Della congiura di Catilina/XI
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Traduzione dal latino di Vittorio Alfieri (1798)
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Ma, più che l’avarizia, vi potea da prima l’ambizione: vizio che almeno l’apparenza mantiene della virtù. Il buono e l’inetto del pari desiderano e gloria, ed onori, e comando; ma quegli per la retta via, questi, cui mancano le vere arti, con frode ed inganni vi si spinge. Scopo dell’avarizia è il danaro, cui niuno savio desidera: questa, quasi veleno, ogni corpo ed animo virile ammollisce; immensa, insaziabile sempre, nè l’acquistare, nè il perdere la minorano. Ricuperata da Silla la Repubblica con l’armi, a buoni principj tosto seguirono pessimi effetti; ciascuno rapire, tirare a se; questi desiderar l’altrui casa, quegli le ville; tutti, senza modo e vergogna usar la vittoria con crudeltà e abominazioni nei loro concittadini. Aggiungevasi a tanti mali l’esercito capitanato già in Asia da Silla, e da lui, contro l’antica disciplina, per renderselo fido, con doni e licenza corrotto. Gli ameni e voluttuosi luoghi aveano la ferocia di que’ soldati effeminata nell’ozio. Quivi per la prima volta avvezzavasi il Romano esercito agli amori, ai banchetti, alle statue pitture e vasi preziosi; cui di nascosto poi e in palese predava, i templi spogliando, ed ogni sacra e profana cosa contaminando. Cotali soldati, vincitor divenuti, nulla ai vinti lasciarono. Nella prosperità, che i savj stessi sopportano a stento, poteano mai quei corrottissimi moderatamente adoprar la vittoria?