellini._Corrado_il_salico&oldid=-20240908073908
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni - 13. La casa de’ Franconi o Ghibellini. Corrado il salico Cesare Balbo1846Balbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu
[p. 159modifica]13. La casa de’ Franconi o Ghibellini. Corrado il salico
[1024-1039]. — Incomincia quindi la nuova casa detta de’ Vibellini, o
Ghibellini, dal castello di Weibelingen lor culla, e de’ Franconi,
dalla provincia dove eran cresciuti e fattisi duchi prima di salire al
regno ed all’imperio. E perché le mutazioni di dinastie sogliono
essere insieme effetti e cause di nuove condizioni nazionali, perciò
da esse si dividono opportunamente le storie di parecchie altre
nazioni, e perciò parecchi storici imitatori cosí dividon la nostra.
Ma molto inopportunamente questi, a parer mio. Perciocché, quando i re
son di due nazioni, le mutazioni di dinastie si fanno secondo le
mutazioni della nazione dov’elle sono nazionali, e non di quella dove
elle sono straniere; ondeché queste mutazioni di dinastie, patite e
non fatte da noi, non sono se non segno nuovo di solita sofferenza e
non di mutazioni nazionali nostre. Le quali poi in Italia venner da
altro, e appunto in bel mezzo della presente dinastia. — Eletto dunque
re in Germania Corrado duca di Franconia, egli rimaneva, secondo il
diritto germanico, re d’Italia. Ma non secondo il diritto italico. I
tedeschi eran venuti piú e piú a noia. Appena saputa la morte di
Arrigo il santo, i pavesi avean a furia di popolo distrutto il palazzo
regio di lor cittá. Quindi Maginfredo conte e marchese di Torino,
Alrico vescovo d’Asti fratello di lui, i marchesi d’Este ed altri
grandi offrono la corona a Roberto re di Francia, secondo de’ Capezi,
per lui o suo figlio; e rifiutati, a Guglielmo duca d’Aquitania pur
per lui o suo figlio; e il duca viene a Italia, guarda, esamina, e va
via. Tanto era caduta ancor da vent’anni la misera corona, non piú
osata cingere da nessuno di que’ marchesi italiani, portata fuori ad
offrir qua e
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lá, e rifiutata da ciascuno per non mettersi in nostre
divisioni, nostri odii, nostre invidiuzze, direi quasi nostri
pettegolezzi. Intanto Ariberto, arcivescovo potentissimo di Milano,
tronca i dubbi, e va a Germania a far omaggio a Corrado ed incoronarlo
[1025]. Scende questi poco appresso [1026], e con grand’oste muove
contro a Pavia; ma trovatala forte, va a farsi incoronar a Monza, e
poi prende cittá e castella, e viene a Ravenna, dove nasce nuova
baruffa tra tedeschi e cittadini, torna a Milano, passa l’inverno in
Ivrea. L’anno appresso [1027] passa per Toscana e si fa incoronare
imperatore in Roma da papa Giovanni XIX; ed ivi terza baruffa tra
romani e tedeschi. Tutto inutile. Scende a Benevento e Capua, e vi si
fa riconoscere all’intorno, risale a Roma, a Ravenna, a Verona, a
Germania, lasciando tranquilli i pavesi, a patto che riedifichino il
palazzo. Resta Ariberto con quella potenza di vicario imperiale, che
incominciavano a dar gl’imperatori a’ lor aderenti principali qua e
lá. Era naturale; gl’imperatori non potendo far valer essi da lungi
lor autoritá indeterminata, sconosciuta, la trasmettevano qual era,
per valer ciò che potesse, a qualche grande che paresse poterlo da
vicino. Nel 1032, egli Ariberto e Bonifazio, marchese di Toscana,
guidano un esercito d’italiani in aiuto a Corrado che prese il regno
di Borgogna finito allora in Rodolfo. Nel 1035, scoppia tra
l’arcivescovo e i suoi valvassori di Milano una guerra grave, e molto
notevole a far intendere le condizioni di quella societá feodale cosí
diversa dalla nostra. Perciocché sembra ne sorgessero allora piú o
meno delle simili in Italia, ed anche fuori, tra i vassalli grandi, o,
come si diceano, «capitani seniori», o signori, e i valvassori piccoli
o «iuniori». Era finito il secol d’oro di quelli, incominciava di
questi; era un principio di quell’emancipazione delle classi inferiori
dalle superiori che dura d’allora in poi. Combattessi in Milano, i
piccoli valvassori n’usciron vinti: ma si fecer forti de’ lor pari
alla campagna; e tutti insieme alzarono una lega, un tumulto, che
chiamossi «la Motta» (e voleva probabilmente dire «ammottinamento»), e
andò allargandosi via via. Scende allora [fine 1036] Corrado a
giudicar e compor questi nuovi turbamenti; e favorisce la Motta contra
l’arcivescovo, [p. 161modifica]
i valvassori piccoli contro a’ vassalli grandi. Era
naturale, era séguito della politica imperiale, che vedemmo dividere i
ducati in comitati; i comitati grandi in piccoli, od in giurisdizion
del vescovo entro alla cittá e il «corpo santo», e comitato diventato
rurale; o piuttosto è politica di tutti i grandissimi, che contro a’
grandi innalzano i piccoli. E cosí Corrado tiene prima a bada Ariberto
accorso in sua corte, e poscia in Pavia fa prender lui, e qua e lá
altri vescovi. Ariberto ubbriaca, dicesi, i tedeschi che gli erano a
guardia, e fugge a Milano. Vienvi a campo l’imperadore, e sfoga il
dispetto contra terre e castella; e poi, rotto dall’arcivescovo e
milanesi, si ritragge a Cremona, e poi a Parma, dove sorge la solita
baruffa tra popolo e tedeschi. E fu durante l’assedio di Milano, addí
28 maggio, che Corrado fece la sua famosa costituzione de’ feudi, in
che appunto ei protegge i feudatari piccoli contro a’ grandi, e li fa
ereditari: quella costituzione che fu giá detta perfezione del bel
sistema feodale, che noi diremo nuovo passo a libertá. E fu pur da
questo assedio che incominciò Milano ad essere antitedesca; e perciò,
per le solite emulazioni de’ vicini italiani, diventò all’incontro
tedesca Pavia; un rovesciamento di parti, onde vedrem sorgere maggiori
pericoli e rovine, ma maggior potenza e gloria a Milano. Sciolto
dall’assedio, l’arcivescovo vittorioso offrí la corona al conte di
Sciampagna; e dicesi questi l’accettasse, ma appunto allora ei morí.
Ad ogni modo, l’imperatore chiamato da papa Benedetto IX, che si
trovava ne’ medesimi frangenti co’ suoi baroni, fu [1038] a Roma, dove
ripose il papa in potenza, e poi a Capua e Benevento alle solite
contese di colá; le quali poi lasciando, non men che quelle di Milano,
ei risalí a Germania, e vi morí l’anno appresso [1039]. Intanto
Ariberto, pressato da’ vicini di parte imperiale e da’ propri
valvassori, seguiva la medesima arte che l’imperatore, quella solita
di sollevar contro ai propri minori i minimi, i popolani cittadini o
campagnuoli da lui dipendenti. E perché questi non erano come i militi
a cavallo, ma povera gente a piè, dava ad essi a stendardo, a segno di
raccolta in battaglia, quel carro grave, tirato da buoi, e portante
una campana, che era stato usato giá da’ monaci