Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo XI
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Giacchè liti, giudici, ed avvocati ci han da essere, finchè durerà il mondo, nè rimedio è facilmente da sperare a certi inevitabili difetti della giurisprudenza: dovrebbono almeno i saggi principi studiarsi di rimediare a quel che si può. Cioè provvedere, se è mai possibile, che non solo men liti si movessero in avvenire, ma ancora che le mosse più speditamente si decidessero, e che venisse frenata nei giusdicenti e ne i campioni del Foro la facoltà smoderata di disporre della roba altrui a lor piacimento. Provviene, come già s’è avvertito di sopra, il malano maggiore della scienza legale dalla sterminata copia delle opinioni de’ dottori, e dalla contrarietà d’esse, madre perciò dell’incertezza in voler determinare il torto e diritto nelle cause forensi. Migliore rimedio a queste piaghe non so io suggerire, se non quello, che possono con facilità, se vogliono, somministrare i principi amatori del loro popolo. Cioè di « decidere col maturo consiglio de’ più dotti e saggi le conclusioni controverse fra i legisti, determinando quel che debbono seguitare in tali occasioni i lor tribunali e giudici ». Aristotele nel lib. I, cap. I, Rhetoric., tanti secoli sono, l’avvertì con dire: « Essere convenientissimo, che le leggi volendole formar utili, distinguessero e decidessero, per quanto si possa, tutti i casi, e ne lasciassero il men che si possa suggetto all’arbitrio di chi dee giudicare ». E bisogna ben credere, che i giudici de’ suoi tempi fossero in poco buon concetto, perciocchè altrove, cioè nel lib. III, cap. 16, della Repubbl., gli scappò detto, « essere da desiderare, che le leggi, più tosto che gli uomini, comandino». E ne adduce questa ragione. « Imperciocchè le leggi pesatamente costituite contengono quello, che è giusto tanto nel giudicare, quanto nell’operare; e perciò chi vuol che le leggi governino i giudizi e le azioni, vuol che dio e le leggi comandino: laddove volendo noi, che un uomo comandi, noi diamo il comando in mano ad una fiera, stante la forza delle passioni, che son capaci di guastare il cuore e la mente de’ magistrati, e de gli stessi uomini dabbene ». Per questa medesima riflessione l’Angelico dottore 1. 2. Quæst. 95, art. 1, riconobbe anch’egli l’utilità e necessità delle leggi, affinchè non restasse in balia de’ giudici in tanti casi di giudicare a lor capriccio, con danno grave della giustizia e dei popolo. Verissimo è, che abbiamo innumerabili leggi, ne’ libri a noi lasciati da Giustiniano; ma quelle stesse leggi, e la varietà de’ casi contingenti, e la sottigliezza ed intemperanza de i legisti per varj secoli, hanno prodotta si gran copia d’altre questioni ed opinioni legali combattenti l’una coll’altra (giacchè è impossibile, che un legislatore possa preveder tutti i casi, e provvedere a tutto, come già avvertì Giuliano nella l. non possunt, ff. de legib.) che oramai la giurisprudenza è divenuta tale, che dà origine a tanti litigi, e continuamente imbroglia l’amministrazion della giustizia, con riuscire solamente fruttuosa a chi agita queste liti.
Ora che stanno a fare i buoni principi, che non mettono la falce a questo bosco sì pregiudiziale alla repubblica, con decidere tante controversie legali, con approvare o riprovar tante opinioni, come più conviene all’equità e alla giustizia, e con determinar quello che da qui innanzi debbano seguitar i giudici, senza che possano sentenziare differentemente, nè ad arbitrio loro, come talora accade oggidì? Nè già son io solo a concepir si fatto desiderio. Più di cento anni prima lo spagnuolo Zevallos l’avea formato nella Prefazione al suo Speculum aureum con dire: «In litibus, quæ quotidie contingunt, quum nihil sit certi, conniventibus oculis patrimonia consumuntur, et hominum vide terminantur: quæ omnia optime providerentur, si omnes hæ contrariæ opiniones ad certam legem redigerentur, quod quidem facillimum esset. Et sic in arbitrio judicis non esset, modo unam, et illico secundam opinionem sequi, prout amicitia postularet ». E molto più è da desiderar rimedio a tante opinioni, che alle tante leggi, delle quali si lagnava il Conringio celebre scrittore tedesco nel suo Thesaur. Politic. n. 52. « Esset (sono sue parole) cur nostro quoque regno novum quemdam optaremus Justinianum, qui utilia addat, inutilia vero resecet, indigestamque legum nostrarum molem in mensurabile atque utile corpus redigat. Est namque, ut inquit Poeta,
. . . . . . . . . immedicabile vulnus
Ense rescindendum, ne pars sincera trahatur.
Prima che a lui, era caduta anche in cuore del padre Adamo Contzenio della Compagnia di Gesù la medesima brama. Così in fatti scrive egli nella sua Politic., lib. 5, cap. 11: Nunc magna multitudine legum et litium pane mergitur Germania. Magni æstimo conditores legum, antistites sacre Themidos. Si vero Imperator, adhibitis juris consultissimis, principumque auctoritate, magnum hoc chaos in ordinem et perspicuam brevitatem restitueret, reipublicæ servatorem, et patrem patria appellabo ». Seguita dipoi a dire: «Tot principum exempla sequi gloriosum est, et patria necessarium, qua non plus in lites, quam in bella impendit; et lites non finiendas, sed continuandas, et partium damno sedandas, aut aternandas, passim dolet ». Lo stesso rimedio veggo io desiderato dal Deciano nell’Apologia contro l’Alciato, cap. 21, n. 7.
Pertanto ad effettuare la progettata impresa, dovrebbono i principi deputare alcuni de’ più ingegnosi, dotti, ed onorati professori della giurisprudenza, sieno ministri, o lettori pubblici, o avvocati, tali spezialmente, che non covino passione alcuna, non sieno adulatori, ed amino unicamente la verità e il giusto, e ne’ quali veramente si truovi justi et injusti scientia. Lor cura avrebbe da essere, non dirò di ammassar tutte le conclusioni ed opinioni legali disputate con contrarietà di sentimento da i legisti: che questo sarebbe un troppo pesante fardello, e ad ognuno, e più ad essi riuscirebbe noioso; ma bensì di iscegliere quelle, che più facilmente son portate a i tribunali, ed importa al pubblico, che sieno decise. Tutte queste merci senza gran fatica si truovano ne’ libri del Cardinal Tosco, del Sabello, e in altre somme e repertorj di tal fatta, del Cardinal de Luca nel trattato de Conflictu legis et rationis, ed in altri somiglianti libri. Potrebbesi anche ricorrere all’opera di Antonio Fabro de Erroribus pragmaticorum per cavarne lume e frutto, essendo egli stato uno de’ più mirabili ingegni, che abbiano illustrata la giurisprudenza. Ma siccome la sua sottigliezza era incredibile, e non minore il suo odio verso i legisti forensi, però con cautela s’hanno da ricevere tante sue opinioni opposte a tanti autori, che signoreggiano nel regno legale: siccome giudiziosamente osservò D. Giuseppe Aurelio di Gennaro avvocato napoletano, nella sua elegantissima Respublica jurisconsultorum; e piuttosto si dee attenere al suo Codice Fabriano, dove egli si domesticò con gli altri professori della facoltà legale. Merita anche d’essere in questo proposito osservata l’opera di Girolamo Borgia col titolo Investigationum juris civilis, dove, in grazia de’ legisti forensi, sono esaminate e riprovate assaissime conghietture e dottrine del sopradetto Fabro. Fatta dunque la scelta, che abbiam proposto, converrà dipoi esaminare con accuratezza il pro e il contra di cadauna d’esse opinioni; e trovando, che l’affermativa, o la negativa è più conforme alle leggi di Giustiniano, o pure a i principj del Gius di natura e delle genti, o maggiormente abbracciata, e quasi canonizzata da i principali tribunali d’Italia, e massimamente dalla ruota romana, e da i senati regii, e fiancheggiata da i saggi trattatisti: quella si ha da stabilire, ed avrà per determinazione del Principe da divenir legge per l’avvenire: salvo sempre restando e in vigore ogni particolare statuto e consuetudine de i luoghi. Così facendo, chi non vede, quante liti si risparmieran da qui innanzi, e quante altre si potranno speditamente decidere, qualora appartengano a i punti decisi? Ognun sa, come sia fecondo il Foro di litigj per successioni, fideicommissi, e sustituzioni fra gli agnati e cognati. A ciò riflettendo Innocenzo XI Papa di veneranda e santa memoria, e credendo più convenevole, che i beni, co’ quali si mantien lo splendore delle famiglie, piuttosto si conservino nelle proprie de i testatori, che passino alle estranee, quando non sia espressa la lor volontà: con sua bolla pubblicata nell’anno 1680 e riferita dal Cardinale de Luca nel suo trattato de Statutariis successionibus, decretò, che « in quolibet casu dubio, et quomodolibet disputabili, favore masculorum de agnatione in exclusionem feminarum, et cognatorum, hujusmodi legum et statutorum interpretatio in posterum fiat ». La stessa provvisione statutaria fu fatta da Rinaldo duca di Modena nell’anno 1711 intitolata Decretum de successionibus. Legge lodevole, legge, che, tenuta sempre davanti a gli occhi da i giudici dello stato ecclesiastico, e della Casa d’Este, basta per troncare, e dee troncare le eccezioni, interpretazioni, e cavillazioni de’ causidici, e far decidere ne’ casi controversi in favor de gli agnati. Altrettanto succederà in assaissimi altri casi, che dalla prudenza de i suddetti giurisconsulti, e dall’autorità de’ principi, verranno stabiliti; e che potranno formare un picciolo codice nuovo di leggi. Con avvertenza di formare il più succintamente che mai si possa, e con parole ben chiare la sostanza ed intenzion delle leggi, senza allegarne le ragioni: perciocchè le troppe parole adoperate per ispiegar meglio la mente del legislatore, quelle talvolta sono, che somministrano uncini e sofisticherie a chi è avvezzo a questo mestiere nel Foro. Sopra tutto convien prendere di mira le più disputate quistioni, nelle quali si truova, o danno alcuni a credere, che si truovi la comune contro la comune. Ne’ vecchi tempi non si può dire, che bel giuoco facessero i giudici di queste contrarie comuni; perchè figurandosi salva la coscienza, ancorchè seguitassero più questa che quella, s’apriva loro il campo di gratificar le persone più accette, cioè quelle che s’introducevano maggiormente, o erano già introdotte nella lor grazia, chiamando a mio credere ancor questo il punto dell’amico, di cui parleremo al cap. XIII. Il perchè solevano gli antichi nostri legisti, cioè l’abate parlermitano, Baldo, il Berò, il Decio, ed altri consigliare i lor discepoli, che si guadagnassero il cuor de’ giudici, perchè questo era un mestier lucroso. Ed Antonio Maria Corazio nel lib. 2, delle Comuni esortava gli avvocati e proccuratori, che nelle loro allegazioni ed informazioni non dimenticassero di regalare il giudice co i titoli di dottissimo, eccellentissimo, celebratissimo, acutissimo, perchè tocca molto il lor cuore questa dolce sinfonia: documento, che spezialmente veggiamo dato anche a gli antichi oratori romani da Cicerone, Quintiliano, ed altri. Del che non mi stupisco io punto; mi maraviglio bensì del Zevallos, che consigliando lo stesso, aggiugne poi le seguenti parole: «Et cum judices possint, quæ unicuique placuerit, eligere opinionem, quid interest argumenta et fundamenta opinionum adducere, cum eligendo unam communem opinionem, quia magis probabilis mihi videtur, non possum alterius contrariæ communis opinionis virtutem et potentiam tollere? Et sic semper ex judicis arbitrio fatti quæstio et resolutio pendet ». Di questa falsa falsissima dottrina ragioneremo al cap. XIII. Intanto osservino i lettori, che sconcerto una volta recasse, e potesse tuttavia recare alla giustizia il libero passeggio per gli tribunali delle opinioni comuni contrariate da altre comuni; e l’insegnare, che dall’arbitrio de’ giudici pendano in tanti casi le decisioni delle cause, e ch’essi niun rimprovero della coscienza abbiano a sentire, purchè scelgano quella comune, che loro serva a farsi de gli amici. Dovrassi ancora considerare, se abbiano i principi da lasciar più lungamente in così pernicioso vagamento la giustizia civile. So io ben poi, che il decidere le liti, le quali insorgono per gli testamenti, d’ordinario non può venir dalle leggi, ma dal solo bilanciare e conghietturare la volontà de i testatori; e parere perciò impossibile l’inventar regole, che possano servire alla varietà de gl’innumerabili casi. Tuttavia giacchè questa suol essere la miniera più feconda de i litigi, non si dee stancare un saggio principe di prestar in ciò qualunque sussidio, che mai si possa alla giustizia. Qui è, dove trionfa la metafisica sottigliezza, superstizione, e cabbala de i giuristi; qui dove si scorge, fin dove possa andar l’arte per attrappolare i giudici, e tirar la roba, dove forse mai non han pensato i testatori. Mi perdoni il lettore, s’io mi servo di questi termini, dappoichè tante volte non ha avuto scrupolo di servirsene il celebre Cardinal de Luca, il quale ancora in questo proposito scrisse così nel lib. X, cap. 19, del suo Dottore volgare: « Ciò alla giornata insegna la pratica e che a i testatori si fa dir quello, che mai non hanno voluto, né pensato, et alle volte opposto. Anzi bene spesso il fanno parlare variamente, cioè che una volta si fa parlare in una maniera, e dipoi mutando parere il fanno parlare in un’altra. Sicchè se quegli risuscitasse, bisognerebbe dargli la tortura per vedere, in qual detto persistesse, secondo la pratica de’ criminalisti ». Potrebbonsi dunque figurar varj casi de’ più usuali, con decidere appresso, quando sia da ammettersi la sustituzion pupillare tacita, la reciproca, la volgare, l’obliqua, ed altre distinte, e sottodistinte da gl’ingegnosi legisti; quando si dia la subintrazione e trasmissione; quando il fideicommisso sia agnatizio, o no; perpetuo, o limitato; e simili altri punti. V’ha chi crede, che il principe potesse prescrivere quaranta formole di testamenti, o per dir meglio, di sustituzioni, secondo le quali ognun dovesse esprimere l’ultima sua volontà: il che troncherebbe ogni lite; ma non sapendo io, se alle pruove potesse riuscire un sì fatto regolamento, ne lascerò l’esame a chi meglio di me è fondato nella pratica del Foro.
Ora questo insigne benefizio, per cui verrebbe non poco a sbrogliarsi la troppo intricata giurisprudenza, e si provvederebbe ad un gravissimo bisogno del pubblico, mi vien quasi sospetto, che potesse trovar consiglieri e ministri, a gli occhi de’ quali non piacesse, quasichè la lor giudicatura dovesse restarne men fruttuosa; e però che anteponendo l’utile proprio a quello della repubblica, ne dissuadessero, ed impedissero l’esecuzione. Ma non si fermeranno per queste interessate remore i principi saggi. Basterà, che dimandino, se Giustiniano procacciò gloria a se stesso, ed utilità al pubblico colla formazion delle sue leggi. Non potrà negarlo, chiunque è scritto nell’augusta matricola de i dottori; e per conseguente converrà eziandio che conceda, dover promettere altrettanto a se stesso un principe d’oggidì in imitando quell’antico. L’esempio poi d’un principe, che ciò eseguisse ne’ suoi Stati, potrebbe muovere gli altri a non lasciar privi i sudditi suoi di questa salutar medicina. Fors’anche un codice ben fatto dell’un d’essi, correrebbe la fortuna d’essere fatto esaminare, e poi ricevuto da gli altri. Ma caso mai, che niun d’essi volesse applicarsi a così gloriosa impresa, o per poca attenzione al pubblico bene, o perchè atterrito dalla vastità di questo assunto: sarebbe allora da desiderare almeno, che qualche insigne ed onoratissimo giurisconsulto de’ tempi nostri, nel cuor di cui più potesse l’amore della repubblica, che il proprio guadagno, consecrasse i suoi studj a formar egli con solo riguardo alla verità e giustizia il suddetto desiderato codice, e pubblico lo rendesse. Opera tale, purchè lavorata da un valente maestro colla maggior possibile esattezza, ancorchè restasse nella sua privata fortuna, sempre farebbe un libro di legge meritevole di molta stima. Ma potrebbe anche salir più alto, quando fosse esibito a i principi, affinchè facessero esaminarlo da’ suoi più saggi ministri, per conoscere, se fosse degno di ricevere quell’autorità, che non può venirgli da un privato. Potrebbe darsi, che que’ Ministri vi trovassero conclusioni non convenienti al loro paese, o poco gustose all’alto loro intendimento, e al delicato loro palato: che questo solo in fine si potrebbe opporre. Allora il Principe, risoluto di far questo bene al suo popola, ha da comandare, che uniti i voti de’ suoi più dotti ed assennati legisti si stabilisca, come parrà più proprio, quella porzion d’opinioni e conclusioni, ch’essi hanno messo in dubbio; e con tale riforma potrà egli dipoi autorizzare, e far pubblicare ne’ suoi Stati esso codice, e comandarne l’osservanza: giacchè ogni Stato può formarsi quel corpo di leggi, che più si adatta al suo sistema, e alle sue consuetudini. Che se talun dicesse, aver noi anche troppe leggi nel gran corpo di quelle di Giustiniano, senza accrescerle di un altro corpo novello, risponderà l’accorto sovrano: Se voi temete, che fallisca la vostra bottega con dar qualche buon sesto alla troppo imbrogliata scienza di voi altri, perchè forse si sminuirebbe la folla de i litiganti: io per me desidero di giovare per quanto posso al pubblico, il cui bisogno più dee starmi a cuore, che il mantenimento de’ vostri guadagni. Non s’ha d’aver paura di leggere i pochi libri delle leggi, ma bensì l’immensa farragine de’ vostri libri legali, nati per far nascere le liti, e per non lasciarle finire giammai.
Potrebbe anche opporre alcuno, che siccome dopo le leggi di Giustiniano sono insorte tante quistioni ed opinioni, così lo stesso avverrà formando nuove leggi. E la risposta sarà, che intanto si goderà il benefizio di veder tolta buona parte delle vecchie quistioni, ed opinioni; e che producendone altre il tempo, potranno altri principi con somigliante spada troncarle. In somma sfido chichessia, che non saprà recar giusta ragione alcuna, per dissuadere il rimedio proposto alle piaghe della giurisprudenza, se non fosse quella di proporne un più spedito e migliore: nel qual caso io sarei il primo a correre a lui colle braccia aperte per ringraziarlo a nome del pubblico; e se potessi, gli farei innalzare una statua per riconoscenza di si importante benefizio. Intanto piacesse a Dio, che almeno si effettuasse il proposto da me, anzi il proposto, o in qualche maniera accennato prima di me da Giovanni Bodino, da Girolamo Zevallos, da Francesco Hotomanno, dal Chokier, dal Ketstnero, dal Leibnizio, e da altri, tutti desiderosi di liberar in parte la republica da un male, che nuoce a molti, ed incresce a tutti, e pur niuno pensa ad alleviare, giacchè toglierlo in tutto non si può.