Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo X

Capitolo X

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Capitolo IX Capitolo XI
Se fosse ben fatto ed utile il ridurre tutta la giurisprudenza al solo studio de i testi delle leggi.


Il primo rimedio, che parrebbe proprio per liberare in un punto solo la repubblica legale da i tanti tirannetti, che si sono in essa sollevati, sarebbe di ridurla a que’ medesimi termini, ne’ quali desiderò lo stesso Giustiniano Augusto ch’essa restasse, cioè di riserbare tutto lo studio de gli avvocati e giusdicenti al solo testo delle leggi, con bandire la sterminata folla di tutti i suoi interpreti, trattatisti, e consulenti. In fatti Vittorio Amedeo re di Sardegna, e duca di Savoia, principe sì rinomato per la sua gran mente, e per tanti bei regolamenti fatti in pro de’ suoi Stati, allorchè nel 1729, s’applicò alla riforma della giurisprudenza, fra l’altre sue costituzioni al lib. III, tit. 22, § 9, così ordinò: « Volendo noi, che per la decision delle cause s’osservino unicamente in primo luogo le nostre costituzioni, in secondo luogo gli statuti locali, in terzo le decisioni de’ nostri magistrati, ed in ultimo luogo il testo della legge comune: così proibiamo a gli avvocati di citare nelle loro allegazioni veruno de’ dottori nelle materie legali, ed a’ giudici, tanto su premi, che inferiori, di deferire all’opinione d’essi, sotto pena ecc. ». Questo medesimo ordinò ne’ suoi Stati un duca di Urbino, e da gran tempo si pratica anche ne’ Regni di Francia, e d’Inghilterra, in Venezia, ed in altri paesi: segno, che ivi ancora si tien per meglio l’attenersi al solo testo delle costituzioni de’ principi, a gli statuti, e alle consuetudini de’ paesi, senza che s’imbroglino le controversie, e le menti de’ giudici con tanti autori, che vogliono fare i maestri e i legislatori, e determinar quello che è giusto o ingiusto in tanti casi, con trovarsi poi tante contrarietà e battaglie fra loro. E certamente par molto lodevole questo ripiego. Imperocchè dall’una parte datemi chi sia ben pratico di tutti i primi principj della giustizia e dell’equità, e ben fondato nella conoscenza di tante leggi e provvisioni fatte da un principe sovrano, o da altri, che abbiano autorità di far leggi; e datemi eziandio, ch’egli abbia buon lume naturale, cioè giudizio e discernimento, e sappia ben raziocinare ed applicar le dottrine a i casi, come si dee supporre che sieno tutti i giudici, eletti ne’ tribunali per decidere le cause di qualche importanza: questi ha quel che occorre per ispedire onoratamente e giustamente tutte le particolari controversie, per quanto permette la limitata vista de gli uomini. Se non si può giugnere in tanti casi alla certa cognizione del vero e del giusto, almeno truova l’uom dotto, e ben versato ne’ principj legali, ed acuto in ispiar la volontà ed intenzione de i testamenti e de i contratti, quel che è più probabile, e secondo quello giudica. Per questo più si suole stimare chi è appellato dottor di paragrafi, che quanti dottorelli, atti solamente ad infilzare autorità di dottori stampati, purché questi paragrafi si sappiano ben adattare alle controversie proposte.

Dall’altro canto converrà, che gli avvocati da che più non si possono servire dell’autorità d’altri lor predecessori, si dieno a ben raziocinare, per cavar fuori le ragioni, per le quali s’ha da far credere più giusta la lor pretensione, che quella de gli avversarj. La ragione in fatti dovrebbe esser quella, che movesse i giudici a sentenziar più in una, che in altra maniera, e non già il citar filze di autori, che hanno insegnata questa o quell’altra conclusione. Perchè quantunque si presuma, che gli autori non senza buone ragioni propongano le loro asserzioni, ed almeno i primi a metter fuori quelle loro opinioni le fiancheggino con forte raziocinio: pure al trovarsi bene spesso contrastate da altri autori quelle medesime proposizioni, nè mancando ragioni anche a questi altri: che luce mai può venire al giudice da autori si fra loro discordi, molti anche de’ quali saranno stati ben pagati, perché prestassero il loro voto ed ingegno a quelle tali asserzioni, ed avrebbono con egual prontezza e forza sostenuto il contrario, se fossero stati comperati da un altro cliente? Oltre di che chiedete, chi abbia data autorità a quel signor lettore o dottore di formar leggi, le quali s’abbiano a seguitar ne’ tribunali della giustizia. Non v’ha che i principi sovrani, e chi da loro ne riceve licenza, che possano stabilir leggi, ed obligarne i giudici all’osservanza. Oh si dirà, che gli autori legali non obbligano già chi dee giudicare, ma servono bensì ad aiutare e dirigere il giudizio de’ giusdicenti e de i tribunali per sentenziar giustamente nelle controversie scabrose e dubbiose. Imperocchè dopo aver essi ben esaminata quella tal materia, non a capriccio, ma con sode ragioni, hanno approvata quella tal opinione, e riprovata la contraria. Sicchè in fine si vien a confessare, essere le ragioni quelle, che hanno da autenticare un’opinion legale, e non già il nome di questo, o di quel dottore; e però si dee conchiudere in fine, essere il migliore e più sicuro partito quello di adoperar le ragioni, e non le autorità, nelle liti forensi. E tanto più perchè questi benedetti autori, per quanto si è tante volte detto, hanno di troppo infettata la giurisprudenza, rendendola oscura, incerta, e piena di guerre e discordie: laonde par ben di dovere, che finisca una volta il lor regno, e torni la scienza legale nel sistema, in cui la desiderò, e comandò Giustiniano, ch’ella si avesse a conservare. E se buona parte de gli statuti delle città d’Italia (porzione non picciola della giurisprudenza) si truova senza interpreti, senza comenti, e d’essi tutto dì si servono giudici ed avvocati nelle cause concernenti i medesimi statuti, adducendo le ragioni occorrenti: perchè non s’ha a fare, o non si può fare lo stesso in riguardo al gius comune, o vogliam dire al corpo delle leggi di Giustiniano? E che questa via sia la migliore, o la più spedita, sembra in qualche maniera, che ce l’insegnasse il Cardinal de Luca, uno degli eroi, e de’ più celebri maestri della repubblica legale, il cui costume fu di procedere nelle dispute colla ragione più che coll’autorità: del che egli ancora, e con buon titolo si gloriava. Noi miriamo perciò ordinariamente pochi autori da lui citati: laddove tanti altri di tal professione ne citano a dozzine e ventine per provar la medesima cosa: il che oltre al riuscire di noia a chi legge, per lo più è un vano riempimento, perchè l’uno autore senza esame copia l’altro, purchè dica a modo suo, senza che ne egli, e molto meno il giudice fondatamente esamini il perchè di quella opinione. Parrebbe pertanto, che si avesse finalmente a conchiudere col Cevallos, che, nella Prefazione al suo Speculum aureum così la discorre: « Melius respublica sine tot doctoribus gubernaretur, relictis legibus et canonicis sanctionibus absque glossa et doctorum interpretationibus, qui rem dubiam faciunt. Atque utinam omnia volumina librorum, quæ in jure consistunt, deleantur: quod esset omnibus advocatis et juris professoribus lucro et quæstui (perchè non avrebbono bisogno di quelle gran cataste di libri) utile ad salutem etc. ».

Contuttociò io non saprei mai così allegramente bandire dal Foro, e molto meno condennare alle fiamme, o alle sardelle, tante fatiche de’ poveri legisti, e quelle spezialmente, che uomini insigni, e riguardevoli tribunali ci han lasciato nella profession legale. Queste ultime almeno meriteran sempre lode, non che indulgenza; perciocchè per tante altre opere d’essi legisti (e sono ben molte) siccome di moltissime altre d’altre professioni, non sarebbe gran male, fors’anche sarebbe un gran bene, il farne un falò, o mandarle per carità in Tartaria ad addottrinar, se fosse possibile, que’ popoli barbari. E tale m’immagino io che fosse il desiderio del Budeo nel lib. 2 de orig. jur. dove dice: « Utinam prodeat nobis superstitibus Tribonianus alter, qui cornicum oculos jurisconsultis nostri temporis configat, idest qui tot voluminum acervos, quos ne Ptolomæi quidem bibliotheca caperet, certo quodam numero circumscribat ». Maggiormente poi sarà condotto il pubblico a non infierir contra di tutti i libri di legge per alcuni motivi, i quali mi sembra che si possano addurre. Allorchè sarà vietato il citar autori nelle allegazioni, e davanti a i giudici, non si sa credere, che per questo niuno abbia a pescare ne i loro libri. Quivi studieran come prima i proccuratori e gli avvocati, poscia senza produrre i nomi de i lor cari maestri, sfibbieranno nelle informazioni e ne’ contradittorj uno squarcio del Menochio, e del Barbosa, o di una decision della ruota di Roma, o di Firenze. In una allegazione comparirà la stessa dottrina, e colle medesime parole, dell’Altimaro, del Peregrino, del Mascardo, del Berlichio. A che dunque servirà il divieto di allegar autori, quando sia lecito l’allegar le medesime loro opinioni e ragioni? Secondariamente innumerabili casi son succeduti, e succedono, i quali non ha preveduto, e a’ quali non ha provveduto con tutto il suo grande apparato di leggi Papiniano. Gran fatica converrà che facciano tanto gli avvocati, che i giudici, per ricavar da i digesti e dal codice, o pure dal loro cervello, i motivi, per cui si dee decidere un caso proposto. Ma se valenti legisti hanno già esaminato il caso proposto: perchè voler qui abbandonare la scorta de’ libri d’uomini grandi, ed eccellenti dottori, e caricar di tanta fatica quel giudice ed avvocato, che fors’anche non arriveranno mai ad esaminarlo e deciderlo con tanta penetrazione ed esattezza? In terzo luogo non tutti i giudici, non tutti i campioni delle liti nel Foro, son cime d’uomini. Ve n’ha non pochi di corto intendimento, di lieve raziocinio. Almeno si van questi ora aiutando col consultare alle occorrenze quello, che han detto, o giudicato ne’ casi particolari i legisti e i tribunali, che han dato alla luce le loro fatiche. Ove si voglia levar loro questo soccorso, con tutto il buon volere non sapran dove ricorrere per luce nelle ambiguità e controversie forensi. In quarto luogo (e questo è quello che maggiormente si dee attendere) spogliato che fosse il Foro di tante opere legali, allora più che mai verrebbe a restare in arbitrio de’ giudici il sentenziare a lor talento nelle cause, ed oggi in una maniera, domani in un’altra, e posdomani in contrario, stante il dipendere dall’intendimento loro l’approvar più questa, che quella ragione: giacchè nel predetto supposto non militerebbe più contra d’essi il parere de’ precedenti savj già abolito: parere, che oggidì suol tenere in freno chi dee giudicare, e insieme dar posto e fondamento alle loro risoluzioni. In fatti da che il Cardinale de Luca tanto esaltò co’ suoi documenti e col suo esempio, l’astenersi il più che si può dal consultare i libri legali, per valersi unicamente delle leggi e delle ragioni, anzi con anteporre la stessa ragione alla legge, con pretendere, che s’abbia a stare non alla lettera, ma a i motivi prudenti della legge, o sia del legislatore: la sperienza ci ha fatto vedere, essere divenuta la giurisprudenza arbitraria ne’ giudici più che in addietro. Gli antichi stavano più saldi sulla legge. Sicché volendo noi fuggire un inconveniente, urtiamo nell’altro; e possiam temere, che in molti casi questa ragione alzando il capo sopra le leggi le soperchi, giacchè secondo la l. non omnium, ff. de leg. et senat. non si può rendere ragione di tutti quanti gli editti fatti da’ nostri maggiori; e il legista adducendo ragione, che sembri esigere miglior decreto, può pretendere più spaccio al sentimento suo, che a quel delle leggi. Che se talun dicesse, succedere anche oggidì lo stesso disordine coll’aver noi tanti libri, perchè la varietà e contrarietà delle opinioni cagione è, che il giudice possa, qualor voglia, attenersi a quella, che più gli è in grado, cioè proferir la sentenza a tenore de’ suoi desideri: gli si risponderà, che almeno ne’ libri di legge si truovano talvolta delle partite ben assicurate, alle quali un giudice si vergognerebbe di anteporre il suo giudizio, con sentenziare diversamente. Ma levati di mezzo tutti i libri di legge, poco vi resterà, che non sia in balia de’ giudici, i quali a man salva potranno sparar le sentenze, come parerà alla lor passione, o ai loro capriccio. Che se Giustiniano concorse anch’egli nel desiderio di vedere il solo testo delle sue leggi per norma de’ giudizi, vietando le interpretazioni, perchè conoscente delle stiracchiature, alle quali son sottoposte esse leggi, diranno i nostri dottori, ch’egli non pesò ben le conseguenze di un tal divieto, essendo certissimo, che i suoi resti cosa chiari non sono, che escludano ogni dubbio della sua mente, e perciò abbisognar di luce; nè comprender essi tutti i casi particolari, che alla giornata van succedendo, e porgono materia di liti. Tante altre leggi, trovandosi nella pratica o disutili, o nocive, o si aboliscono, o vanno in disuso. Lo stesso è da dire di quella sua proibizione. Io so, che resterebbe molto da allegare pro e contra in questo problema; ma di più non ne recherò io, bastandomi di dire, che non mancano lodevoli ragioni a chi desidera la conservazion delle biblioteche legali. E quando pur si credesse ben fatto ed utile il fare una scelta de’ migliori e più classici libri della giurisprudenza, condennando il resto a morir nelle botteghe de’ pescivendoli: troverebbesi bene in grande imbroglio, chi fosse deputato a questa fatica, perchè più farebbono quegli, a’ quali vorrebbe perdonare, che gli altri, a’ quali si risolvesse d’intimare l’esilio. Il perchè, quanto a me, non istimo assai provveduto al bisogno del pubblico col solamente proibir la citazion de gli autori nelle controversie del Foro. Ma se questo rimedio non vale, qual altro migliore ne suggeriremo noi? La risposta si darà nel Capitolo seguente.