Cronica/VIII
Questo testo è completo. |
[Vita di Cola di Rienzo] (XIV secolo)
◄ | VII | IX | ► |
Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io’, ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile, nella Metaora, ca questa non è verace stella; anche ène una fatta nella sovrana parte de l’airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti. In bona fe’, ca così fu; ca, como questa desparze, così per Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta. E sì·lla àbbero Veneziani e presero drento missore Alberto della Scala de Verona; e fu mannato in Venezia, in presone. Anco sequitao la destruzzione e·lla ruvina de missore Mastino della Scala, lo quale fu tanto potente e tiranno che se voize fare rege de corona. E puoi perdìo onne cosa e venne a convenevile stato. La quale novitate fu per questa via. Po’ la morte de missore Cane della Scala remase un sio nepote: missore Mastino abbe nome. Questo missore Mastino della Scala fu delli maiuri tiranni de Lommardia: quello che più citate abbe, più potenzia, più castella, più communanze, più grannia. Abbe Verona, Vicenza, Trevisi, Padova, Civitale, Crema, Brescia, Reggio, Parma. In Toscana abbe Lucca, la Lunisciana. De XV grosse citate fu signore. Parma venze a forza de guerra. Mentre che soa oste se posava sopra alcuna citate, derizzavali sopre quaranta trabocchi. Mai non se partiva, finente che non era signore. Voleva essere signore sì per forza sì per amore. Puoi mise pede in Toscana. Abbe Lucca e ingannao Fiorentini, donne Fiorentini li ordinaro quella ruvina la quale li venne de sopra. Puoi menacciava de volere Ferrara e Bologna. Una cosa faceva alli nuobili li quali li davano le citate, che·lli teneva con seco e davali granne provisione. Moiti erano li baroni, moiti erano li sollati da pede e da cavallo, moiti li buffoni, moiti so’ li falconi, palafreni, pontani, destrieri da iostra. Granne era lo armiare. Vedesi levare cappucci de capo, vedesi Todeschi inchinare, conviti esmesurati; tromme e cerammelle, cornamuse e naccare sonare. Vedese tributi venire, muli con some scaricare, iostre e tornii e bello armiare, cantare, danzare, saitare, onne bello e doice deletto fare. Drappi franceschi, tartareschi velluti intagliare, panni lavorati, smaitati, ’naorati portare. Quanno questo signore cavalcava, tutta Verona crullava. Quanno menacciava, tutta Lommardia tremava. Infra le aitre magnificenzie soie se racconta che LXXX taglieri de credenza abbe una voita che voize pranzare in cammora. E onne tagliero abbe uno deschetto, onne deschetto abbe doi baroni. Iudici, miedici, letterati, virtuosi de onne connizione avea provisione in soa terra. La soa fama sonava in corte de Roma. Non hao simile in Italia. Ora se mannifica missore Mastino. E considerannose essere tanto potente, gloriavase, non conosce la frailitate umana. Quanno se vidde in tanta aitezza, fece fare palazza esmesurate in Verona. E per fare le fonnamenta guastao una chiesia: Santo Salvato’ abbe nome. Mai bene non li prese da puoi. Puoi comenzao a desprezzare li tiranni de Lommardia. Non curava de ire a parlamento con essi. Puoi fece fare una corona tutta adornata de perne, zaffini, balasci, robini e smaralli, valore de fiorini XX milia. Questa corona fece fare, perché abbe intenzione de farse incoronare re de Lommardia, e de fierro la fece de fatto, per industria e per sagacitate de sio pietto, a dare a intennere che per fierro de arme avea guadagnato sio reame. Quanno questo abbe fatto, l’animi delli tiranni de Lommardia furono forte turvati: bene penzano via de non essere subietti a loro paro. Questo missore Mastino fu cavaliero dello Bavaro, e fu omo assai savio de testa e iusto signore. Per tutto sio renno ivi securo con aoro in mano. Granne iustizia faceva. Fu un omo bruno, peloso, varvuto, con uno grannissimo ventre. Mastro de guerra. Cinquanta palafreni avea da soa cossa. Onne dìe mutava robba. Doi milia cavalieri cavalcavano con esso, quanno cavalcava. Doi milia fanti da pede armati, elietti, colle spade in mano ivano intorno a soa perzona. Mentre che sequitao la vertute, crebbe. Puoi che insuperbìo, comenzao a deluviare, anche comenzao a corromperese de lussuria. Forte deventao lussurioso. Che avesse detoperate cinquanta poizelle in una quaraiesima se avantao. Questi vizii lo fecero cadere de sio onorato stato. Puoi manicava la carne lo venerdìe e·llo sabato e·lla quaraiesima. Non curava de scommunicazione. Lo muodo che cadde de soa aitezza fu questo. Avea un sio frate, lo quale avea nome missore Alberto della Scala. Questo missore Alberto fu mannato a reiere Padova, ché·llo mannao a muodo reale. Conti, baroni, sollati e aitra moita iente abbe con seco. Bellissima fu soa compagnia. Questo missore Alberto teneva questa via. Entrava nelle monistera delle donne religiose. Demoravance tre o quattro dìe. Puoi visitava l’aitro. Donqua era alcuna bella monaca detuperava. Puoi usava paravole laide sempre e detoperose. Missore Marsilio da Carrara e missore Ubertiello da Carrara erano li maiuri de Padova, quelli li quali li aveano data la signoria, e suoi parienti erano. Questo missore Ubertiello avea una soa bella donna. Per tutta dìe, per tutte ore non finava missore Alberto de spaziare e dicere: «O missore Ubertiello, mannuca bene, ca te aio fatto doi voite revaglio questa notte». Mai non finava. Ad onne tratto questo diceva. Missore Ubertiello rideva. Collo riso passava. Lo ridere non descegneva. Missore Alberto avea con seco una compagnia desordinata, iente valorda e sboccata. Ciarloni non guardavano que·sse facessino e dicessino. Li simiglianti costumi conveniva che avessi lo signore. Ora continua missore Alberto lo desordinato favellare e non se ne sao remanere. Tuttavia dice: «O missore Ubertiello, tre voite t’aio fatto cocozzo in questa notte». Questa villania dicere non lassava né per soa ientilezza né per soa onoranza dello consorte né per parentezze né per bene volere né per onestate né per alcuna via Missore Ubertiello de ciò crepava. Più non poteva sostenere Marsilio fu un savio cavalieri e moito scaitrito e secreto. De colpo cavalcao a Verona e parlao con missore Mastino. E deoli ad intennere che poteva essere lo più granne omo che fussi mai nella contrada e che poteva domare lo regoglio e·lla grannezze de Veneziani. E deoli lo muodo e l’ordine per questa via: «Missore Mastino, tu hai nello tio terreno de Padova una villa la quale se dice Bovolenta. Questa Bovolenta se destenne nelli paludi canto la marina. Antiquamente ce stavano fila e facevacese lo sale. Tu, omo granne, se fai lo sale in tio terreno, nullo te porrao vetare de usare toa rascione. Quanno Veneziani vederanno che tu farrai lo sale, overo te farraco tributo de moita moneta overo lo loro sale non tanto valerao. E quella moneta, la quale hao la Cammora de Venezia per lo sale, l’averai, donne serrai maiure allo doppio e·lli puorci veneziani verraco alla vostra mercede. Anche in toa scusa manna là una ambasciata, dicenno che questo non aiano Veneziani per iniuria: con ciò sia cosa che voi usete vostra rascione nettamente, non volete perdire le rascioni dello padovano. Non esforzete alcuno. Nello luoco usato volete fare lo sale in vostro terreno per avere la dovana e·lla granne pecunia per le spese le quale occurreno per li sollati e aitre grannezze fare». Questo uosso mise in canna missore Marsilio a missore Mastino. Crese lo tiranno alli fallaci ditti, credennose volare più aito che Dio non consentiva. Allora incontinente commannao che nella villa de Bovolenta, canto la marina, alli staini fosse fatto uno bello castiello de lename, lo quale dilientemente fosse guardiato per guardia delli salinari. E fé fare le fila e mise li operari. E liberamente fu comenzato a fare lo sale bello e assai buono dello munno. Deh, como l’opera preziosa veniva! Li fatti ivano de ponto. Intanto, como ordinato era, ionze a Venezia missore Marsilio, informato dello fatto, e gìo per ambasciatore, como aveva demannato. Fu denanti allo duce e alli maiurienti, e disse quella ambasciata in quelle paravole; ma li mutao li ponti, ché·lli fece sonare de aitro suono e deoli aitra sentenzia, e disse: «Signori veneziani, missore Mastino intenne de fare lo sale nello sio terreno per avere quella pecunia la quale voi avete e tollereve de mano per signoriarve e per abassare vostre saline. Se queste perdite, non site cobelle. Lo frutto della Cammora de Venezia è lo sale. Moito bene operate l’uocchi in li vostri fatti». Più non disse. Assai abbe fatto e ditto, che abbe acceso lo fuoco tra Veneziani e missore Mastino. Allora Veneziani fecero una ambasciata preziosa, moito adorna. Dodici maiurienti de Venezia fuoro, grannissimi mercatanti e ricchissime perzone, savii e descreti, tutti vestuti de una robba, panni devisati de scarlatti e de velluti verdi, e aitri lavorieri forrati de vari, moito assettati. La gonnella era longa fi’ alli piedi, la guarnaccia corta fi’ a mesa gamma corto fi’ allo inuocchio, le cappuccia con piccoli pizzi in capo, la capella della seta de sotto, appistigliati de pistiglioni de ariento ’naorati, correie smaitate in centa. Ben pargo adornati de straniera devisanza. Con donzielli assai e aitra famiglia passano lo mare, e in terra ferma montano in loro piccoli palafrenotti e vengone a Verona. Venivano trottanno l’uno dereto a l’aitro como fussino miedici. Moita iente loro trasse a vedere. Granne maraviglia se fao omo de così nova devisanza. Parevate vedere lo ioco de Testaccia de Roma. Quanno li ambasciatori fuoro entrati in Verona, tutta Verona curre a vederli. Così li guardava omo fitto como fussino lopi. E questo perché l’abito loro era moito devisato dallo abito delli cortisciani; imperciò che portavano cotte de nuobili panni, strette alla catalana, forrate de frigolane endisine de sopra, cappe alamanne forrate de vari, cappucci alle gote con fresi de aoro intorno alle spalle, correie in centa con spranche d’ariento ’naorato, in piedi de caize. Moito vaco destri per la sala. Moito cavalcano adatti per la citate. Puoi se ne iro li dodici ambasciatori denanti a missore Mastino. Naturalmente la favella de Veneziani è regogliosa, e così regoglioso, senza umanitate, parlaro a missore Mastino e dissero: «Missore Mastino, lo Communo de Venezia te prega che non te vogli perdere Venezia per lo sale e non vogli fare quello che tuoi antecessori non fecero e quello che non è stato fatto in nostri dìe. Lo sale ène de Veneziani, non ène de Padovani. De fare cutale sale te conveo remanere, se non vòi turbare li uomini de Venezia e se vòi remanere nuostro amico». A questa ammasciata respuse lo Mastino e disse: «Verrete crai a pranzare in mea corte con meco e là averete la resposta». Lo sequente dìe lo convito fu apparecchiato grannissimo. In quella sala fu apparecchiato per più de ottociento perzone. Alla prima tavola aitre scudelle non ce fuoro, se non de buono ariento, né aitre vascella. A questo convito Veneziani vennero, li quali tutti a dodici fuoro puosti ad una tavola in pede della sala, in veduta de tutta la corte per là venuta. Lavate che àbbero le mano, non se despogliaro loro larghi tabarretti, anche con essi se misero a tavola. Granne era lo ridere che omo faceva de essi. Così stavano assemmoti como fussino Patarini overo scommunicati. Tutta la iente li resguardava como alocchi. Stava missore Mastino in capo della sala, più aito che tutta l’aitra baronia, servuto a tavola como re. Tutta soa nobilitate de corte vedeva. A soa veduta cosa nulla era celata. Ora vedesi vivanne venire. Cavalieri a speroni de aoro servivano denanti. Leguti, viole, cornamuse, ribeche e aitri instrumenti moito facevano doice sonare. Bene pareva in paradiso demorare. Po’ le vivanne viengo buffoni riccamente vestuti. Tal cantava, tal ballava, tal mottiava. Onneuno se sforza Non se lassano dallo muro cacciare. Mustrano de avere core. Non curano de valestra né de menacce. Lo romore era granne. Lance e saiette volavano. Deh, quanto ène cosa orribile! Allora missore Pietro Roscio con soie belle masnate se tenne secreto e queto de fòra ad una porta la quale se dice porta de ponte Cuorvo. E là stette, mentre che la vattaglia era alla porta de Santa Croce. Questa porta de ponte Cuorvo avea in guardia missore Marsilio da Carrara. Su nella mesa terza lo fattore de missore Marsilio operze la porta e abassao li ponti, e mise drento missore Pietro Roscio senza colpo de spada. Ora ne veo per la strada alla piazza lo capitanio de Veneziani con moita grossa pedonaglia e cavallaria. Ià l’ora de terza era. In esso ponto missore Alberto se era levato da dormire. Cavalcava uno bello palafreno, vestuto con solo un guarnello, accompagnato con solo missore Marsilio. Una vastoncella in mano teneva. Per la terra iva trastullanno. Omnis armatorum eius multitudo pugnans resistebat ad portam. Como missore Alberto accapitao in capo della strada, vidde che nella piazza iogneva granne stuolo, granne masnate de iente. Odìo tromme e ceramelle. Vidde lo grannissimo confallone de Santo Marco de Venezia. Maravigliaose forte e disse a missore Marsilio: «Que iente ène questa?» A ciò respuse missore Marsilio e disse: «Questo ène missore Pietro Roscio, lo quale hao auta gola de vederte». Disse missore Alberto: «Moreraio io?» Disse missore Marsilio: «No. Torna in reto. Va’ in la mea cammora». Così fu fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de missore Marsilio, e là fu enzerrato con una chiave. Veneziani la piazza presero e toizero l’arme e·lli cavalli a tutta la forestaria de missore Alberto. E presero esso con soa baronia e sì·llo mannaro in presone a Venezia. E là stette fi’ che la guerra fu finita. Allora apparze quella cometa della quale de sopra ditto ène. E presero Veneziani guardia delle porte de Padova. Sine mora iescono fòra e faco terribile guerra a quello della Scala. Vao missore Pietro Roscio ardenno e consumanno le terre. Prese per forza Monsilice, e là fu occiso. Non per tanto lassano Veneziani de fare la dura guerra. Allora perdìo la citate de Brescia. Onne perzona se·lli rebella. Nulla resistenzia fao. Missore Mastino consideranno la soa desaventura, desperato, con soie mano occise lo vescovo de Verona, lo quale era de soa iente, e occiselo su sopra le scale dello vescovato. Albuino, vastardo de missore Cane, lo scannao. Sotto lo capitale dello lietto de questo vescovo fu trovato uno spiecchio de acciaro con moite divise carattere. Nello manico era una figura. La lettera diceva: «Questo ène Fiorone». Puoi li fu trovato un livricciuolo, nello quale stava pento un nimico de Dio, lo quale abracciava uno omo, e un aitro demonio li dava una cortellata in pietto, in quello luoco nello quale esso relevata avea la feruta. Questo fece missore Mastino avenno paura che·llo vescovo non li togliessi la signoria. La guerra durao bene anni doi. Uitimamente missore Mastino era stanco né poteva più. Venne a pace con Veneziani e a patti. Li patti fuoro questi: lo primo, che esso fece refutanza della moneta la quale avea in Verona, la quale avevano despesa Veneziani; lo secunno, che mannao le robbe dello Communo de Venezia, le quale buttaro XXIIII migliara de fiorini, per onne robba fiorini doi milia; lo terzo, che Veneziani voizero Trevisi, sì che convenne che per la fatica de Veneziani missore Mastino li donassi Trevisi. Verona e Vicenza li lassaro per l’amore de Dio e per misericordia. Le aitre terre, como Padova e Civitale, remasero a puopolo. Allora Veneziani li remannaro missore Alberto, lo frate, con quelli nuobili li quali tenevano presoni. A tutta questa guerra Fiorentini tennero mano e fecero con loro denari quello aiutorio che bastao. Ora è tornato lo Mastino della Scala de granne aitezze ad umile stato. Non perciò in tanta umilitate, che in soa veteranezza non morisse granne signore de Verona e de Vicenza. Omo de guerra fece fare in soa vita uno monimento de marmo, dove fu sepellito, in casa de frati minori, là dove posano le donne. In quello monimento non ce stao inscritto né Dio né santi, anche ce stao inscuite cacciascioni, cavalli, cani, astori e aitre paganie. L’opera de Veneziani con questo tiranno fu como l’opera de Romani, li quali mannaro la ambasciata a Benevento. Beneventani sparzero aduosso alli ambasciatori la orina. Per la quale cosa Romani fuoro turbati, e per essi fu destrutta la provincia de Sannio e fu suiugata allo Communo de Roma, como Tito Livio dice.