Della dissimulazione onesta/II. Quanto sia bella la verità
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II.
Quanto sia bella la veritá
Prima che la vista si disvii nel cercar l’ombre che appartengono all’arte del fingere, come quella che nelle tenebre fa i piú belli lavori, si consideri il lume della veritá, per prender licenza di andar poi un poco da parte, senza lasciar l’onestá del mezzo. Il vero non si scompagna dal bene, ed avendo il suo proprio luogo nell’intelletto, corrisponde al bene ch’è riposto nelle cose; né può la mente dirizzarsi altrove per trovar il suo fine, e se ’l vulgo si reputa felice in quello che appartiene al senso, ed i politici nella virtú o nell’onore, i contemplativi mettono il loro sommo bene in considerar l’Idee che son nel primo grado della veritá, la qual in tutte le cose è la proprietá dell’essere a quelle stabilito, perché in tanto son vere in quanto son conformi al divino intelletto; ma Dio se stesso ed ogni cosa intende, e l’esser divino non solo è conforme al divino intelletto, ma in sostanza è lo stesso: onde Dio è la veritá medesima, ch’è misura di ogni veritá, essendo prima causa di tutte le cose, e quelle son nella mente divina, loro principio esemplare; e dalla veritá divina, ch’è una, risulta la veritá multiplicata nel creato intelletto, dove la veritá non è eterna se non quanto si riduce in Dio per ragion di esempio e di causa, nella qual ritornan tutte le sostanzie e gli accidenti e le lor operazioni: e come in Dio è immutabile, perché il suo intelletto non è variabile e non cava altronde la veritá, ma il tutto conosce in se stesso, cosí nella mente creata è mutabile, potendo questa passar dal vero nel falso, secondo il corso dell’opinioni; o, restando la medesima opinione, mutarsi la cosa. Sol dunque nell’eterna luce il vero è sempre vero: in quella prima luce che tanto si leva da’ concetti mortali, internandosi nel suo profondo, con nodo d’amore, tutto quello che si spande per l’universo; e la vera bellezza è nella veritá stessa, e fuor di quella sol quanto di lá dipende. Ma questo è piú luogo da considerar la veritá morale, con che l’uomo tal si dimostra qual è; ond’or, lasciando il discorrer per que’ chiari abissi del primo vero, toccherò quest’altra parte che tanto appartiene alla nostra umanitá, per renderla forte, e sincera, mentre l’adorna di ogni abito gentile, o (per dir piú espresso) la va spogliando di que’ veli, che son fatti di mano propria della fraude, che ingombra l’anima di cosí duri impacci, e ne fa sospirar quel secolo, che tra gli altri beni fu chiamato d’oro per la veritá, la qual con dolcissima armonia metta tutte le parole sotto le note de’ cuori, poiché noti, e quasi fuor de’ petti, in ogni discorso si sentivano impressi. È chiaro che anche per altri rispetti furo onorati quegli anni con sí glorioso nome, ed in particolar fu secolo d’oro perché non ebbe bisogno d’oro, e, prendendo dalle semplici mani della natura il cibo e la veste, seppe trovar ne’ boschi stanza civile, non bramando piú caro tetto che ’l cielo, né piú sicuro letto che la terra, sí che gli uffici del tempo ed i servigi degli elementi si riscontravano negli animi ben disposti all’intelligenza del piacer fermo; ma tutte queste sodisfazzioni sarebbono state invano, se la veritá non fosse andata per le bocche di quella pur troppo bene avventurata gente, se non fosse stata scritta nel candore di que’ magnanimi petti con caratteri (benché invisibili) di buona corrispondenza; però non bisognava che ’l sí, e ’l no, si menasse i testimoni appresso. L’amico parlava all’amico, l’amante all’amante, non con altra mente che di amicizia e di amore. Alla veritá si ubbidiva perché ella invitava ciascuno a dimostrarsi senza nube, e cosí si rappresentava l’αυ̉θέκαστος, ch’è il verace ne’ detti, e ne’ fatti, in considerar in vero ch’è di sua natura onesto; ed essendo egli φιλαλήθης, ama il vero non per ragion di utile o per solo interesse d’onore, ma per se stesso, ed ha piú occasione di amarlo quando vi s’aggiunge la salute della republica o dell’amico.