Della congiura di Catilina/XXXVII
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Traduzione dal latino di Vittorio Alfieri (1798)
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Nè i soli congiurati insanivano, ma la plebe intera che vaga di nuove cose a Catilina applaudiva: e tale è l’indole sua; perchè sempre nella Repubblica chi non ha nulla, suole i buoni invidiare, promovere i tristi, odiar gli usi antichi, nei nuovi sperare, e in odio del presente suo stato, ogni qualunque mutazione bramare: potendo l’indigente nei torbidi e tumulti acquistare bensì, ma non perdere mai. Erasi la romana plebe a tali estremi ridotta, per molte strade. Da prima, ogni sfrenato ed infame, che nel vasto impero si fosse distinto; ogni uomo di beni e d’onestà rovinato; e quanti per scelleraggini e ribalderie fuorusciti trovavansi; costoro tutti in Roma, quasi d’ogni bruttura ricevitrice, affluivano. Molti altri poi, memori delle vittorie di Silla, vedendo dei di lui soldati quale esser fatto Senatore, qual altro sì ricco che da Re si trattava, ciascuno una simil fortuna nell’armi e nella vittoria speravasi. Inoltre i giovani contadini, usi a sottilmente vivere delle loro giornate ne’ campi, incitati ora dalle pubbliche e private liberalità, alla ingrata contadinesca fatica l’urbano ozio anteponevano. I pubblici mali eran vita e a costoro e a tanti altri: onde non è maraviglia, se gente povera scostumata e speranzosa, il proprio utile stimava esser l’utile della Repubblica. Ed anco i cittadini vinti da Silla, cui erano stati proscritti i parenti, rapiti i beni, la libertà compendiata, con ansietà non minore l’esito della guerra aspettavano. Quanti in somma nemici erano dell’autorità del Senato, volevano anzi Roma sconvolgere, che la loro influenza menomare: vizio, che dopo molti anni a riprodursi veniva nella città.