Cap. XIII

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XII XIV
Della crociata la quale fu fatta in Turchia alle Esmirre.

Quanno fu fatta la crociata sopre la Turchia ad uno luoco oitra mare lo quale se dice Esmirre, la quale crociata commosse tutta Cristianitate, la novella fu per questa via. Sapemo che la terra abitabile se divide in tre parte: Asia, Africa e Europa. Queste tre parti della terra divide lo mare, lo quale iace in mieso, a muodo de una mesa croce. In questa Asia ène una provincia piccola e moito bella e opulenta infra le aitre, la quale hao nome Turchia; que Turchia ène la prima delle aitre provincie de Asia e ène confinata con noi. Hao sette citati. La prima hao nome Esmirre. Questa stao canto mare nella ponta della terra e ène citate destrutta nella piana e ènese redutta nello monte, da longa dalla veglia citate miglia cinque. La secunna hao nome Aito Luoco, là dove stao la tomma dello biato santo Ianni vagnelista, là dove santo Ianni scrisse la Pocalissi. E veo tanto a dicere Aito Luoco quanto che aito favellare, ché santo Ianni aitamente parlao in soie profezie. La terza citate hao nome Pergamo, dove nato fu lo soprano miedico Galieno. La quarta hao nome Efeso. La quinta hao nome Filadelfia. La sesta hao nome Frigia. La settima hao nome Pamfilia. Queste sette citate fuoro de Cristiani e fuoro fatte bone vescovata ordinate per lo biato santo Ianni vagnelista. Ma allo dìe de oie per li peccati nuostri so’ de infideli le sei. La settima, cioè Filadelfia, ène de Cristiani. Ène spartuta un poco dalle aitre per uno vraccio de mare. Serve a Cristo glorioso. Nella contrada de Romania era uno imperatore de Constantinopoli lo quale avea nome Parialoco. Sio figlio avea nome Catacucino. Questo Parialoco avea moito granne fede a uno Cristiano lo quale avea nome missore Martino Zaccaria de Genova, lo quale era nobile e valente mastro de guerra. Fecelo sio armiraglio de mare. Tutta la contrada dello mare guardiava in servizio de Parialoco. Granne onore renne a sio signore. Navi e iente avea a sio piacere. Puoi questo Parialoco donao a missore Martino per soa spenzaria una isola moito bella e nobile, de granne frutto, cioène l’isola de Chio. De quella isola veo la mastice, quanta ne ène. Là cresco li arbori delle lacrime, delli quali la mastice se fao. Granne era la baronia de missore Martino. Là demora con soa famiglia e masnata granne e manente. Accadde che Turchi tuolzero a Genovesi una terra canto mare, la quale se dice Fogliara Vecchia. Puoi li toizero Metellina, la quale stao dalli confini de Atena in Grecia, dove fu lo Studio. Puoi li assediaro per mare e per terra la citate de Pera. Per onne via la volevano. No·lli poteva campare. Missore Martino, consideranno l’onta de suoi citadini, anche lo danno, più no·llo poteva patere. Armao soie galee con suoi valestrieri e bella oste e destra iovinaglia. Vao per mare, e infoderao Pera, e leva dell’oste Turchi, e moito danno li fece. Puoi vetao che nullo mercatante turco usassi in sio terreno, nella isola de Chio. Nella ponta della provincia de Turchia signoriavano tre grannissimi baroni. Frati carnali erano. Lo primo avea nome Morbasciano, lo secunno avea nome Cherubino, lo terzo avea nome Orcano. Questi signoriavano la citate delle Esmirre e Aito Luoco e moite terre. Questo Morbasciano faceva cogliere lo passaio e la gabella delle mercatantie le quale passavano per mare canto sio terreno. E coglievase lo passaio in quella ponta dove oie Veneziani haco edificata la citate delle Esmirre, nella pianura canto mare dove fu la citate antica. Questi passaieri e gabellieri non reguardavano alcuno, spezialmente li mercatanti de Venezia. Quanto volevano aizare lo pedag[g]io, tanto lo aizavano. Onne Veneziano se reputava sforzato per questi passaieri. Non valeva rechiamo che facessino a Morbasciano. Accadde che in quella Veneziani. Stava l’oste sopra Negroponte. Intorno intorno guastava lo paiese, olive, vigne, arbori fruttevili; serrano le strade. Per la moita iente Negroponte affamava. Era in Negroponte lo patriarca de Ierusalem — don Manuello Camorsino avea nome —, veneziano, frate de santo Francesco, omo mannifico, de granne senno e onesta vita. Forte se vergognava essere assediato con tanta bona iente. Non sao qual via prenna per campare. Po’ alcuno tiempo, non troppo, viddero navi che apparevano per mare. Dodici fuoro le galee, lo confallone de Santo Marco de Venezia. Missore Pietro Zeno, lo vittorioso e franco capitanio, era loro connuttore. Quanno questi Turchi sentiero l’armata de Veneziani che·sse accostava, levarose de campo e tornaro a reto alle loro citate. La prima cosa forniero fortemente la ponta delle Esmirre, che là non potessino Veneziani allo puorto fare capo. Levata l’oste de campo, esse fòra de Negroponte don Manuello, lo patriarca, con cavalieri e pedoni, con vettuaglia de biscuotto e fava, carne secca e vino. Sequita li Turchi. Entra in mare. Conubbe che·lla ponta delle Esmirre era guarnita. Non ce poteva arrivare. Allora con tutta soa iente se posao dodici miglia da longa ad una isola che stao in mare, la quale se dice isola de Cervia. Là se posao. Tre dìe stette con non poca suspizione. Po·lli tre dìe galee de Veneziani e de Genovesi ionzero. Allora fecero una moito bella ordinanza de galee e vaco inver’ le Esmirre per averle. Lo puorto non potevano entrare. Lo luoco era forte. Le valestra e·lle frecce iettavano. Non era via de entrare. Allora de queste galee se partiro alquante e esfilatose luongo luongo canto mare a mano manca ivano queste galee caricate de tavole e portavano castella de lename patriarca abbe sio consiglio. Non demorao niente. Non voize avere speranza in solo lo finire per mare. Fece fare intorno a questo luoco uno cegnimento de muro de preta. Onne perzona mura caice, terra, prete della ruvina delle antique case, puro che vista aia de muro. Lo patriarca con uno nobile cavalieri francesco, nome Fiore de Belgioia, pusero li fonnamenti con loro mano. Fecero allo murato solo una porta inver’ la Turchia. Guardava invierzo lo mare. Non avea muro. E cuoizero tanto terreno quanto fussi una piccola citatella. Là allocaro la iente. Vedesi capanne fare, la piazza, lo mercatale, lo cagno della moneta. Tal fao vidanna, tal venne, tal compara. Anche renchiusero drento acqua doice, viva fontana. Puoi fu fatto intorno a questo murato, per più fortezze, una fossa moito esmesuratamente larga, sì che, quanno era bisuogno, metteva lo mare intorno allo luoco. Se alcuna nave veniva per mare con grascia, secura non veniva, perché curzali de Turchi anche giravano lo mare. Moito danno facevano. Puoi che saputo fu che·llo luoco delle Esmirre era fonnato, allora la grascia veo dalle avitazioni intorno. Viengo con fodero quelli de Modone, quelli de Corone, quelli de Patrasso, quelli de Malvasia, quelli de Fogliara e quelli de Filadelfia. Quanno Morbasciano abbe saputo che·lla ponta delle Esmirre aveano venta Veneziani, mannao soie ambasciate per tutta Turchia. Tutta Turchia curre allo reparo. La adunanza se fao de Turchi alle fortezze della montagna invierzo Aito Luoco. Più ’nanti non viengo, salvo non fussi per badalucco fare. Ora vedesi onne dìe currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano. Curro Turchi, lo simile faco. Imbuscanose, fiero de sùbito furiosamente, fugo voitannose. Granne danno faco. Moito bene li vedeva omo descegnere e sallire per la montagna l’uno po’ l’aitro a filo a filo. Avevano loro ronzini piccoli, moito currienti, piccole teste, ferrati delli piedi denanti, dereto desferrati. Così currevano. Parevano daini alesantrini. La maiure parte de questi Turchi portavano, loro usanza, vestimenta bianche de panno de lino, larghe le maniche e longhe, corte a mesa gamma. Nulla defferenzia ène dalle cotte delli chierici. In capo capielli bianchi collo pizzo luongo a muodo dello cuollo de cicogna. Varve avevano foite e luonghi capelli. In vraccio una rotella lavorata atorno a muodo de uno grannissimo taglieri, ingessata. Questi soco loro pavesi. Da lato portavano spade turchesche moito fornite; e non haco ponta e soco alcuna cosa piecate dallo lommo, lo pietto tagliente. Anche gran parte de loro portava lance con uno fierro pulitissimo, moito fortemente lato; alcuno era ’naorato. Da lato portavano arcora e turcassi con frezze. Deh, quanto granne male con loro frezzate facevano! De quelle frezze era alcuna nella quale stava avvolto uno filo d’aoro; ché la freccia dignitate avea. Anche ce erano fra essi moiti armati con iubbe doppie de panno incerato, larghe, lavorate con belli lavorieri, coperte de sannati e de ballacchini. Ora se comenza la dura e aspera guerra per terra e per mare. Entra in mare missore Pietro Zeno de Venezia e vao attornianno tutta la Turchia. Arde le terre canto mare. Là dove sio stuolo se posa non hao reparo. Puoi li venne alle mano una bella caienza e nova pescascione. Cinque legni de Turchia currevano la marina e menavano Griechi e Greche, li quali avevano presi con loro bieni, pecora, vestiame e aitro arnese. Questi Griechi erano delle ville canto la marina. Erano presi da Turchi e derobati. Loro ville erano arze. Quanno missore Pietro vidde questi legni da longa, conubbe la soa ventura. Aiza le vele de soie galee allo viento. Così le ionze como fao lo sparvieri la quaglia. E conoscenno che preda portavano disse: «E pateremo tanto detoperio?» Dodici galee avea. Ferivano soie galee dalla proda nello ventre delli legni de Turchi e affonnavanolli in mare. Erano quelli legni non granni. Tre ne fuoro affonnati in pelago con ciò che drento era. Non ne campao anima vivente. Li doi legni fuoro intorniati e presi. Nell’uno stava lo ameli dello mare, che veo a dicere mastro e signore. Avea nome Mostafà. Queste doi non fuoro sfonnate, perché non fecero alcuna resistenzia. Parze meglio servareli vivi. Quanno se traievano li Turchi delli loro legni, ad uno ad uno se legavano in canna con una corda. Onneuno incrocicchiava le mano allo pietto e inchinavanose, como fecessino reverenzia, e dicevano: «Ano stavròs, stavròs»; quasi veo a dicere: «Perdonetece, ca volemo la croce e essere cristiani». Ora ne torna lo franco guerriero, missore Pietro Zeno, con questa caccia alle Esmirre. Mentre questo Mostafà stava in presone, una lettera in soa lengua li venne da una soa donna. Drento nella lettera era uno cierro de capelli moito bionni. Puoi cavalcava missore Pietro Zeno per terra e fao granne danno. Vao pericolanno tutte quelle locora de Turchi, quelle castellanze. Li fao troppo granne paura. Quanno missore Pietro Zeno cavalca per terra, missore Martino Zaccaria guerrea per mare e quanno l’uno per mare, l’aitro per terra, tempestano e pericolano Turchia. Non li puoto resistere le fortezze de sopre ad Aito Luoco. Se apparecchiano de resistere Turchi. Missore Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova erano doi franchi capitanii, sufficienti ad onne fatto, luonghi como doi aste, macri e bruni, bene armati ed assettati. Defetto infra li Cristiani fu che non aveano iente da cavallo. Poca iente da cavallo con essi era. Erance lo sufficiente conestavile todesco, de chi de sopra ditto ène, lo Malerva, lo quale po’ la sconfitta de Parabianco nelli campi de Milano per voto era venuto a servire con vinticinque cavalieri a soie spese uno anno. Erance missore Nolfo, lo nepote dello re de Cipri, con cinquanta uomini da cavallo, tutti cavalieri a speroni d’aoro, perzone de gran fatto. Erance lo patriarca, missore Manuello Camorsino de Venezia, frate minore. Erance uno nobilissimo barone de Francia: Fiore de Belgioia avea nome. Questo Fiore de Belgioia se trovao a fonnare le mura collo patriarca, como ditto ène. Pedoni ce erano da quinnici milia, non armati così sufficientemente como se deo; perché la cosa non era penzata, e in longa contrada. Era dello mese de iennaro, anno Domini MCCCXLV, in dìe della festivitate de santo Antonio. Sentìo lo patriarca che la iente de Turchi era moitiplicata in tanto che credeva essere assaitato drento dallo sio redutto. De ciò abbe ferma fede. Auto consiglio colli maiuri della Cristianitate, cioène missore Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, Fiore de Belgioia de Francia, missore Nolfo de Cipri, Malerva conestavile lo Alemanno, fu deliverato de non mostrarese timorosi, anche fare resistenzia a muodo de uomini costanti. Era una chiesia antiquissima, la quale hao nome Santo Ianni. Dicesi che·llo biato santo Ianni la edificao. Questa chiesia fu lo vescovato de quella terra ’nanti che fussi destrutta la citate, mentre che se avitava da Cristiani. Po’ la destruzzione era remasa campestre. Questa chiesia era da doi valestrate longa dallo muro noviello. Non era coita drento dallo cegnimento. In questa chiesia entrao lo patriarca colli sopraditti baroni in numero de quaranta. Moito rengraziano Dio de tanto beneficio, ché haco recuperata la chiesia de Cristiani, la quale era perduta. Ammirano le mura, la treuna, la aitezza e benedico Dio e santo Ianni, ché soa chiesia haco recuperata. Puoi là fu celebrata la messa con grannissima solennitate. Con lacrime, devozione e alegrezze pregano Dio che così succeda in tutta Turchia. In doi muodi rasciona la iente de questa novitate. Alcuno dice: mentre che lo patriarca colli quaranta sopraditti cantava la messa, li Turchi venivano in granne moititudine queti per la costa, nascuosti fra li arbori, e entraro nella chiesia de Santo Ianni e là, mentre la messa se cantava, presero li sopraditti quaranta e là sì·lli occisero e decapitaroli. Né succurzo non àbbero, perché·lla iente da pede era alcuna cosa lontana. Alcuno me dice per aitra via, e ène verisimile. Disse ca·llo vidde perzonalmente, e ciò fermao per sacramento. Disse questo, che nello dìe de santo Antonio de iennaro, nella chiesia de Santo Ianni fore le Esmirre, fu cantata la messa con moita solennitate. Po’ la messa lo patriarca predicao moito bene e confortao li Cristiani a persequitare la iente infidele e recuperare le terre de Cristiani e liberare le chiesie sette de mano de cani. Puoi disse: «Forza che Dio me volessi visitare, sacciate che nella mea gamma ritta aio una sanice». Puoi fece la croce e deo soa benedizzione a tutto quello puopolo. Da quinnici milia Cristiani erano da pede. Po’ questo se armao de tutte arme: corazze, falle e maniche, una varvuta in testa, cossali de fierro tutti lavorati. De sopre dalle arme se iettao uno ricco manto vescovile, lo quale se dice piviale, tutto lavorato a seta e aoro fino filato, adornato de perne e prete preziose, como se conveo a così aito prelato. In mano una spada nuda lucente teneva. A cavallo in uno potente destrieri ben pareva barone. Dao de speroni e vao allo martirio de buono core. Sequita po’ esso missore Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova, armati, adornati, como puoi credere. Lo loro essire alla vattaglia fu senza provisione. La iente non era conestavilita. Bene aveano sentito lo romore delli Turchi, ma non credevano che tanto da priesso fussino li aguaiti e·lle poste fra essi. Como iessiro, non tennero la deritta via, anche dechinaro alla sinistra per la più largura. Lo puopolo buono piezzo po’ essi tenne dalla parte destra. Credevanose sequitare chi non iva denanzi. Quanto più vaco meno trovano. Erano quelle locora non domestiche, anche paurose per li moiti impedimenti de mura rotte, fonnamenti de case e de torri; locora senza vie, locora da intanare iente. Quanno li tre, lo patriarca, missore Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, fuoro alquanto delongati, se retrovaro soli senza sequito nello laberinto delle deserte case. Là de sùbito se descopre la posta de Turchi. Senza romore fuoro intorniati. No·lli vaize scrullare loro spade, no·lli vaize loro defesa. Fuoro in terra da cavallo. Loro teste subitamente fuoro partite dallo vusto. Tre baroni recipero lo santo martirio e fuoro fatti cavalieri de Cristo. Quelli cani turchi le loro teste ne portaro. Portarone le arme loro e li belli adornamenti. Anche ne menaro li loro destrieri. Le corpora nude in terra lassaro. Ad presulem tamen plangibilior casus fuit. Nam eques insuper — Dardo nomen erat — in virum sacrum sceleratas primum manus iniecit clavaque ferrea ictus ictibus cumulans moribundum semianimemque pontificem leva tenuit arreptoque gladio caput obtruncat, nudatumque cadaver ad terram prolapsum dimisit venerabilemque calvariam ornato involvens pallio ad suos abiit. Ora esse fòra pienamente la iente. Nella escita fu saputa la morte dello patriarca e delli doi canfioni, perché fuoro trovate le corpora dalla codata dello stuolo. Granne è la tristezza, granne è lo pianto, maiure la vergogna de tornare. Ciascheuno otta de morire. Iesse fòra alli nudi campi lo adorno cavalieri francesco, Fiore de Belgioia, adorno con arme smaitate, lavorate de nobile maiesterio. Alegramente vao a prennere la corona. Iesse fore missore Nolfo, nepote dello re de Cipri, adorno como reale. Iesse fòra Malerva lo Todesco, lo buono conestavile da sessanta cavalieri. Dopo essi tutto l’aitro puopolo. Como fuoro alli discopierti campi, vedesi cavalli currere, vedesi volare de frecce, iettare de lance, ferire de spade. Moita iente de·llà e de cà cade. Non ce se trova reparo. Fiore de Belgioia non voize campare. Sperona sio destriero. Con una spada in mano defennennose muorto cadde fra quella canaglia. Missore Nolfo, nepote dello re de Cipri, fu passato da doi frezze e sì morìo. Malerva lo Todesco fu presone vivo. Vivo fu scorticato dalli cani. Moiti Cristiani moriero, moiti ne fuoro presoni, moiti ne fuoro coronati dello santo martirio. Chi fu arzo poco da longa dalle Esmirre, chi fu scorticato, chi fu decollato. Alla fine Cristiani non potevano più sostenere. Daco la voita in reto e tornano alle Esmirre, e misero lo mare intorno alle fosse e salvarose dallo furore de quelli cani li quali venivano taglianno e occidenno Cristiani e prennenno. E così abbe fine lo occidere, chiuse le porte delle Esmirre e data l’acqua intorno. Infiniti tamen ne fuoro muorti delli Turchi, presi e scorticati. Scoita bella novella! Disseme uno, lo quale tutte queste cose vidde, che moiti Turchi fuoro presi, fra li quali ne fu alcuno moito grasso. Questo così grasso scorticaro vivo e·llo cuoro lassaro cadere ioso como le brache e lassarolo. Como fu lassato, gìo umilemente. Puoi che fu nello securo (vedere bene se poteva), voizese lo Turco scorticato e con doi mano faceva le ficora alli Cristiani, sì rotonne che bastara che fossi stato de agosto. Ora se chiudo Cristiani nelle Esmirre. Non haco caporale. Vao la novella alla citate de Venezia, vao in corte de Roma, vao per tutta Cristianitate, vao denanti allo papa e alli cardinali. Forte se dole la corte della acerva morte dello patriarca, della rotta de Cristiani. Uno granne Consiglio fu fatto in Venezia fra li maiurienti e·llo duce. Fu deliverato che tutta loro potenzia ponessino in vennicare l’onta de loro citatino, anche per vencere la pontaglia e tenere le Esmirre a mano potente. Questo fare non se poteva senza vraccio papale. L’ambasciata de Veneziani fu denanti allo papa in Avignone e domannaoli umilemente la crociata sopra Turchi. Papa Chimento recipéo graziosamente questi ambasciatori e offerze soa voluntate bona. Allora vao la voce per tutta Cristianitate della crociata fare: remissione de pena e de colpa a chi serviva, chi se moriva deritto ne iva alli piedi de Dio non piecanno né da lato manco né da lato ritto. Predicata non fu questa crociata per li puosti dalla Chiesia, né servato l’ordine lo quale se devea servare, se non che sola tanto la voce mosse la iente. Granne commozione fu fatta. Ora se apparecchia la moita iente a volere morire per Dio: uomini, femine, frati, prieiti. Tal venne possessione, tale arnese. Movese chi hao la moneta; chi non, la vao cercanno. Tale vao mennicanno per Dio per poterse connucere alla frontaglia. Nella Cristianitate non fu citate, non fu castiello, non communanza che non ne venissi la moita iente. De tale citate doiciento, de tale treciento, de tale cinqueciento, de tale milli. Considera quanta moititudine fu! Anche se vestivano cutale camise bianche. De sopre aveano croci rosce de panno roscio. Moito stavano conti per le piazze con così fatto vestimento. Tutte le strade vedevi renovare de così fatta iente. Caminante onne perzona arriva ad Ancona. Là entra in mare e passa alle Esmirre. Anche servavano aitra connizione, che li odiosi rennevano ferma pace, puoi se vestivano lo sopraditto abito. Quanno papa Chimento vidde tanta commozione e che retenere non se poteva, parzeli meglio dare a tanta moititudine capo, ca senza capo tanto puopolo bene non stava. Commannao a missore Guido, dalfino de Vienna, che questo peso portassi. Obedìo lo dalfino allo santo patre. Prenne lo confallone della croce e con soa cavallaria passa la Provenza. Veo in Italia. Arriva ad Ancona, da Ancona a Negroponte. Per lo camino soa moglie, la soa donna, morìo. Intanto alle Esmirre iogne lo granne puopolo. Tutto dìe le nave de Veneziani questa iente portavano. Quanta moneta guadagnavano quelle navi! Quanto scorticavano! De uno vile bagattino non facevano cortesia. Viengo quelli de Modone, quelli de Corone, quelli de Fogliara, quelli de Patrasso, quelli de Malvasia. Veo la bella e onorata iente de Filadelfia bene a cavallo, bene armata. In questo mieso moiti badalucchi fuoro fatti per la libertate dello ire, non senza danno. Piacque intanto a Veneziani de fare alcuna triegua fine che lo dalfino venuto fussi. La ambasciata ne gìo ad Aito Luoco da parte de Veneziani per la triegua. Demannavano le Esmirre interamente. Quanno la ambasciata fu ionta, Morbasciano iaceva in terra appoiato sopra lo sinistro vraccio e sì pranzava. Grasso era tanto esmesuratamente che pareva votticiello lo sio ventre; vestuto de bisso moito nobilemente lavorato a seta. Denanti li venivano scudella de preta storiate, lucente, piene de vidanna con zuccaro, latte de miennole, ova e spezie e risi. E sì teneva in mano uno cucchiaro d’aoro e fortemente devorava. Odita che abbe la ambasciata, non se levao suso da sio pranzo, ma fra l’aitre paravole disse: «Noi sapemo bene che per certo lo dalfino sopra noi veo. Mentre che durano doi nuostri prosperosi amici, li quali demorano fra la iente cristiana, noi non dubitamo». Dissero li ambasciatori: «Quali soco questi vuostri amici?» Respuse Morbasciano, né per interprete, anche in lengua latina, e disse: «Soco Guelfo e Gebellino». Intanto ionze lo dalfino de Vienna nelle Esmirre. Trenta cavalieri avea, non più. De colpo, como ionze, così fece enzerrare le porte e teneva la iente a freno; no·lli lassava avere libertate dello iessire. Presure currerie fuoro fatte. Moiti Turchi fuoro presi. La iente ne venne moita de Roma, della Alamagna, de Francia, de Piccardia. Non ce remase citate. Deciotto durao questo assedio e questa pontaglia. Quinnici milia Cristiani ve·sse retrovaro ad uno ponto. Po’ questo comenzao la cosa a dechinare. Lo callo era granne, la polvere sì granne che fi’ a mesa gamma l’omo se ficcava nella polvere. La iente infermava forte, morivane como le pecora. La carestia ce era granne. Lo mastro dello spidale de Rodi vetava che·lle navi de Veneziani non venissino, anche mannava lo fodero e·lle arme alli Turchi. Donne la iente se turbava. Gran parte se mette in mare e torna. Gran parte ne veo. Poca iente remaneva. Quanno la iente se partiva, tutta la moneta che avevano li era toita per le guardie de Veneziani. Forte erano cercati. Lo dalfino fonnao aitre mura più larghe con torri e con porte e fossati de bona e ferma preta. Là Veneziani pusero loro guardiani, e fine allo dìe de oie là tiengo quella terra. Fatte queste nove e secure mura, lo dalfino non abbe più luoco. Partìose dalle Esmirre e tornao in sio paiese. Aitra cosa nulla de novitate fatta per esso non fu. Questo cutale fine abbe la cruciata alle Esmirre.