Della imitazione di Cristo (Cesari)/Al divoto lettore
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Traduzione dal latino di Antonio Cesari (1815)
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AL DIVOTO LETTORE
ANTONIO CESARI
Egli è ben ventinove anni, che pubblicai questa mia traduzione di Tommaso da Kempis: in tutto il qual mezzo tempo non mi ricorda d’avervi messo l’occhio sopra, per rivederla. Ora parendomi da buon pezzo di sentirla desiderare, sono entrato in pensiero di farne una seconda Edizione: sperando poterla dare un po’ migliorata. Lo studio da me continuato sopra la lingua Italiana per questi non pochi anni, mi fece conoscere, che in alcuni luoghi io poteva aver meglio voltato l’autore, dove con più brevità, dove più proprio, dove con altro costrutto di parole: e che so io? Per la qual cosa ho messo mano a ripulirla, e migliorarla al possibile; per forma che agli amanti delle Toscane eleganze dovesse essere più gradita; ed alle persone divote, non pure non dovesse dar nessuno impedimento ad intendere ogni cosa, ma eziandio qualche piacere. Nondimeno a questi secondi io vorrei far un mio priego: che se a qualche passo, o voce talor s’abbattessero (che debbon esser pochissimi) dove vedessero poco lume, non vogliano correre a darne tosto la colpa a me: quando, a voler far le ragioni giuste, questo potrebbe anzi essere difetto loro, che mio, conciossiachè non avendo essi presa dimestichezza, o non troppa, co’ maestri di questa lingua; non dee parer loro sì strano, che in alcuna voce, o modo di dire si scontrino, che loro sia nuovo. nel qual caso adoperandoci un poca di quella umiltà, per cui imparare si debbono esser messi a leggere questo libro; cerchino per alcuno, che loro spieghi quel passo: e così, dopo alcuni schiarimenti lor fatti, essi avranno bello ed inteso quest’opera da tutti i lati. Ben posso io promettere, che; avendo spezialmente rispetto a questi secondi; io mi sono studiato di levarne tutte le voci men conosciute, di dare a’ costrutti un giro più naturale, di toglierne parecchi ripieni ed altri vezzi di lingua, dove forse egli sarebbono incespicati; e nel fine d’aver fatta loro la via più agevole e piana che per me si potesse, senza offendere il valore, o togliere la nobiltà de’ concetti che doveva voltare. Ma questo medesimo alcuna rara volta mi costrinse d’usar qualche modo, che lor parrà oscuro: e ciò perchè l’equivalente più chiaro non c’è, ovvero io nol trovai. come al numero I. del capo VIIII. del libro II. dice l’Autore; Satis suaviter equitat, quem gratia Dei portat. Io avea già voltato così; Egli va a troppo grande agio chi è portato ec. non mi piacque per nulla. manca la metafora del cavalcare: ma questo cavalcare è basso alla presente materia. Adunque ho sostituito così; Va di portante assai comodo, chi è portato dalla grazia di Dio; che con modo nobile e grave rende a capello la figura e’l concetto dell’Autore. Ma quanti intenderanno questo Andar di portante? pochi per avventura. Sia con Dio. qui almen si parrà, che il Vocabolario della Crusca non fu da me ristampato pe’ morti. Ora nessuno si dee reputare a vergogna d’essere qualche volta mandato a leggere: che qual è colui, eziandio de’ più pratichi, che non debba essere qualche volta? Ciò sia per me detto a’ Lettori benevoli per mia buona discolpa. Del resto, se difetti saranno trovati (che sarà certo) nella mia traduzione, prego chi legge di perdonarmeli: che se nulla ritraggan di bene da questa fatica mia, ed egli vogliano comunicar meco il frutto delle loro orazioni; e come que’ Padri antichi dell’eremo, facciamo carità insieme.