Dei delitti e delle pene (1821)/XXIV

§ XXIV.

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§ XXIV.

Misura dei delitti.

Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità, che quantunque non abbian bisogno nè di quadranti, nè di telescopii per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione di circostanze [p. 80 modifica]non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori uomini di ogni nazione e di ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite di autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche per violenti impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le semplici nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società, ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior fermezza però, che può essere somministrata da un esame geometrico, da mille funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi.

Errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi li commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini, e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società, e alcune volte colla più cattiva volontà ne fanno il maggior bene.

Altri misurano i delitti più dalla dignità della persona offesa, che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe più atrocemente punirsi, che l’assassinio di un monarca; la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa. [p. 81 modifica]

Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi di un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a se solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perchè egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore: questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi: come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contraddizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo nel punire.