Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi/Libro primo/16

Libro primo - Capitolo 16

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Tumulto popolare contro il Potestà, occasione a’ nemici di Giano per infamarlo. Giano si parte dalla città, ed è condannato (1295).

Così dissimulando i cittadini, la città era in gran discordia. Advenne che in quelli dì messer Corso Donati, potente cavaliere, mandò alcuni fanti per fedire messer Simone Galastrone, suo consorto: e nella zuffa uno vi fu morto e alcuni feriti. L’accusa si fe’ da amendue le parti; e però si convenia procedere secondo gli Ordini della Giustizia, in ricevere le pruove e in punire. Il processo venne innanzi al podestà, chiamato messer Gian di Lucino, lonbardo, nobile cavaliere e di gran senno e bontà. E ricevendo il processo uno suo giudice, e udendo i testimoni prodotti da amendue le parti, intese erano contro a messer Corso: fece scrivere al notaio per lo contrario; per modo che messer Corso dovea esser assoluto, e messer Simone condannato. Onde il podestà, essendo ingannato, prosciolse messer Corso, e condannò messer Simone. I cittadini che intesono il fatto, stimorono l’avesse fatto per pecunia, e che fosse nimico del popolo; e spezialmente gli adversari di messer Corso gridarono a una voce: "Muoia il podestà! Al fuoco, al fuoco!". I primi cominciatori del furore furon Taldo della Bella e Baldo dal Borgo, più per malivolenzia aveano a messer Corso, che per pietà dell’offesa giustizia. E tanto crebbe il furore, che il popolo trasse al palagio del potestà con la stipa per ardere la porta.

Giano, che era co’ Priori, udendo il grido della gente, disse: "Io voglio andare a campare il podestà delle mani del popolo"; e montò a cavallo, credendo che il popolo lo seguisse e si ritraesse per le sue parole. Ma fu il contrario, ché li volsono le lancie per abbatterlo del cavallo: il perché si tornò adietro. I Priori, per piacere al popolo, scesono col gonfalone in piaza, credendo attutare il furore. Et e’ crebbe sì, ch’eglino arsono la porta del palagio, e ruborono i cavalli e arnesi del podestà. Fuggissi il podestà in una casa vicina; la famiglia sua fu presa; gli atti furono stracciati; e chi fu malizioso, che avesse suo processo in corte, andò a stracciarlo. E acciò procurò bene uno giudice che avea nome messer Baldo dell’Ammirato, il quale avea molti adversari, e stava in corte con accuse e con piati; e avendo processi contro, e temendo esser punito, fu tanto scalterito con suoi sequaci, ch’egli spezò gli armari, e stracciò gli atti, per modo che mai non si trovorono. Molti feciono di strane cose in quel furore. Il podestà e la sua famiglia fu in gran fortuna, il quale avea menata seco la donna, la quale era in Lonbardia assai pregiata e di grande belleza; la quale col suo marito, sentendo le grida del popolo, chiamavano la morte fuggendo per le case vicine, ove trovarono soccorso, essendo nascosi e celati.

Il dì sequente, si raunò il Consiglio; e fu diliberato, per onore della città, che le cose rubate si rendessono al podestà, e che del suo salario fusse pagato. E così si fe’: e partissi.

La città rimase in gran discordia. I cittadini buoni biasimavano quello che era fatto; altri dava la colpa a Giano, cercando di cacciarlo o farlo mal capitare; altri dicea: "Poi che cominciato abiamo, ardiamo il resto": e tanto romore fu nella terra, che accese gli animi di tutti contro a Giano. E acciò consentirono i Magalotti suoi parenti; i quali lo consigliorono che, per cessare il furore del popolo, per alquanti dì s’assentasse fuori della terra: il quale, credendo al loro falso consiglio, si partì; e subito li fu dato bando; e condannato nell’avere e nella persona.