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il segno | 309 |
tarlo: giacché non appena desti s’erano accorti ch’egli non era fra loro. Ma non erano ancor giunti alla porta della caverna, preceduti dal romore dei passi, che il leone die’ un sùbito balzo, e si scostò da Zarathustra, e selvaggiamente ruggendo si slanciò verso la caverna; e gli uomini superiori, all’udire il terribile ruggito, voltarono, in fuga, le spalle; e gridando a una voce, scomparvero rapidamente.
Ma Zarathustra stordito e come fuori dei sensi, si levò da sedere; si guardò in torno, meravigliato; interrogò il suo cuore; meditò e si trovò solo. «Che cosa ho udito mai?», disse lentamente, «che cosa mi avvenne in questo momento?».
E già riacquistava la memoria, si che d’un tratto comprese ciò che eragli accaduto tra «l’ieri» e «l’oggi». «Questo è il sasso», disse lisciandosi la barba, «su cui sedetti ieri al mattino, e qui l’indovino mi si appressò, e qui udii per la prima volta il grido, che or mi percosse — il grande grido di aiuto.
O uomini superiori, della vostra angustia mi fece ieri profezia il vecchio indovino.
— Egli voleva tentarmi e persuadermi alla vostra angustia: «O Zarathustra — egli mi disse — io vengo per sedurti alla tua ora estrema».
«Alla mia ora estrema!», esclamò Zarathustra, ridendo delle proprie parole: «che mi fu risparmiato perchè questa sia la mia ora estrema?».
E un’altra volta Zarathustra sedette sul sasso e si immerse nelle sue meditazioni; ma poi d’un subito sorse in piedi.
«Pietà! Pietà dell’uomo superiore!», gridò; e il suo volto si fece di bronzo. «Per questo c’è tempo!
Il mio dolore e la mia compassione? E che importa di ciò? Voglio io forse la felicità? Io attendo all’opera mia!
Orbene! il leone giunse a me; i miei figli s’appressano; Zarathustra divenne maturo: la mia ora è venuta.
Questo è il mio mattino; già sorge il mio giorno; vieni a me, vieni, o grande meriggio!».
Così parlò Zarathustra. E abbandonò la sua caverna, forte e radioso come un sole mattutino, che s’affacci dai monti cui ancora la tenebra avvolge.