Daniele Cortis/Capitolo quarto
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CAPITOLO IV.
Fra le rose.
La chiesettina di Villa Carrè, accoccolata in un canto del giardino, fra il cancello e una macchia d’abeti, non aveva quasi mai posato, la notte fra il 28 e il 29 giugno, di far chiasso con le sue campanelle. Venne il giorno, venne il sole, venne il gaio vento del nord a scoter il fogliame dei pioppi lungo la strada maestra, a bisbigliar fra le rose che si arrampicano fino al graticolato metallico proteso, con una tenda, davanti alla finestra della baronessa Elena; le campanelle tintinnavano ancora. Elena, che aveva preso un po’ di sonno sull’alba, si svegliò di colpo alzando il capo dal guanciale. Non avevan suonato il campanello e portato una lettera di Daniele? Non l’avevan posata lì sul tavolino? No, sul tavolino v’erano i suoi anelli, il suo braccialetto, il suo Châteaubriand aperto. Un sogno, un sogno, era stato un sogno. Elena si alzò, aperse le finestre all’odor fresco delle montagne e del verde. Sul letto bianco, sulle pareti chiare della cameretta chiusa, come un nido d’usignuolo, nell’angolo della villa che le rose e i gelsomini nascondono, si vedeva un azzurro, s’indovinava il sereno, la purezza dell’aurora. «Festa, festa» dicevano le campane. Elena si sentì una gran voglia di piangere. Al primo svegliarsi era sempre così; poi il suo cuore si chiudeva sulla passione, e non s’apriva più, fino a sera, se non quando Elena, trovandosi sola, discendeva in sè avidamente, godeva toccarsi, foss’anche per un momento, quel fondo oscuro del cuore, sentirvi un fuoco di dolore e di vita.
Ella si vestì e si pettinò sola, in fretta. Era come una dolce musica quella cameretta; troppo dolce! Le rose avevano un odore troppo molle, una grazia troppo delicata. Si soffriva, lì, si perdeva tutto il vigore dello spirito: bisognava esser felici per abitare un nido simile, non aver nell’anima quello che ci aveva lei e che si accordava tanto, in un certo doloroso modo, con l’ambiente. Elena guardò un momento dalla finestra attraverso il fogliame delle rose battute dal vento. Le cime dei monti eran tutte vermiglie; un’ombra azzurrognola copriva i prati, le macchie, i bianchi viali del giardino, che alcuni contadini stavano rastrellando. Pensò che incominciava il terzo giorno dalla partenza di Cortis e che forse fra poche ore sarebbe venuta una lettera.
Ah, la doveva, la poteva desiderare questa lettera? Lo amava nel suo segreto; da quanto tempo! Ma non avrebbe voluto, una volta, ch’egli pensasse molto a lei. Le bastava uno sguardo amichevole, una buona parola, ogni segno di quieta benevolenza. E solo quieta benevolenza voleva dimostrargli dal canto suo, accettando di amare e di soffrire in silenzio, con l’appassionata speranza di poter fare qualche cosa per esso, non sapeva che, di poter operare su questa via un po’ di bene al mondo. Altrimenti, senza figli, divisa nell’anima dal marito, avrebbe attraversato la vita come un’ombra, mettendo forse intorno a sè un fugace ristoro su qualche afflitto, ma riportando a Dio, tremante come il servo del Vangelo, tanti inutili tesori sepolti nel suo cuore.
Ma adesso sapeva di essere amata, non dubitava di essere stata intesa da lui, adesso tutta l’anima sua era una dolcezza torbida, piena di dubbio e di tormento.
Lasciò la finestra e prese avidamente il libro posato sul tavolino. Era il terzo volume delle Memoires d’outre tombe di Châteaubriand, prestatele da Cortis. Questi le aveva detto di aver concepito, da fanciullo, un amore fantastico per Lucile de Châteaubriand, contessa di Caud; ed ella ora cercava con gelosa cura nelle memorie del gran poeta ogni parola che ricordasse la figura di sua sorella; voleva evocarne la bellezza piena di malinconia, lo spirito pieno di mistero e di genio, che si credeva superfluo sulla terra, e così difficile a conoscere, «tant’il y a de diverses pensées dans ma tête», com’ella scriveva a Châteaubriand: «tant ma timidité, et mon espéce de faiblesse extérieure sont en opposition avec ma force intérieure».
Il volume era aperto in principio del libro terzo, dov’è parlato del ritiro di madama di Caud alle Dames Saint-Michel in Parigi, e son deposte, come reliquie, le ultime lettere di lei a suo fratello. Elena era giunta, la notte, a questo passo d’una lettera senza data:
«Quelle pitié que l’attention que je me porte! Dieu ne peut plus m’affliger qu’en toi. Je le remercie du précieux, bon et cher présent qu’il m’a fait en ta personne et d’avoir conservé ma vie sans tache; voilà tous mes trésors. Je pourrais prendre pour emblème de ma vie la lune dans un nuage, avec cette devise: souvent obscurcie, jamais ternie».
Elena si era fermata qui con le lagrime agli occhi. Questo fratello che Lucilla chiamava la miglior parte di sè stessa e dono di Dio, non era egli mai stato un pericolo per lei? Quale inconscio sentimento la portava a Renato, quando, tra i boschi di Comborg, non viveva che dell’anima di lui, e, oppressa da tristezze senza nome, traduceva con esso il Tædet animam meam vitæ meæ di Job, o scriveva quelle brevi prose liriche all’aurora e alla luna, così malinconiche e pure nel pensiero, così mollemente musicali nella parola? Elena si era posta, leggendo la lettera in luogo della scrittrice; ella stessa diceva così a Daniele.
Riprese ora la lettura; ma aveva il capo così torbido e infiammato, il petto così oppresso che non potè proseguire. Si sentiva bisogno di aria e di moto. Tolse il volume e uscì per l’anticamera appuzzata di sigaro, camminando in punta di piedi onde non svegliare il barone che dormiva fragorosamente nello stanzino attiguo al suo, con la porta aperta.
Discese in giardino, pigliò il viale che scende con i declivi erbosi e con le selvette di sempreverdi alla chiesuola di San Pietro e al cancello sulla strada maestra. Incontrò il gastaldo che aveva un telegramma per il barone senatore Di Santa Giulia; e datogli ordine di portarlo subito a suo marito, uscì dal cancello, s’avviò a destra, per la strada fiancheggiata di pioppi verso le casupole di Passo di Rovese e il fiume. Pensava a Lugano, dov’era stata due giorni qualche anno addietro. Vedeva una coppa di acque azzurre, una lunga riva di case bianche, gialle, grigie, una corona di poggi e monti verdi fino alla cima.
Dov’era Daniele? La sua fantasia gli mutava luogo ogni momento. Era alla finestra dell’Hôtel du Parc, dove aveva fantasticato lei, era in un bigio villino sul lago, di cui si ricordava, o in un altro giallo e rosso sul colle? E immaginava presso a lui un’altra persona in tutte le forme, pietose o ributtanti, della vecchiaia, in tutti gli atteggiamenti del dolore, sinceri o falsi. L’incontro di Daniele con sua madre doveva essere accaduto da due giorni. Non era possibile che ne passasse un altro senza lettere. La posta non arriva che alla sera.
«Dodici ore ancora!» pensava Elena ferma sul ponticello di legno a guardar le acque ombrose del Rovese, a bere il vento vitale, odorante di prati alpini e di abeti. Passò il padrone della vicina sega idraulica e salutò attonito la «contessina» come, a Passo di Rovese, tutti la chiamavano ancora. Ella lo trattenne amabilmente, lo condusse, tra seria e scherzosa, a parlare di elezioni. Colui, un elettore influente, era stato lavorato a dovere dal barone Di Santa Giulia, e le rispose misterioso, sorridendo con un’aria di finezza che, a prima giunta, turbò Elena. Ella penetrò l’arcano e soffiò via in un momento le ragnatele elettorali del barone. Disse ridendo che in politica lei e suo marito si facevano la guerra e che anche il conte Lao ci teneva molto all’elezione di Cortis. Era una considerazione vitale, questa, perchè casa Carrè sosteneva volontariamente per metà le spese di manutenzione del ponte che era stato costruito dal proprietario della sega. Costui promise, contrito, che avrebbe votato per il signor Daniele. «Quando la mi dice così, quando la mi dice così!» E fatta una grande scappellata, tirò via per la sua strada.
Elena si avviò alla sinistra del Rovese, fra gli ontani che nascondono il fiume alle praterie. Qua il bosco fitto è lambito dalla corrente; là un seno erboso della riva accoglie l’acqua che vi gira lenta, tornando indietro. Elena si fermò, con il suo libro chiuso fra le mani, a guardar la corrente e, sull’altra sponda, in alto, i vecchi abeti di casa sua. Non vi era anima viva sul sentiero nè sulle praterie; nuvole bianche passavano sopra le vette degli abeti, velavano lentamente il sole. Che dolce sogno nascondersi con lui, per sempre, in questa quiete pensosa! «No!» diss’ella a mezza voce «no, no, no!» Riprese sospirando la via, aperse lo Châteaubriand alle ultime pagine, ben lontano dalle lettere della contessa di Caud, lesse un periodo o due su Bonaparte e richiuse il libro. Passando presso un grosso pioppo si ricordò d’essersi provata ad incidervi, parecchi anni addietro, il nome di un’amica. Guardò e non trovò niente; neppure un segno di quel tempo felice le restava più. Folli allegrie, speranze fantastiche, malinconie profonde di un giorno, profondi dolori di un’ora, dov’erano andati? Quell’amica viveva adesso in una lontana cittaduzza del Piemonte. Aveva perduto il suo unico bambino e non voleva essere consolata; non le rispondeva più.
Aveva inciso il suo nome lì, nell’autunno del 1869, a sedici anni, pochi mesi dopo aver conosciuto Daniele Cortis, che poteva essere allora sui venti. Si ricordava della prima visita dello zio e del cugino Cortis, nel maggio di quell’anno. Solo dopo il suo matrimonio, Elena aveva saputo che il vecchio dottor Cortis, già emigrato in Piemonte, non si era voluto, per causa della sua sciagura domestica, restituire, nel 1866, al Friuli; e che era stato indotto dalla sorella Tarquinia a comperare Villascura. Quanto tempo trascorso, quante cose! La sonora corrente del Rovese aveva un rombo che stringeva il cuore.
«Dio, com’ero bambina!» pensava Elena. Suo cugino, un bel giovane pieno d’ingegno e di fuoco, la guardava volentieri, ma ella non se n’era accorta che più tardi, ritornando a quei giorni con la memoria, quando ormai il vecchio Cortis era morto e Daniele andato via nel mondo con la corrente sonora.
Egli aveva viaggiato lungamente, aveva studiato economia pubblica a Berlino, l’aveva insegnata a Firenze ed era tornato dopo sette lunghi anni a Villascura per prepararsi un avvenire politico. Che anni per lei, quelli! Elena aperse il libro, si ripose in cammino, leggendo senza capir nulla, chiudendosi alle sciagurate memorie che l’assalivano.
Ogni tanto apriva loro disperatamente il cuore per finir l’angoscia di lottare con esse. Udiva allora sua madre presentarle per la prima volta il colonnello barone di Santa Giulia, lo vedeva piegare appena il capo e porgerle la mano. Poi si ritrovava nel suo letto di fanciulla, una eterna notte di dicembre, a dibatter seco stessa se rimanere in quella casa dove certi occulti segni di colpa le mettevano orrore, se dire un sì mortalmente amaro. Le sue mani strinsero il libro, gli occhi vi si confissero; ella ne lesse alcune parole a caso per aggrapparvisi, per salvarsi da quelle immagini.
Cadde su queste:
«Il n’y a qu’un déplaisir auquel je crains de mourir difficilement, c’est de heurter, en passant, sans le vouloir, la destinée de quelque autre».
Passò oltre e non s’accorse che una riga più sotto d’esserne stata morsa. Allora vi ritornò di slancio, vi si dimenticò dentro fino a che il sole, uscendo dalle spalle della montagna imminente, le sfolgorò sul libro. Sedette sopra un muricciuolo dove moriva il bosco e la strada calava al fiume che spandeva al sole le sue ghiaie scoperte, i rivi brillanti.
Ebbe un assalto di scoramento mortale. Sempre questo dubbio, questo rimorso, quest’ombra nemica: nuocere a lui quand’anche una sola parola d’amore non corresse fra loro, essere un traviamento ne’ suoi affetti, un inciampo nella sua vita! Depose il libro sul muricciuolo e cessò di pensare, assopita nel sole caldo, nella voce del Rovese. Dopo un pezzo riprese il libro, cercovvi lentamente, con le mani gelate, le parole: Il n’y a qu’un déplaisir......» Lo richiuse subito, si alzò dal muricciuolo, pieni gli occhi di lagrime, e si avviò verso casa.
Passando sotto le finestre del conte Lao lo vide che le faceva gran saluti dietro le invetriate. Gli accennò di aprire, ma n’ebbe in risposta un gesto d’orrore, una indicazione muta degli alberi che dondolavan le punte al vento. Malcanton e il conte Perlotti giravano per il giardino col gastaldo, davan ordini, pigliavano misure, studiavano il terreno, affaccendati come se dirigessero una fortificazione di campagna di faccia al nemico. Avevano a disporre il posto per la banda, il piano dell’illuminazione. Malcanton era specialmente incaricato di preparare il lawn-tennis prima che arrivassero dalla città gli ospiti attesi. Appena vide Elena da lontano, le agitò in aria una lettera, le gridò con le palme alla bocca:
«Laan, laan!
Elena trasalì, gli andò frettolosa incontro.
«È venuta la posta?» diss’ella.
Sì, quell’asino di fattorino ha trovato comodo di tenersela in tasca da ieri sera. C’è anche una lettera per te. Son venute le istruzioni, del resto; e quel tale scrive che si pronuncia laan, come dicevi tu. Ecco qua, adesso ti leggo.
Mentre Malcanton si palpava e si frugava in tutti i taschini cercando le sue lenti, Elena gli voltò le spalle.
«Ehi» diss’egli. «Elena!» Ma Elena era già in casa, onde il pover’uomo, brontolando un «bene, servitor suo» tornò al suo lavoro.
Ella trovò suo marito che tempestava e sagrava in camicia, tutto rabbuffato, contro di lei, per quella maledetta passione di andar fuori prima del sole.
Elena non attese che finisse, gli chiuse l’uscio in faccia; ma egli vi sferrò dentro un gran calcio, uscì tal quale si trovava in sala.
«Non scherziamo! disse. «T’ho a parlare molto sul serio.
«Parlare, quanto vuoi» rispose Elena «ma a quel modo no.
«Dentro!» replicò il barone tenendo l’uscio spalancato. «Faremo il grazioso per amore di Vostra Grazia. Andiamo! Fammi il piacere, santo Dio!
Elena entrò; suo marito chiuse l’uscio a chiave con un grugnito di soddisfazione e brontolò: «che suscettibilità!
«Lasciamo andare! soggiunse, perchè Elena voleva dir qualche cosa. «Si parte stasera. Siedi.
«Perchè? Ho capito, si parte stasera. Che altro c’è?
«C’è, c’è che così non si può partire.
Elena si gettò in una poltrona, si pose a leggere Châteaubriand.
«Accidenti ai libri!» esclamò il barone. «Favorisci di stare attenta. Ti dico che così non si può partire.
«Ma se non so nulla, se non capisco nulla! Perchè così non si può partire?
«Già? Quella vive a quindici mila metri sopra le nuvole. Crederesti che io fossi venuto per divertirmi in questo ladro paese di reumi, dove si gela, santo diavolo, in giugno, e piove seicento e sessantasei volte il giorno? Non ci sono neanche venuto, sai, per il gusto di dormire in un dannato guscio di noce come quello lì, con i piedi fuor dell’uscio. Questo lo sai, eh?
«Se non lo sapessi l’avrei indovinato.
«Non occorre tanta finezza. Te l’ho detto.
«E poi?
«E poi...
Il barone abbassò la voce per dire con una imprecazione oscena che non aveva ottenuto niente di quanto voleva.
«È per questo che mi aspettavi?» disse Elena alzandosi e afferrando la maniglia dell’uscio della sua camera.
«E per che diavolo vuoi che sia?
«Ma c’entro io in questo?
«A spendere, Dio santo, c’entri bene, eh?
Elena sapeva perfettamente per quali occulte vie partissero i denari di suo marito, ma sdegnò di rispondere e disse solo:
«E perciò?
«E perciò se quel mastino di tuo zio...
Elena in un lampo scomparve nella sua camera: ma prima che potesse chiudervisi dentro, il barone la seguì, gridò infastidito:
«Eh, andiamo che...
«Fuori!» diss’ella sottovoce, voltandosi a mezzo.
Egli lasciò la parola in tronco, ammutito dagli occhi sfolgoranti di lei, stette un momento incerto, e finì col trarsi indietro, sbattendo l’uscio dispettosamente.
Elena vide una lettera sul tavolino, la prese palpitando. Era di Cortis da Lugano. Aspettò un momento, poi l’aperse e lesse.
- «Cara Elena,
«Partirò probabilmente domani per costà, pregando Dio di trovarti ancora. Ho un bisogno immenso di te. A voce ti dirò tutto. Sono affranto. Come prima, non ho, per riposare il cuore, che te! E non avrò mai altri.
«Daniele»
Ella stessa non avrebbe saputo dire da quanto tempo tenesse la lettera in mano, quando suo marito rientrò annodandosi la cravatta.
«T’è passata?» diss’egli.
Ella posò la lettera aperta sul tavolo senza scomporsi e rispose tranquillamente:
«Cosa vuoi da me?
«Cosa voglio? Voglio dirti questo, che il danaro mi abbisogna e che se non l’avrò, te ne pentirai, perchè io t’inchiodo a Cefalù per tutti i sempiterni secoli, e non c’è Roma, e non c’è Veneto, non c’è Cristo che ti levi di lì. Oh vedrai che l’avrò!
«Come, lo avrai?
«Adesso, subito, da tuo zio. Se non il danaro, una righetta, o anche una parola perchè sono un buon ragazzo e mi voglio fidare. Mi basta averlo a Roma fra otto giorni, il danaro. Credi che abbia paura di tuo zio? Ora gli vado in camera e gli metto la questione: o Cefalù o danaro. Se griderà lui griderò anch’io, eh?
Si prese la lunga barba fulva, se la fece passare e ripassare tra le mani.
Elena cercò di leggergli in viso se avesse parlato sinceramente e con l’intento di ottenere da lei che si interponesse. A dir vero, una sua sincerità soldatesca il barone l’aveva; e fronte imperterrita pure.
«Farò io» diss’ella; e gli colse negli occhi un lampo di contentezza. «Farò io» soggiunse «a un patto.
«Che patto?
«Che tu non dica una sola parola. Capisci! Una sola! Altrimenti è inutile.
«Non la dirò.
«Con nessuno!
«Con nessuno.
«Adesso va e chiudi l’uscio.
L’onorevole barone aveva adocchiata la lettera aperta sul tavolo, ma uscì senza farne motto. Si riaffacciò però subito alla porta e disse:
«Sai, tu devi chiedere un’anticipazione su quello che tuo zio non ti vorrà togliere. Possono bastare quindici mila lire per ora; devi dire che ne ho bisogno per l’ultimo versamento del prestito di Cefalù, per non perdere gli altri. E devi dirgli che se non ho i quattrini porto il reggimento a Cefalù e lo metto a mezza razione. Capisci? O Cefalù, o danaro.
Elena rileggeva la lettera e rispose senza nemmanco voltarsi:
«Va bene.
L’uscio si chiuse; era sola. Allora depose la lettera e sedette nel suo letto sfatto, guardando alla finestra di ponente le rose da cui traspariva un lontano pieno di sole. Pensieri e pensieri le salivano dal cuore, disegni e propositi le si formavano dentro la fronte con un lento lavoro, e non se ne vedeva ombra nell’occhio vitreo. Solo le labbra si movevano a quando a quando senza voce, articolavano una sillaba muta, come tocche dalla parola interiore ne’ suoi scatti più veementi. Ella si alzò finalmente, andò alla finestra, e celata dietro le rose, pianse.