Del veltro allegorico di Dante/XXI.

XXI.

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[p. 40 modifica]XXI. L’Alighieri viveva intanto presso Bartolommeo della Scala, cui dopo lunghi anni la sua riconoscenza cantò elogio immortale. Non arrossiva l’uno di chiedere: amava l’altro di antivenir la richiesta e addolciagli la sciagura dell’esilio. Percorse il poeta i ridenti contorni di Verona lungo l’Adige infino a quella rovina sovra esso di qua da Trento, della quale sono incerti e l’etá e la cagione: rovina che giá da qualche secolo si scorgeva, poiché Dante assicura di non sapere se fu prodotta da tremuoti o da pochezza di sostegno (Inf. XII, 6). Guglielmo di Castelbarco e Lantieri di Paratico onorevolmente il trattennero per alquanto spazio nei loro castelli. Ed ai nostri di gli abitanti di Val Pulicella e di Val Lagarina, con fondato e nobile orgoglio, si vantano che nelle loro contrade l’Alighieri o dettò canzoni o scrisse alcuna parte dell'Inferno. Certamente nella quiete di Verona ei ripensò al poema latino, e poterono i cerchi dell’anfiteatro mostrargli l’architettura di non poche sue bolge [p. 41 modifica] infernali. Colá, nella corte di principe ghibellino, l’ira e la gratitudine il rivolsero alla parte dell’imperio, quantunque non per anco tacessero affatto nel suo cuore le massime guelfe della sua famiglia e della sua gioventú.

Ripigliato il primo lavoro, la bramosia di punire i nemici e l’ingegno prepotente ammonirono l’Alighieri, che in altra lingua doveva egli cercar la vendetta o la gloria: e le sue volgari canzoni lo fecero accorto delle proprie forze nella favella italiana, intorno a cui egli affaticossi nel suo primo giungere a Verona. Quivi Dante deliberò di scrivere il libro dell’eloquio volgare, che contiene le cause dell’avere egli abbandonato il latino idioma e le memorie dei suoi giovanili viaggi per tutta Italia; nei quali aveva notato la differenza degl’italici dialetti e dei suoni. Ed oltre misura invaghito della lingua da lui chiamata illustre, dicea di non curare per essa l’esilio (De vulg. eloq. lib. I, cap. 17): ma non ancor gli era noto che per sempre avea perduto la patria.

Confortato dal vero, che in appresso espose in quel suo libro dell’eloquio, Dante lasciò in obblio il poema latino, e misesi a rifarlo in volgare; mutatone il primo canto, del quale altrove piú acconciamente si parlerá. I lamenti di Francesca nel quinto sembrano dettati così dalle antiche rimembranze del poeta intorno ai Polentani, come dalla recente gratitudine di lui per Bernardino da Polenta, che giá fu suo compagno di armi a Campaldino, e poi divenne amico del Faggiolano ed infine dei bianchi nella guerra mugellana. Al sesto canto aggiunse Dante la profezia di Ciacco, favoleggiando che questi nel biasimare i vizi di Firenze gli fosse venuto predicendo i danni e l’esilio dei bianchi: ne si che talun riguardo per lei nelle parole di Ciacco ancora non tralucesse. Pieno la mente delle sante scritture, l’Alighieri si dilettò d’imitarne le allegorie; talvolta discepolo nei suoi versi dei dogmi alessandrini della scuola platonica e dell’arabo aristotelismo. Al secolo di Dante meglio piacevano le allegorie che avessero maggior numero di significati: perciò di queste, chiamandole polisense (In Epistol. ad Canem Grandem), il poeta diè saggio nella Vita Nuova e larghissimi esempi o precetti negli altri suoi scritti.