Daniele Cortis/Capitolo primo
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CAPITOLO I.
Vento, pioggia e chiacchiere.
Le palle cozzarono insieme due volte, forte.
«Tac tac!» fece il conte Perlotti guardandole correre attento, con il gesso nella destra e la stecca nella sinistra.
«Santo diavolo!» esclamò il senatore. «Non c’è taglio. Che stecche avete, contessa Tarquinia? Non si può giuocare.
«E dàlli!» disse la contessa, sottovoce, fra un gruppo di signore.
«Genero mio benedetto» soggiunse allargando le braccia, «più che scrivere e riscrivere che me ne mandino!
Si voltò alla Perlotti che sorrideva silenziosamente guardando il tempo dall’uscio a vetri.
«Bello, sai» brontolò. «Sarà la ventesima volta che me lo dice. Vuole che le faccia io le stecche?
«Che tempo!» disse la signora, prudente. «Fa paura.»
In faccia all’uscio a vetri il grande cipresso morto, avvolto nel glicine sino alla punta, rizzava il suo chiaro verde nel cielo livido; radi goccioloni macchiavano la ghiaia.
«Eh, sì signora, paura. — Proprio, anche: paura. — Paura, non è vero? — paura, sipo.
Era un coro di quattro o cinque fra signore e signorine in fronzoli, molto serie, molto irrigidite dal grande onore di trovarsi in casa della contessa Tarquinia Carrè.
«Sei punti a me!» gridò il senatore.
«Quanti?» rispose un personaggio invisibile.
«Sei, sei, sei! Siete sordo?
«No, ma i preti ah!
«Già; è un baccano! Fate un poco tacere a quei preti, contessa Tarquinia!
I preti giuocavano a tresette nella stanza del piano, vociavano, schiamazzavano.
«Scusate caro voi, Grigioli» disse la contessa a un giovane che parlava con la baronessa Elena Carrè Di Santa Giulia, seduta sul canapè vicino. «Andate a pregare i reverendi, con buona maniera, di non far tanto chiasso.»
Quegli s’inchinò.
«Benedetta la Sicilia» gli disse piano la contessa.
«A proposito, mi raccomando, eh!
«Cosa, contessa?
«Dove avete la testa? Cortis.
«Eh sì, va benone, contessa. Cinquanta voti sicuri, qui. Lo dicevo adesso alla baronessa Elena.
«Non parlate, caro voi, di queste cose a mia figlia, che non sa che cosa sieno nè la destra nè la sinistra. Andate là, andate là da quei reverendi... Dov’è Cortis?» diss’ella a sua figlia, poi che il giovane si fu allontanato.
«Andate, andate, giovanotto, fate tacere a preti» disse il senatore a colui che passava lungo il biliardo.
«Dite che imparino un poco da questi altri signori. Fate tacere a don Bartolo!
Presso un’altra porta a vetri della gran sala a crociera un gruppo d’uomini discorreva di qualche argomento molto misterioso, pareva, e molto importante.
Uno di loro chiamò:
«Dottor Grigiolo!
«Comandi!» rispose il giovane. «Vengo subito.» E tirò avanti verso la stanza del piano.
«È medico quel giovanotto?» disse il senatore al suo compagno.
«No signore, dottor in legge» disse questi ossequiosamente.
I preti avevano smesso di giuocare. Il cappellano don Bortolo teneva un foglio in mano e declamava dei versi tra le risate dei colleghi.
«La permetta, don Bortolo» disse l’ambasciatore.
«Bravo, dottore» rispose don Bortolo. «La venga qua, la senta anche Lei:
Ei sindaco risponde: a ghì rason.
«No, la permetta.
«Ma la perdoni, la senta!
Il dottor Grigiolo si rassegnò fremendo ad ascoltare un’altra strofa che finiva così:
E el sindaco: anca vù gavì rason.
«Va bene, ma la permetta.
«Ma la perdoni, perchè non la sa. Adesso viene il bello.
Don Bortolo, riscaldato da parecchie tazzette, come le chiamava, continuò a declamare una satira anonima, la descrizione di un battibecco fra certi consiglieri comunali intorno a un sindaco che dava ragione a tutti.
El sindaco tasea col collo storto. |
Scoppiarono risate in tutti i tôni.
«Bella, bellissima, arcibellissima» esclamò indispettito il dottor Grigiolo, «ma, caro cappellano benedetto, non vedo poi la necessità di rompere i timpani al prossimo. Capisce bene, di là ci sono tante signore e proprio la contessa pregherebbe...
«Le femmine?» rispose don Bortolo. «Perchè non ne sanno fare del chiasso, le femmine!
«Zitto, zitto, andiamo, state quieto, cappellano» dissero i colleghi.
«Bravi, mi raccomando anche per il conte Lao, che sta poco bene.
Il dottor Grigiolo guardò il più vecchio di quei sacerdoti, l’arciprete, con una faccia tra seria e compunta.
«Venga qua» esclamò l’incorreggibile don Bortolo «venga qua, dottore, non stia a combattere colle femmine e beva una tazzetta con noi. Cosa mi conta del conte Lao? Non la capisce che la sua camera è dall’altra parte? Non la sa che il conte Lao sta meglio di lei e di me? Non la sa che è matto?»
«Fate tacere a don Bartolo!» gridò il senatore dalla sala.
«Oh, hanno capito?» sussurrò il dottor Grigiolo con gli occhi fuori della testa. «L’Etna, corpo! Capace di venir qua con la stecca, perdia!
«Campanile!» fece il cappellano.
La sua uscita e il suo comico sgomento misero nella brigata una così clamorosa, irrefrenabile ilarità che Grigiolo scappò via colle mani nei capelli, mentre don Bortolo, rinfrancato, si accingeva a leggere la chiusa del poema, quest’apostrofe agli elettori:
E se non sì na massa de marson, |
«Fiasco, Grigioli!» gridò da lontano la contessa Tarquinia. Un’altra voce partì dal gruppo dei cospiratori:
«Viene, dottor Grigiolo?
Egli rispose «un momento; vengo subito» e tirava via; ma il senatore barone di Santa Giulia gli piantò sullo stomaco una mano da San Cristoforo e lo fermò di botto.
«Rispondi!» diss’egli con il suo vocione tonante. «Sei Grigioli o Grigiolo?»
Lo smilzo e sgarbato giovinotto trasalì, diede un passo indietro e guardò il senatore come avrebbe guardato Attila.
«Grigioli, veramente» rispose «ma il popolo...
«Il popolo l’aspetta se la si degna» disse colui che l’aveva chiamato prima.
«Ah, il popolo! Ho capito» disse il barone. «Voi non avete saputo far tacere a Bartolo.
«Impossibile, senatore. Impossibile, contessa. Il suo vin bianco è troppo generoso. Ci vorrebbe una pompa e dell’acqua. A momenti ne vien giusto giù un diluvio.
«Credete, sì?
«Oh sì, contessa.
«Non vi pare che si alzi un poco il tempo?
«Non vedo, contessa.
«Avete guardato bene?
«Contessa sì.
«E non vedete?
«Contessa no.
«Santo diavolo, che contessamento in questo paese!» borbottò fra i denti il senatore, curvo sul biliardo, provando e riprovando il colpo con gli occhi alla palla avversaria.
«L’uso, barone» osservò sommessamente Perlotti, ritto in faccia a lui.
«Via, che gli elettori vi aspettano» disse piano la contessa Tarquinia a Grigiolo, e lo spinse via con le mani, perchè quegli, seccato, non ci voleva andare, preferiva la compagnia delle signore alla sua missione elettorale. Poi la contessa si volse al gruppo e disse:
«Scommetto che questo tempo non fa nulla...
E subito le voci ossequiose: «Direi anch’io, contessa. — Pare di no, contessa. — Non fa niente, nopo.
Nello stesso tempo il fragor del tuono empí la sala, tutti i vetri suonarono.
«Ohe!» esclamò il senatore, buttando la stecca sul biliardo.
«Gesummaria!» disse la contessa. «Le finestre! Le finestre di sopra!
E corse al campanello.
Una signorina che prima non aveva mai aperto bocca si mise a gemere.
«Oh che nero! Oh che inferno!» gridava il dottor Grigiolo. «Venga da questa parte, contessa, se vuol vedere!
Un furioso colpo di vento irruppe dalla porta che mette in loggia, buttò le cortine all’aria, soffiò via giornali e carte, stridendo, dalle quattro cantoniere intorno al biliardo. Mentre Perlotti correva a chiudere, l’arciprete scappò fuori in furia.
«Arciprete, arciprete!» gridò Perlotti, passando la testa fra i due battenti. «È matto?
«Mi cercheranno per benedire il tempo» rispose il prete con le mani al cappello e le falde dell’abito al vento.
Il temporale, venuto su dietro le montagne di ponente, aveva girato a mezzogiorno. Turchino cupo sopra le creste cineree del Rumano, minacciava lo scuro piede selvoso del monte, le povere case sparsevi, le praterie distese davanti alla villa Carrè falciate di recente, dorate da un chiarore sinistro.
La contessa Tarquinia, il Perlotti, il barone di Santa Giulia, le signore, Grigiolo ed i suoi amici erano tutti là nel braccio della crociera che guarda mezzogiorno.
«Tempo brutto» disse il dottor Picuti, notaio del paese.
«San Giovanni e San Pietro» osservò un altro «gran mercanti di grandine.
Il conte Perlotti espresse, con grazia, il timore che quel povero arciprete non potesse arrivare a casa in tempo.
«Guardo il frumento, io» esclamò il grosso signor Checco Zirisèla che aveva il piú bel podere della vallata e non andava a messa.
«Già! u frumento!» disse il barone.
«E l’uva, cazza! L’uva!» sussurrò la signora Zirisèla.
I preti non si erano mossi dal loro salotto, strepitavano peggio di prima, quasi per soverchiar la voce dei tuoni e del vento che ruggiva rabbioso intorno ai canti della casa, sbatteva, al secondo piano, usci ed imposte, schiacciava a terra le vegellie, i philadelphus frenetici del giardino.
Neppure la baronessa Elena, rimasta sola, parea commuoversi del temporale. Abbandonata la persona sulla spalliera del canapè, teneva il viso un po’ chino al petto e le braccia strette alla vita sottile, come se avesse freddo. Gli occhi grandi, neri, guardavan le vette dei giovani abeti del giardino, agitate senza posa; parevano, nella vitrea e grave immobilità loro, vedere tra quelle vette, nel cielo oscuro, qualche fantasma, qualche solenne parola di tristezza invisibili altrui. Improvvisamente una furia obliqua di piova strepitò sui vetri, sulla mura, nascose il cielo, le montagne e gli abeti, mise un baglior bianco a tutte le porte e le finestre della sala ombrosa.
S’udì la contessa Tarquinia dir forte:
«Daniele ha preso radice di sopra. Se permettono vado un momento a vedere cosa succede.
Ella si accostò a sua figlia, le disse piano e lamentevolmente:
«Ti prego, sai, Elena, mi lasci proprio sempre sola, non mi aiuti niente. Perché tuo marito non ci soffre, anche.
La baronessa alzò appena la testa, e rispose senza guardar sua madre:
«Mio marito non mi abbada.
Ella aveva una voce un po’ grave ma dolcissima, un accento d’indifferenza molle, come di chi riposa ne’ propri pensieri e, richiamatone un momento, risponde distratto, a fior di labbro, per non guastarne la trama, per riposarvisi ancora.
«Giusto quello! disse la contessa.
«Oh che contrattempo, Elena! C’è qui la mamma!» esclamò l’amabile Perlotti, comparendo alle spalle di quest’ultima. «Io che venivo a farvi la corte!
La giovane signora alzò gli occhi al cielo.
«Va là, Elena, va là» insisteva sua madre.
«Poveretta, la si secca, e che torto! osservò Perlotti carezzevole, quasi flebile.
«C’è bene Sofia di là» disse la baronessa.
«Mia moglie? Sì, ma non è mica padrona di casa, lei.
«Neppur io.
Con questa risposta data un po’ sdegnosamente, la baronessa Elena si alzò, e andò a raggiungere gli ospiti.
«Ho paura, cara Tarquinia, che vi tocchi alloggiarli qui tutti stanotte» disse Perlotti all’orecchio della contessa, appoggiando leggermente le mani alle braccia di lei, bella donna ancora e molto elegante.
«Signore, non ci mancherebbe altro! Mi sono tutti tanto cari, ma vengono un paio di volte alla stagione, e signor sì che hanno da capitare stasera!
«Me mi metterete con quella biondina, quella Zireseta, Ziresèla, cos’è, quella biondina piccolina.
«Scempio!» disse la contessa, voltando il viso ridente. «Vado da Lao.
E andò via, seguita da una sghignazzata di Perlotti.
Si fermò in fondo alla sala, sulla porta che mette allo scalone del primo piano.
«Finalmente!» diss’ella. «Come lo hai trovato?»
Una voce virile rispose:
«Triste.
«Che novità mi conti! Il suo male è tutto lì, perchè lui mangia, perchè lui dorme, perchè lui passa le ore con le ore a leggere e suonare. Questi dolori ci saranno, io non dico, ma anche lui si ascolta molto. Il medico dice che bisogna distrarlo. Andiamo avanti, e come si fa con quella eterna luna? E poi se tu sapessi, caro te, quanta voglia posso avere di distrarre gli altri! Se tu sapessi i fastidi che ho, e la fatica che faccio a mandarli giù!
«Fastidi, zia?...
La contessa tacque un poco, si morse le labbra, soffocò un singulto.
«Niente, niente» rispose nervosamente, battendo le palpebre sugli occhi che luccicavano. «Non andrai mica via subito con questo tempo? Bravo, fammi un po’ di corte a quelle signore.
Ella salì lo scalone e il suo interlocutore entrò in sala, mentre le signore tornavano dallo spettacolo del temporale ai canapè fronteggiantisi con le loro ali di sedie vuote, fra il biliardo e la porta di ponente. La baronessa Elena fe’ un giro per passargli vicino, gli disse sottovoce:
«Grazie, sai, Daniele, che hai fatto tanta compagnia allo zio.
Cortis le strinse la mano, senza parlare. Elena lo guardò meglio, trasalì.
«Che c’è?» diss’ella.
«Una cosa grave» rispose quegli.
«Oh, ecco il nostro signor candidato!» esclamò il barone. «Questi bravi signori vogliono sapere se abbaierete a Tunisi e se morderete i ministri.
Con la sua grande persona, con la gran barba fulva, con la sua gran voce, il barone pareva un brigante normanno antico.
«Che fare di Tunisi? A noi non importa di Tunisi» disse il signor Checco Zirisèla, un patriota che non aveva soggezione di nessuno. «Non siamo mica in Sicilia, qua.
«Evviva l’Italia!» rispose il senatore. «Pensateci voi.
E si allontanò.
«Lasciamolo andare, quel trombone» susurrò il dottor Grigiolo. «Signor Cortis» diss’egli al nuovo venuto «qui i nostri amici della sezione desideravano dirle una parola.
Daniele Cortis s’avvicinò agli amici, che in attitudine rispettosa, ma fermi al loro posto nella mal dissimulata coscienza della sovranità, guardavan, con le spalle alla porta, l’uomo ch’entrava nella luce piovosa, un’alta persona elegante, una bizzarra fisonomia nobile, improntata di dignità e di risoluzione militare, due occhi azzurri, intelligenti e fieri.
«Niente» disse il dottor Picuti che incominciava sempre così le sue orazioni più gravi «niente. Qui siamo tutti persuasi, ma siccome, giusto, lo sa, si parla qualche volta con amici delle altre sezioni; io per esempio, lo supponga, e qua il mio compare Zirisèla...
«Appunto» disse Zirisèla, incoraggiando l’amico a continuare.
«Colla cosa, dico, che noi due e anche altri qui del paese si va spesso, giusto, nelle altre sezioni, e dappertutto si sente questa musica ch’Ella è poco conosciuta (cosa vuole, ignoranti!) e che non si sa come la pensi su questo e su quello; così sarebbe sorto, giusto, il desiderio che, sia con un discorso, sia con la stampa, non so se mi spiego...
«Vogliono u programma» disse il barone alle signore con voce abbastanza prudente, nell’altro braccio della sala. «hanno ragione. Quando s’è visto un candidato che non tiene u programma? È come una casa senza facciata.
«Meglio così che tante facciate senza case, che tanti programmi senza un uomo dentro» disse sua moglie vivacemente.
«È vero, Elena» saltò su la contessa Sofia, «che tuo cugino ha nome Daniele Volveno?
«Sì» rispose Elena, asciutta.
«Che nomi strampalati avete qui voialtri!» esclamò il senatore.
«Non è mica nostro veneto, barone, questo nome» rispose la Perlotti battendosi dispettosamente un ginocchio con il ventaglio. «È friulano. Il signor Cortis è friulano.
«Ma se lo so! Non volete che lo sappia? E che cos’è il Friuli? Non è Veneto? Che razza di geografia volete insegnarmi?
La signora si morse le labbra. «Domando scusa» diss’ella «ma...
Qui suo marito pensò bene di correre a mettere il naso sui vetri, gridando: «Oh Dio guardate, guardate! Che sia Malcanton quello là?»
Si vedeva un ombrello venir su traballando lungo gli abeti velati dalla pioggia.
Tutti corsero a guardare, tranne il senatore e sua moglie.
«Malcanton, Malcanton?
«Sì, perbacco che è lui!... Malcanton, contessa; è qui Malcanton!
«Oh Dio» gridò la contessa Tarquinia che rientrava allora in sala. «Io che me l’ero dimenticato!
Aveva mandato questo Malcanton, poche ore prima, a far delle commissioni.
«Eh, ma dimenticato del tutto» soggiunse. «Dio, che figura! Pare un topo annegato.
Ella aperse la porta, mise una vocina graziosa, porgendo il capo e ritirando la persona. «Presto, presto! Dentro, dentro!
Il signor Malcanton entrò, si scosse come un can barbone tenendo l’ombrello a braccio disteso, mentre la contessa gemeva a mani giunte.
«Oh Dio, poveretto, in che pena, in che pena sono stata! Poveretto, come siete rovinato! Che rimorsi! Presto, presto, di sopra, di sopra, un punch, subito!
«Fatto tutto, contessa, fatto tutto!» ripeteva il can barbone. «Fatto tutto. Parlato al signor Momi, alla signora Catina, inteso col dottore, impegnata la banda, telegrafato per i fuochi.
«E imbarcata l’acqua» mugghiò il barone seduto dietro gli altri, sul biliardo, con le gambe penzoloni. Tutti risero, tranne Malcanton che guardò colui a bocca aperta.
«Grazie, grazie infinite; ma di sopra, adesso di sopra!» insistè la contessa, ricacciandosi il riso nel petto. «Elena, vai su dallo zio? Ti prego allora, passando, questo punch.
«A proposito» riprese Malcanton «sarà anche scritto per questo libretto del Laven-tennis e per sapere come si pronuncia.
«Laan-tennis» disse la contessa Perlotti.
«Loon, loon» mugghiò il barone.
«O laan o loon, io dico laven» replicò Malcanton. «Del resto sentiremo.
La contessa Tarquinia aveva fatto venire un gioco di lawn-tennis, il primo della provincia. Nessuno sapeva adoperarlo e nemmanco si andava d’accordo sul modo di pronunciarne il nome; ma intanto alla villa Carrè c’era il lawn-tennis. Anche al Caffè d’Italia, in città, ne avevan parlato, avean disputato molto sul laan e sul loon.
«Intanto, con permesso» concluse Malcanton, e si avviò dietro la baronessa, mentre il senatore diceva con un tono singolare:
«Grandi cose, dunque, contessa Tarquinia! Un san Pietro colossale, quello dell’81!
«Pur troppo» sussurrò Malcanton, compunto, alla sua compagna, cui ostentava di parlare molto famigliarmente, come se fosse ancora la bambina di una volta. «Credi, Elena, che una lavata simile...
La giovane signora non gli badò, volò su per le scale, dimenticando il punch, ed entrò nel chiarore della grande sala vuota del secondo piano. Udì le voci dei preti e del senatore salire, mezzo spente dal pavimento, e la pioggia eguale venir giù a distesa, confermar con l’ampia e bassa sua voce quelle tre parole torbide: una cosa grave. Attraversò la sala adagio adagio, con gli occhi alla porta della camera dove Daniele era stato tanto tempo.
Una cosa grave!
Appoggiò la fronte all’uscio e picchiò due colpi sommessi.
Si rispose forte: «Avanti!