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APPENDICE

MOTIVAZIONE DEL PREMIO NOBEL 1926

LETTA ALL’ACCADEMIA DI STOCCOLMA DAL PROF. SCHÜCH

L’accademia Svedese ha aggiudicato il Premio Nobel dell’anno 1926 alla autrice italiana Grazia Deledda.

Grazia Deledda nacque a Nuoro, piccola città della Sardegna dove, che io sappia, nessuna ferrovia conduce ancora. In questa città passò la infanzia e la gioventù, e dalla natura e dalla vita del popolo trasse le impressioni divenute poi germe ed anima delle sue composizioni letterarie.

Dalla finestra della sua casa vedeva proprio vicino il monte dell’Orthobene con foreste cupe e cime grigie, appuntite, a scogli: più in là una catena di montagne calcaree, ora violacee, ora color cedro, ora turchine, a seconda del variare della luce; in lontananza emergevano le cime nevose del Gennargentu.

A Nuoro si viveva come isolati dal resto del mondo. I pochi visitatori arrivavano alla città montati di solito a cavallo, le donne in groppa dietro gli uomini, e la monotonia della vita abituale veniva interrotta soltanto dalle tradizionali feste religiose o popolari, e nei giorni del carnevale, dai canti e dalle danze sulla pubblica via.

Anche il modo di riguardare la vita fu per Grazia Deledda, cresciuta in questo ambiente, qualche cosa di primitivo, ingenuo, singolare. A Nuoro essere «bandito» non era considerato come una vergogna. «Tu credi» — dice una vecchia contadina in uno dei romanzi della Deledda — «che i banditi siano gente cattiva? [p. 188 modifica] Tu ti inganni: essi sono uomini che hanno bisogno di spiegare la loro abilità, null’altro. Anticamente gli uomini andavano alla guerra: ora non si fanno più guerre, ma gli uomini hanno ancora bisogno di combattere, e commettono le grassazioni, le rapine, le bardanas, non per far del male, ma per spiegare in qualche modo la loro forza e la loro abilità». Perciò il bandito gode piuttosto la simpatia del popolo e, se viene preso e messo in prigione, dicono con una frase espressiva tutta paesana che egli è «corso in disgrazia». Poi quando venga rimesso in libertà, nessun marchio di vergogna lo accompagna; anzi al suo ritorno nel paese nativo egli viene salutato con le parole: «Un’altra disgrazia simile fra cento anni!». Il costume della vendetta regna ancora in Sardegna, e colui che per vendicare la morte di un parente uccide l'uccisore gode la stima generale. Il tradirlo viene considerato come un delitto. «Anche se» — dice uno scrittore — «la taglia posta sulla sua testa fosse tre volte maggiore, non si troverebbe in tutta la contrada di Nuoro un solo uomo disposto a tradirlo. Perché là regna soltanto una legge: rispetto per la forza dell’uomo e disprezzo per la giustizia sociale».

In questo paese, così poco influenzato dalla coltura del continente italiano, crebbe Grazia Deledda, circondata da una natura selvaggiamente bella e da gente di una certa grandiosità primitiva, in una casa che aveva qualche cosa della semplicità biblica. «Noi ragazze» — racconta Grazia Deledda — «non abbiamo mai il permesso di mostrarci fuori altro che per andare alla messa, oppure qualche volta per fare una passeggiata in campagna». Non ebbe modo di approfondire molto i suoi studii e, come le altre fanciulle borghesi della sua terra, frequentò solo la scuola comunale. Più tardi prese alcune lezioni di francese e d’italiano, perché in casa sua si parlava in dialetto sardo. La sua preparazione scolastica non fu quindi straordinariamente grande. Sapeva sì a menadito e gustava molto le canzoni popolari del suo paese con i suoi gozos, mutos e cerbos e ne conosceva assai bene le leggende e le tradizioni; di più nella sua casa, che relativamente alle condizioni della Sardegna era abbastanza agiata, ebbe occasione di leggere qualche opera letteraria italiana e qualche romanzo tradotto. Ma questo era tutto. Ciononostante la giovinetta cominciò ad amare lo studio e alla età di soli sedici anni scrisse una fantastica novella tragica — Sangue sardo — , che riuscì a far pubblicare in un giornale di Roma. A Nuoro questo ardimento dispiacque assai, perché quella gente non era abituata a vedere [p. 189 modifica] che le donne si occupassero di cose aliene dalle faccende domestiche. Ma Grazia Deledda non desistette e si diede a scrivere romanzi: primo il Fior di Sardegna (stampato nel 1891), poi La via del male, Il vecchio della montagna, Elias Portolu ed altri, coi quali si fece un nome e venne apprezzata come una delle migliori fra le giovani scrittrici italiane.

In realtà essa aveva fatto una grande scoperta: aveva scoperta la Sardegna. Già fino della metà del 1700 nel seno della letteratura europea era sorto un nuovo movimento. Si sentiva stanchezza di quei soggetti perpetuamente tolti e ritolti dalle storie di Grecia e di Roma, e si voleva qualche cosa di nuovo. Questo movimento si congiunse ben presto con un altro, nato contemporaneamente dalla adorazione di Rousseau per l’uomo allo stato di natura, fuori della civiltà. E per tal modo la nuova scuola, specialmente nei bei giorni del Romanticismo, fece conquiste sopra conquiste. L’ultima, più importante, è dovuta a Grazia Deledda. Vero è che nelle sue descrizioni di carattere locale e tutto paesano essa aveva avuto predecessori anche nella sua patria. Già prima di Grazia Deledda il così detto «regionalismo» aveva avuto, nella letteratura italiana, notevoli rappresentanti: Verga con le sue descrizioni della Sicilia, Fogazzaro con quelle del Lombardo-Veneto. Ma la scoperta della Sardegna appartiene incontestabilmente a Grazia Deledda. Questa sua terra natale essa aveva imparato a conoscerla per ogni verso e fino al fondo. Era rimasta a Nuoro fino ai suoi 23 anni, e soltanto allora si fece animo ed osò recarsi a Cagliari, capoluogo della Sardegna, dove conobbe l’uomo, il signor Madesani, col quale si sposò nel 1900. Celebrate le nozze, passò col marito a Roma, nella quale città è poi sempre rimasta, distribuendo il suo tempo fra i doveri di famiglia e l’opera di scrittrice. Anche nei romanzi, che compose dopo il suo trasferimento a Roma, essa continua a trattare soggetti sardi, come in quello che porta per titolo L’Edera uscito nel 1912. Ma nei romanzi che scrisse di poi, gli avvenimenti si svolgono assai spesso in un ambiente di colore meno locale, come per esempio nell’ultimo, che l’Accademia ebbe occasione di esaminare e di apprezzare, La fuga in Egitto. Tuttavia il suo modo di concepire la natura e l’uomo rimane sempre di carattere sardo nel suo fondo e, per quanto artisticamente più matura, essa continua sempre ad essere la stessa scrittrice seria, grandiosamente semplice e sincera, come quando dettò La via del male e Elias Portolu. [p. 190 modifica]

Giudicare del valore artistico del suo stile torna difficile per uno straniero. Citerò invece a questo proposito uno dei più noti critici italiani. «Il suo stile» — scrive egli — «è quello dei grandi maestri nell’arte di narrare ed ha quei tratti caratteristici che sono comuni a tutti i grandi autori di romanzi. Nessuno oggi in Italia scrive romanzi che per vigore di stile, potenza d’arte, struttura e importanza sieno paragonabili con alcuni, anche fra gli ultimi, lavori di Grazia Deledda, come La madre e Il segreto dell'uomo solitario». Solo si potrebbe notare che la composizione non ha tutta quella salda fermezza che sarebbe desiderabile: i repentini passaggi dànno spesso l’impressione di un salto brusco. Ma questo difetto viene compensato ad esuberanza dai molti suoi meriti. Come dipintrice della natura pochi sono nella letteratura europea che possano starle a paro. Non fa inutile spreco di colori scintillanti, ma la natura, che essa descrive, ha le semplici, grandi linee del paesaggio antico, come ne ha la casta purezza e la maestà. È una natura in modo meraviglioso animata, che armonizza perfettamente colla vita psicologica dei personaggi che Grazia Deledda mette in quel quadro. Da vera e grande artista essa sa incorporare alle scene della natura le rappresentazioni dei sentimenti e delle costumanze del popolo. Mi basta solo ricordare la classica descrizione che nel suo Elias Portolu fa della vita dei pellegrini sul monte Lula. È in una mattina di maggio che la partenza ha luogo. Famiglia dopo famiglia, tutti salgono verso l’antica chiesa votiva, alcuni a cavallo, altri montati su vecchie vetture. Portano con sé il viatico per una settimana. Le famiglie più agiate prendono alloggio nel grande asilo, il «cumbissio maggiore», che sorge presso la chiesa. Sono i discendenti di quelli che hanno costruito la chiesa, ed ogni famiglia vi ha un chiodo infisso alla parete e un focolare che indica il posto che le spetta, nel quale nessun altro può mettere il piede. Là si raccolgono durante la sera, tutto il tempo che la festa continua, cuociono il loro cibo alla fiamma del focolare e si narrano poi leggende, suonano e cantano durante tutta la lunga notte di estate. Nel romanzo La via del male Grazia Deledda descrive nello stesso modo vivace le strane costumanze sarde in occasione di nozze e di funerali. Quando ha luogo un funerale, si chiudono tutti gli usci, si serrano tutte le imposte delle finestre, ogni fuoco si spegne, non è permesso di preparare alcun cibo, e le prefiche piagnucolano le loro nenie improvvisate: tutto vi è dipinto così al vivo e in un modo tanto semplice e naturale che, [p. 191 modifica] richiamandoci alla immaginazione i costumi primitivi, quasi ci muoverebbe a dire: è una scena omerica. Nei romanzi di Grazia Deledda, più che nella maggior parte di quelli di altri autori, uomini e natura formano come un solo tutto. Quasi si direbbe che gli uomini siano piante germogliate dal suolo stesso della Sardegna. La massima parte sono gente del popolo, semplici, di un modo di pensare e di sentire primitivo, con qualche cosa in sé della grandiosità della natura sarda. Parecchi di loro hanno quasi la impronta di figure monumentali del Vecchio Testamento e, quantunque si distacchino di tanto dai tipi d’uomini conosciuti da noi, ci dànno la impressione di essere incontestabilmente veri e tolti dalla vita reale. Non sono niente affatto fantocci da teatro, e Grazia Deledda sa bene l’arte di congiungere in modo eccellente realismo e idealismo.

Grazia Deledda non appartiene a quella schiera di scrittori i quali — come un tempo si diceva — lavorano a tesi e discutono problemi. Essa si è sempre tenuta lontana dalle battaglie del giorno e, quando Ellen Key cercò di interessarla a questi argomenti, rispose: «Appartengo al passato». Forse questa confessione dell’animo suo non è pienamente esatta. Grazia Deledda si sente per certo legata con forti vincoli al passato, alla vita del suo popolo e della sua razza nei tempi che furono. Ma ha saputo anche vivere e sentire col suo tempo. Soltanto per le teorie essa non prova interesse, ma ben ne prova per tutto ciò che è vita umana. In una sua lettera essa scrive: «Il nostro grande affanno è la lenta morte della vita. Perciò dobbiamo cercar di trattenere la vita, di intensificarla, dandole il più ricco possibile contenuto. Bisogna cercar di vivere sopra la propria vita, come la nube sopra il mare». Appunto perché questa vita appare a lei così ricca e così ammirabile essa non ha mai preso partito nelle lotte politiche, sociali e letterarie del giorno. Ha amato l’umanità più che le teorie, ed ha vissuto la sua propria, tranquilla vita, lontana dal frastuono del mondo. «Il destino» — scrive in altra sua lettera — «mi ha fatto nascere nel cuore della solitaria Sardegna. Ma anche se fossi nata a Roma o a Stoccolma, credo che non avrei cambiato natura e sarei sempre stata quella che sono: un’anima che si appassiona ai problemi della vita e che lucidamente vede gli uomini tali quali sono, pur credendo che potrebbero essere migliori, e che nessun altro, all’infuori di essi medesimi, mette ostacolo all’avvento del regno di Dio sulla terra. Tutto, invece, è [p. 192 modifica] odio, sangue, dolore. Ma tutto forse potrà esser vinto per mezzo dell’amore e della buona volontà».

Queste ultime parole esprimono il suo modo di concepire la vita. È un modo di concepire profondo, serio, di tonalità religiosa, più spesso triste, ma non mai pessimista. Essa crede che nella lotta della vita il trionfo finale spetterà alle potenze del Bene. Il pensiero capitale, che domina tutta l’opera sua di scrittrice, risulta, chiaro e conciso, nella chiusa del suo romanzo Cenere. La madre di Anania, donna perduta, che, per non essere di ostacolo alla felicità del figlio, si toglie la vita, giace cadavere davanti a lui. Quando era bambino essa gli aveva dato un amuleto. Ora lo apre e trova che contiene cenere. «Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l’uomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quell’ora suprema, davanti alla spoglia della più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, egli ricordò che fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita».

Alfredo Nobel1 volle che il premio di letteratura venisse dato a chi colle sue opere letterarie avesse propinato all’umanità quel nettare che infonde salute ed energia di vita morale. Conformemente a questa volontà del testatore la Accademia Svedese ha aggiudicato a Grazia Deledda tale premio «per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».

prof. schüch

  1. Quest’ultimo capoverso fu detto dal prof. Schüch in italiano. Abbiamo creduto interessante pubblicare questa «motivazione» per le cose che dice sulla giovinezza sarda della D.; non occorre dire che le condizioni dell’isola sono oggi alquanto differenti da come le prospetta lo Schüch.