Così parlò Zarathustra/Parte quarta/Il segno
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Il segno.
Il mattino di poi, Zarathustra balzò dal suo giaciglio; si cinse le reni, e uscì dalla caverna, ardente e forte, come il sole mattutino che sorgeva dai monti ancora avvolti nelle tenebre.
«O grande astro» — disse — (come già un’altra volta aveva detto), «o profondo occhio di beatitudine, a che ti gioverebbe tutta la tua letizia, se tu non sapessi a chi risplendere?
E se gli esseri rimanessero nelle loro stanze, quando tu sei già desto e prodighi i doni e li distribuisci, quant’ira non ne avrebbe la tua fierezza?
Io voglio accingermi al mio lavoro — alla mia giornata; ma essi non comprendono gli indizi del mio mattino; e il mio passo non è per essi il grido del risveglio.
Dormono ancora nella mia caverna: il loro sogno ancor si diletta delle mie ebre canzoni. L’orecchio, che sta in ascolto di me, l’orecchio obbediente — non è parte delle loro membra».
Questo disse Zarathustra nel suo cuore, mentre il sole sorgeva; poi il suo sguardo si volse interrogando verso l’alto, giacchè si udiva l’acuto grido dell’aquila. «Orbene», gridò Zarathustra verso l’alto, «così mi piace, e così si conviene a me. I miei animali son desti, perchè io son desto.
La mia aquila è desta e con me rende omaggio al sole. Con i suoi artigli essa cerca di afferrare la nuova luce. Voi siete gli animali ch’io prediligo; voi soli io amo.
Ma ancora al mio desiderio mancano gli uomini».
Così parlò Zarathustra; ma allora avvenne che improvvisamente ei si sentì come circondato dai voli di innumerevoli uccelli — e il romore prodotto dal batter di tante ali e la ressa intorno al suo capo eran così grandi, ch’egli chiuse gli occhi.
E in verità, egli sentì cadere su di sè come un nembo di freccie, lanciate contro un nuovo nemico. Ma non era una nube di guerra; era una nube d’amore, avvolgente un nuovo amico.
«Che mi avviene?», pensò Zarathustra stupito; e si lasciò cader lentamente su un grande sasso posto su la soglia della sua caverna; ma mentre protendeva le mani e le agitava in alto e in basso, per schermirsi e liberarsi dagli uccelli, gli successe cosa anche più strana. Improvvisamente la sua mano s’immerse in una folta e calda massa di capelli, ed egli udì in quel momento un ruggito, — un dolce e lungo ruggito leonino.
«Il segno giunge», disse Zarathustra, e il suo cuore si mutò. Poi che ai suoi piedi posava un gagliardo e fulvo leone. E il leone aveva appoggiata la testa sui ginocchi di lui, e non voleva scostarsi — simile al cane che ha ritrovato il suo antico signore.
E le colombe non mostravano men fervido amore, e ogni volta che una di esse sfiorava nel volo il naso del leone, questo scoteva la testa ridendo.
Ciò vedendo, Zarathustra pronunciò queste sole parole: «I miei figli s’appressano: i miei figli». Poi tacque; ma il suo cuore si sentì liberato; e dai suoi occhi sgorgarono le lagrime, che gli ricaddero su le mani. Ed egli non pose più mente a cosa alcuna; e ristette, seduto, immobile, e senza schermirsi dalle carezze degli animali. E le colombe gli aleggiavano in torno accarezzandogli i bianchi capelli, e non si saziavano di mostrargli il loro affetto e la loro gioja. E il leone leccava le lagrime, che ricadevano sulle mani di Zarathustra: poi timidamente ruggiva.
Tali cose operavano quegli animali.
E questo durò assai tempo, o breve ora, come vi piaccia, poi che, a dir vero, per tali cose il tempo non esiste.
Ora in quel mezzo gli uomini superiori s’eran risvegliati, e ordinatisi in fila movevano incontro a Zarathustra per salutarlo: giacché non appena desti s’erano accorti ch’egli non era fra loro. Ma non erano ancor giunti alla porta della caverna, preceduti dal romore dei passi, che il leone die’ un sùbito balzo, e si scostò da Zarathustra, e selvaggiamente ruggendo si slanciò verso la caverna; e gli uomini superiori, all’udire il terribile ruggito, voltarono, in fuga, le spalle; e gridando a una voce, scomparvero rapidamente.
Ma Zarathustra stordito e come fuori dei sensi, si levò da sedere; si guardò in torno, meravigliato; interrogò il suo cuore; meditò e si trovò solo. «Che cosa ho udito mai?», disse lentamente, «che cosa mi avvenne in questo momento?».
E già riacquistava la memoria, si che d’un tratto comprese ciò che eragli accaduto tra «l’ieri» e «l’oggi». «Questo è il sasso», disse lisciandosi la barba, «su cui sedetti ieri al mattino, e qui l’indovino mi si appressò, e qui udii per la prima volta il grido, che or mi percosse — il grande grido di aiuto.
O uomini superiori, della vostra angustia mi fece ieri profezia il vecchio indovino.
— Egli voleva tentarmi e persuadermi alla vostra angustia: «O Zarathustra — egli mi disse — io vengo per sedurti alla tua ora estrema».
«Alla mia ora estrema!», esclamò Zarathustra, ridendo delle proprie parole: «che mi fu risparmiato perchè questa sia la mia ora estrema?».
E un’altra volta Zarathustra sedette sul sasso e si immerse nelle sue meditazioni; ma poi d’un subito sorse in piedi.
«Pietà! Pietà dell’uomo superiore!», gridò; e il suo volto si fece di bronzo. «Per questo c’è tempo!
Il mio dolore e la mia compassione? E che importa di ciò? Voglio io forse la felicità? Io attendo all’opera mia!
Orbene! il leone giunse a me; i miei figli s’appressano; Zarathustra divenne maturo: la mia ora è venuta.
Questo è il mio mattino; già sorge il mio giorno; vieni a me, vieni, o grande meriggio!».
Così parlò Zarathustra. E abbandonò la sua caverna, forte e radioso come un sole mattutino, che s’affacci dai monti cui ancora la tenebra avvolge.