Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo X
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Capitolo Decimo
Quanto il letterato è maggiore del principe, altrettanto diviene egli minore
del principe e di se stesso, lasciandosene proteggere.
La maggioranza del letterato sul principe consistendo, piú che in ogni altra cosa, nella intima conoscenza ch’egli ha del principe e di se stesso, non potrá veramente esser egli il maggiore, se per intima convinzione egli il maggior non si reputa. Ma tale non potrá riputarsi per certo, se egli colle opere sue non arreca, o non tenta di arrecare agli uomini assai piú vantaggio che il principe non arrechi lor danno. Ora, uno scrittore che cosí opera e pensa, non potrá assolutamente mai soggiacere alla protezione di chi egli crede (e con ragione) essere tanto minore di sé, di chi egli odia, come facitore di cose contrarie alle sue; di chi egli spregia, come privo per lo piú d’ogni virtú, d’ogni lume e d’ogni ingegno; di chi insomma egli teme e abborrisce, come esercitatore di una soverchia potenza, la quale è morte d’ogni veritá e di ogni sublimitá in qualunque uomo sconsigliatamente a lei si avvicina.
Con questa giusta e precisa idea del principe e di se stesso, il letterato potrá egli mai seppellirsi in tanta vergogna, coprirsi di tanto obbrobrio, quanto sia quello che giustamente a lui tocca, se egli riceve o mèndica aiuti o sostegno da una persona temuta, abborrita e sprezzata non poco da tutti, e sovranamente da lui? Gli scrittori dunque che cosí non ragionano, oltre la infamia, ben ampia pena del volontario loro errare ne riportano; cosí in se stessi finché son vivi, come nei loro libri; ove pure i lor libri rimangano. I posteri giudicano il valore del libro dallo schietto utile che ne traggono; cioè dal vero che vi si contiene, e che solo può esser fonte dell’utile; e giudicano in oltre il valore dell’uomo dal libro; ma né l’uno né l’altro mai, dalle loro circostanze. Ed in fatti, circostanza nessuna vi può essere che, nelle cose non necessarie a farsi, scusi il mal farle, o il farle meno bene della propria capacitá; il che in letteratura è un malissimo fare; mentre tutte le circostanze si poteano pure interamente domare, col non far nulla. Quanto a se stessi poi, i letterati protetti portano nel loro cuore l’orribile martirio di essere costretti a tenersi minori di quel principe che essi, e tutti, a giusto dritto, egualmente dispregiano. Costoro, col fèro supplizio di Tantalo, in mezzo alla propria passeggera fama, ne patiscono in se stessi una tormentosissima sete: che nessuna propria fama può esistere agli occhi di quell’uomo, il quale, se stesso non potendo stimare, diviene per forza minor di se stesso.