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Febbraio - Il prigioniero

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17, venerdì

Ah! questo è certamente il caso più strano di tutto l’anno! Mio padre mi condusse ieri mattina nei dintorni di Moncalieri, a vedere una villa da prendere a pigione per l’estate prossima, perché quest’anno non andiamo più a Chieri; e si trovò che chi aveva le chiavi era un maestro, il quale fa da segretario al padrone. Egli ci fece vedere la casa, e poi ci condusse nella sua camera, dove ci diede da bere. C’era sul tavolino, in mezzo ai bicchieri, un calamaio di legno, di forma conica, scolpito in una maniera singolare. Vedendo che mio padre lo guardava, il maestro gli disse: - Quel calamaio lì mi è prezioso: se sapesse, [p. 69 modifica]signore, la storia di quel calamaio! - E la raccontò: Anni sono, egli era maestro a Torino, e andò per tutto un inverno a far lezione ai prigionieri, nelle Carceri giudiziarie. Faceva lezione nella chiesa delle carceri, che è un edificio rotondo, e tutt’intorno, nel muri alti e nudi, ci son tanti finestrini quadrati, chiusi da due sbarre di ferro incrociate, a ciascuno dei quali corrisponde di dentro una piccolissima cella. Egli faceva lezione passeggiando per la chiesa fredda e buia, e i suoi scolari stavano affacciati a quelle buche, coi quaderni contro le inferriate, non mostrando altro che i visi nell’ombra, dei visi sparuti e accigliati, delle barbe arruffate e grigie, degli occhi fissi d’omicidi e di ladri. Ce n’era uno, fra gli altri, al numero 78, che stava più attento di tutti, e studiava molto, e guardava il maestro con gli occhi pieni di rispetto e di gratitudine. Era un giovane con la barba nera, più disgraziato che malvagio, un ebanista, il quale, in un impeto di collera, aveva scagliato una pialla contro il suo padrone, che da un pezzo lo perseguitava, e l’aveva ferito mortalmente al capo; e per questo era stato condannato a vari anni di reclusione. In tre mesi egli aveva imparato a leggere e a scrivere, e leggeva continuamente, e quanto più imparava, tanto più pareva che diventasse buono e che fosse pentito del suo delitto. Un giorno, sul finire della lezione, egli fece cenno al maestro che s’avvicinasse al finestrino, e gli annunziò, con tristezza, che la mattina dopo sarebbe partito da Torino, per andare a scontare la sua pena nelle carceri di Venezia; e dettogli addio, lo pregò con voce umile e commossa che si lasciasse toccare la mano. Il maestro ritirò la mano: era [p. 70 modifica]bagnata di lacrime. Dopo d’allora non lo vide più. Passarono sei anni. - «Io pensavo a tutt’altro che a quel disgraziato, - disse il maestro, - quando ieri l’altro mattina mi vedo capitare a casa uno sconosciuto, con una gran barba nera, già un po’ brizzolata, vestito malamente; il quale mi dice: - È lei signore, il maestro tale dei tali? - Chi siete? - gli domando io - Sono il carcerato del numero 78, - mi riponde; - m’ha insegnato lei a leggere e a scrivere, sei anni fa: se si rammenta, all’ultima lezione m’ha dato la mano: ora ho scontato la mia pena e son qui... a pregarla che mi faccia la grazia d’accettare un mio ricordo, una cosuccia che ho lavorato in prigione. La vuol accettare per mia memoria, signor maestro? - Io rimasi lì, senza parola. Egli credette che non volessi accettare, e mi guardò, come per dire: - Sei anni di patimenti non sono dunque bastati a purgarmi le mani! - ma con espressione così viva di dolore mi guardò, che tesi subito la mano e presi l’oggetto. Eccolo qui.» Guardammo attentamente il calamaio: pareva stato lavorato con la punta d’un chiodo, con lunghissima pazienza; c’era su scolpita una penna a traverso a un quaderno, e scritto intorno: «Al mio maestro. - Ricordo del numero 78 - Sei anni» - E sotto, in piccoli caratteri: - «Studio e speranza...». Il maestro non disse altro; ce n’andammo. Ma per tutto il tragitto da Moncalieri a Torino, io non potei più levarmi dal capo quel prigionero affacciato al finestrino, quell’addio al maestro, quel povero calamaio [p. 71 modifica]lavorato in carcere, che diceva tante cose, e lo sognai la notte, e ci pensavo ancora questa mattina... quanto lontano dall’immaginare la sorpresa che m’aspettava alla scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco, accanto a Derossi, e scritto il problema d’aritmetica dell’esame mensile, raccontai al mio compagno tutta la storia del prigioniero e del calamaio e come il calamaio era fatto, con la penna a traverso al quaderno, e quell’iscrizione intorno: - Sei anni! - Derossi scattò a quelle parole, e cominciò a guardare ora me ora Crossi, il figliuolo dell’erbivendola, che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto assorto nel suo problema. - Zitto! - disse poi, a bassa voce, pigliandomi per un braccio. - Non sai? Crossi mi disse avant’ieri d’aver visto di sfuggita un calamaio di legno tra le mani di suo padre ritornato dall’America: un calamaio conico, lavorato a mano, con un quaderno e una penna: - è quello; - sei anni! - egli diceva che suo padre era in America: - era invece in prigione; - Crossi era piccolo al tempo del delitto, non si ricorda, sua madre lo ingannò, egli non sa nulla; non ci sfugga una sillaba di questo! - Io rimasi senza parola, con gli occhi fissi su Crossi. E allora Derossi risolvette il problema e lo passò sotto il banco a Crossi; gli diede un foglio di carta; gli levò di mano L’Infermiere di Tata, il racconto mensile, che il maestro gli aveva dato a ricopiare, per ricopiarlo lui in sua vece; gli regalò dei pennini, gli accarezzò la spalla, mi fece promettere sul mio onore che non avrei detto nulla a nessuno; e quando uscimmo dalla scuola mi disse in fretta: - Ieri suo padre è venuto a prenderlo, ci sarà anche questa mattina: [p. 72 modifica]fa come faccio io. Uscimmo nella strada, il padre di Crossi era là, un po’ in disparte: un uomo con la barba nera, già un po’ brizzolata, vestito malamente, con un viso scolorito e pensieroso. Derossi strinse la mano a Crossi; in modo da farsi vedere, e gli disse forte: - A riverderci, Crossi, - e gli passò la mano sotto mento, io feci lo stesso. Ma facendo quello, Derossi diventò color di porpora, io pure; e il padre di Crossi ci guardò attentamente, con uno sguardo benevolo; ma in cui traluceva un’espressione d’inquietudine e di sospetto, che ci mise freddo nel cuore.