Cuore (1889)/Luglio/L'ultimo esame
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L'ULTIMO ESAME
7, venerdì
Questa mattina ci diedero gli esami verbali. Alle otto eravamo tutti in classe, e alle otto e un quarto cominciarono a chiamarci quattro alla volta nel camerone, dove c’era un gran tavolo coperto d’un tappeto verde, e intorno il Direttore e quattro maestri, fra i quali il nostro. Io fui uno dei primi chiamati. Povero maestro! Come m’accorsi che ci vuol bene davvero, questa mattina. Mentre c’interrogavano gli altri, egli non aveva occhi che per noi; si turbava quando eravamo incerti a rispondere, si rasserenava quando davamo una bella risposta, sentiva tutto, e ci faceva mille cenni con le mani e col capo per dire: - bene, - no, - sta attento, - più adagio, - coraggio. - Ci avrebbe suggerito ogni cosa se avesse potuto parlare. Se al posto suo ci fossero stati l’un dopo l’altro i padri di tutti gli alunni, non avrebbero fatto di più. Gli avrei gridato: - Grazie! - dieci volte, in faccia a tutti. E quando gli altri maestri mi dissero: - Sta bene; va pure, - gli scintillarono gli occhi dalla contentezza. Io tornai subito in classe ad aspettare mio padre. C’erano ancora quasi tutti. Mi sedetti accanto a Garrone. Non ero allegro, punto. Pensavo che era l’ultima volta che stavamo un’ora vicini! Non glielo avevo ancor detto a Garrone che non avrei più fatta la quarta con lui, che dovevo andar via da Torino con mio padre: egli non sapeva nulla. E se ne stava lì piegato in due, con la sua grossa testa china sul banco, a fare degli ornati intorno a una fotografia di suo padre, vestito da macchinista, che è un uomo grande e grosso, con un collo di toro, e ha un’aria seria e onesta, come lui. E mentre stava così curvo, con la camicia un poco aperta davanti, io gli vedevo sul petto nudo e robusto la crocina d’oro che gli regalò la madre di Nelli, quando seppe che proteggeva il suo figliuolo. Ma bisognava pure che glielo dicessi una volta che dovevo andar via. Glielo dissi: - Garrone, quest’autunno mio padre andrà via da Torino, per sempre. - Egli mi domandò se andavo via anch’io; gli risposi di sì. - Non farai più la quarta con noi? - mi disse. Risposi di no. E allora egli stette un po’ senza parlare, continuando il suo disegno. Poi domandò senz’alzare il capo: - Ti ricorderai poi dei tuoi compagni di terza? - Sì, - gli dissi, - di tutti; ma di te... più che di tutti. Chi si può scordare di te? - Egli mi guardò fisso e serio con uno sguardo che diceva mille cose; e non disse nulla, solo mi porse la mano sinistra, fingendo di continuare a disegnare con l’altra, ed io la strinsi tra le mie, quella mano forte e leale. In quel momento entrò in fretta il maestro col viso rosso, e disse a bassa voce e presto, con la voce allegra: - Bravi, finora va tutto bene, tirino avanti così quelli che restano; bravi, ragazzi! Coraggio! Sono molto contento. - E per mostrarci la sua contentezza ed esilararci, uscendo in fretta, fece mostra d’inciampare e di trattenersi al muro per non cadere: lui che non l’avevamo mai visto ridere! La cosa parve così strana, che invece di ridere, tutti rimasero stupiti; tutti sorrisero, nessuno rise. Ebbene, io non so, mi fece pena e tenerezza insieme quell’atto di allegrezza da fanciullo. Era tutto il suo premio quel momento d’allegrezza, era il compenso di nove mesi di bontà, di pazienza ed anche di dispiaceri! Per quello aveva faticato tanto tempo, ed era venuto tante volte a far lezione malato, povero maestro! Quello, e non altro, egli domandava a noi in ricambio di tanto affetto e di tante cure! E ora mi pare che lo rivedrò sempre così in quell’atto, quando mi ricorderò di lui, per molti anni; e se quando sarò un uomo, egli vivrà ancora, e c’incontreremo, glielo dirò, di quell’atto che mi toccò il cuore; e gli darò un bacio sulla testa.