Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/La buonissima madre
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LA BUONISSIMA MADRE
Perché Amelia voleva sposarsi al piú presto. Figlia unica era stata abituata a vedersi esaudito ogni suo desiderio. I genitori andavano debitori unicamente all’ottima indole della fanciulla se essa aveva dato un tale ottimo risultato. Essa aveva compiuti tutti i suoi studii ed anche molto bene. Veniva molto lodata specialmente per le materie positive: Le scienze naturali specialmente. Balbettava Darwin. La vita doveva fornirle i commenti necessari. Essa sapeva che l’antenato dell’uomo era fatto in un dato modo e che perciò l’uomo ed anche la donna erano fatti cosí e cosí. Sapeva la genesi delle mani e dei piedi e di molte altre cose ancora. Le sue belle mani e i suoi piedini non entravano nella legge. Si guardava volontieri nello specchio e mai vedendo i proprî occhi azzurri aveva pensato che qualche suo antenato li aveva avuti piú piccoli, piú irrequieti, piú aderenti alla radice del naso. Dai suoi occhi brillava il pensiero e il sentimento e ambedue mancavano di antenati secondo lei. Del resto anche Darwin aveva parlato degli antenati dell’uomo e non dei suoi proprî. E Amelia aveva l’abitudine di leggere i libri come erano scritti con quel cieco ordine, una pagina dopo l’altra in modo che fra una e l’altra non ci fosse tempo per applicazioni e derivazioni. Le antiche illusioni egotistiche vivevano indisturbate in mezzo alla scien za moderna.
E cosí neppure Darwin seppe impedire ch’ella sposasse il milionario il quale venne e fece la sua brava dichiarazione. Emilio Merti venne ricevuto un dí dalla madre di Amelia. La fanciulla dovette farsi aspettare e quando entrò il milionario si alzò. La piccola figurina esitò sforzò si spostò per alzarsi ma tuttavia non perdette ogni disinvoltura e tese una mano ben fatta, un po’ tumida, alla fanciulla. La guardò con occhi lucenti dalla commozione; uno sguardo che ricordava quello di Roberto. Alla fanciulla piacque quella faccina fine dolce, le labbra sottili un po’ pallide, la fronte altissima, troppo alta quella fino alla metà della cervice. In fondo si capiva anche al suo aspetto che doveva essere persona ricca e fine e ad Amelia bastò. Esaminando lo sposo molto da capo a piedi scoperse che lo stivale del piede destro aveva almeno una quindicina di centimetri di suola. Quando lo vide muoversi scoppiò quasi dal ridere: Stimo io! Zoppica! Non può essere altrimenti con quel peso che porta al piede destro. Lo sposo divenne rosso come Roberto quando gli si parlava dei suoi studî (strano come ella tirava sempre dei confronti con Roberto) e le spiegò che la sua gamba destra aveva cessato di crescere a una data età. Questo per un istante ricordò ad Amelia certi studî di Darwin sugli astici1 che hanno il lato destro piú grosso del sinistro ma dovette ricredersi quando il signor Emilio con voce un po’ velata dall’emozione le raccontò che da bambino la sua balia l’aveva lasciato cadere a terra. Tale caduta gli aveva procurata una lesione che non soltanto gli tenne breve la gamba ma piccolo anche il femore. Quello non si vedeva perché era coperto non da suole ma da ovatta. Gli occhi di Amelia s’inumidirono dalla compassione: “Poverino! Condannato a portare attorno per tutta la vita tanta ovatta e tante suole!”. Vedeva dinanzi a sé il piccolo essere lasciato cadere a terra dalla balia disattenta. Lo vedeva a terra, inconsapevole che quella caduta peggiorava il suo destino, piangendo non per altro che per il dolore momentaneo. Poi la sua faccia s’infiammò al ricordare quella balia che per lei era una delinquente comune: “Oh! se fossi stata sua madre” pensò “io le avrei strappati gli occhi”. E pensò ancora: “Se io avrò la fortuna di averne dei bambini starò attenta tanto che simili avventure non potranno toccare loro”. Intanto non sembrerà vero: Il cuoricino di Amelia aveva battuto per il milionario. Non sarà stato amore ma compassione, ma certo è che Emilio non le era un indifferente. Egli l’addobbò come la Madonna di Loreto di ori e brillanti. A lei tali giocattoli non importavano ma capiva il desiderio di compiacerla per cui le venivano fatti e ne era riconoscente. Del resto la sua testa infantile era già abbastanza calcolatrice e sapeva che i suoi brillanti rappresentavano una sostanza. “Chissà” pensava quella buona figlia di negoziante “che i miei figliuoli non possano una volta o l’altra averne di bisogno?" La maternità in Amelia era stata sviluppata specialmente dai due figliuoli di sua sorella, due amori di bambini. Essa aveva assistita la sorella nell’allevarli e i bambini l’amavano come se fosse stata una seconda loro madre. Subito al suo fidanzamento Amelia si staccò un po’ da loro. La sua vita s’era agitata e veniva occupata giornalmente da conoscenze nuove e vecchie, visite da ricevere o da rendere. Eppoi essa sentiva avvicinarsi da lontano il rumore dei passetti dei proprii bambini. Ne ebbe presto uno grande e grosso: Il proprio marito. Un’amica (forse invidiosa dello splendido matrimonio) le aveva detto che Emilio Merti si sposava per tentare un’ultima cura per salvare i suoi nervi pericolanti. Era una cura alquanto drastica e poteva essere un po’ drastica anche per la moglie. Amelia non ci credette, poi serenamente soggiunse: «Certo io farò del mio meglio perché la cura gli giovi». Cosí il suo cuore s’aperse intero alla maternità. Il marito passava la giornata in cure. Aveva uno specialista per ogni parte del corpo ed è cosí che Amelia dopo due anni ebbe il primo bambino. Con tanta impazienza metterci due anni era molto e proverebbe che quegli specialisti non erano di primo ordine. Il bambino appariva un po’ pallido e debole e tanto piú chiamava le carezze materne. Dopo la nascita del bambino i due coniugi Merti passarono un anno delizioso. Egli come tanti esausti era grato alla moglie che lo sopportava ed essa poi lo sopportava volontieri dolce e buono come era. Essa stessa allattava e viveva attaccata al suo piccino come se fosse vissuta in un paese pericoloso. Cosí quando il medico, trascorso il primo anno, chiamato a vedere perché il bambino non volesse ancora risolversi a fare i primi passi dichiarò che la gamba destra non voleva svilupparsi, Amelia con piena certezza poté dichiarare: «Ma se non è mai caduto». Ne era certa! Nessun urto poteva aver leso quell’organismo. Il medico fece tanto d’occhi e non poté frenarsi: «Ma il padre?». «Il padre» disse Amelia piangendo «quello sí, poverino, fu lasciato cadere a terra da una balia disattenta.» Il medico stupito di tanta innocenza ricordò il dovere del segreto professionale e disse: «Deve trattarsi dell’eredità di una qualità acquisita». Oh! quella balia! Aveva rovinata tutta una generazione di Merti! Passarono mesi e tutte le cure prodigate al bambino parvero inutili. Faceva ora i primi passi poggiato su una gruccia. Quel rumore lieve dei primi passetti incerti era sostituito nella casa desolata dall’alternarsi di un rumore secco e duro della gruccia... destra e di uno pesante del piede sinistro. A una certa epoca il dottore poté constatare che anche il braccio destro stentava a svilupparsi; tutta la parte destra restava povera mentre l’altra si sviluppava esuberante di ossa di carne di grasso. Pareva un bambino cucito insieme di due parti di altri bambini. Il dottore che, oramai, sapeva come dovesse trattare Amelia, sentenziò: «La qualità acquisita, per ragioni misteriose, deve essere stata sviluppata dall’ambiente». E Amelia ch’era ritornata al suo Darwin fece, benché dolcemente, il suo primo rimprovero al marito: «Avresti dovuto sapere ch’era tuo obbligo di lottare con la malattia. Avresti dovuto far fare giornalmente ginnastica alla tua parte destra». Per fortuna non pareva che Amelia avesse dovuto avere altri figliuoli. Essa continuava, benché senza speranza, la lotta con la malattia del suo rampollo. La giornata era piena di cure per il marito e per il figliuolo. C’era una stanza del palazzo piena d’istrumenti ortopedici tutti appaiati, uno piccolo e uno grande e Amelia li teneva essa stessa in ordine. Giammai fu intrapresa piú assidua una lotta contro la malattia. Merti, commosso, faceva anche lui le cure con tutta energia perché avendo indovinato il desiderio della moglie, voleva con tutte le sue forze riparare al mal fatto. Si curava. Ingoiava pillole e acque diverse, si applicava impiastri, faceva le ginnastiche piú varie. Per consiglio di un medico andò anche a cavallo ma alla terza lezione cadde malamente ledendosi la gamba sinistra. Fu portato in lettiga a casa e nel primo dolore confessò alla moglie l’intimo animo suo: «Ed io che miravo solamente a soddisfare il tuo desiderio di bambini sani». Amelia non fu né sorpresa né commossa che si facesse tanto per la sua felicità. Non viveva ella stessa allo stesso scopo: Accasciata mormorò: «Che tale lezione non ti rovini anche il lato sinistro!». Il marito per consolarla le disse: «Forse cosí interverrà un certo equilibrio e si potrebbero avere dei piccini piú piccoli degli altri ma fatti con una certa simmetria!». In poche settimane invece il piede sinistro guarí e liberato dai gessi si dimostrò come sempre troppo lungo, troppo forte, troppo diritto. «È ben differente l’azione di una lesione in un corpo adulto di quello che sia in un corpo infantile» sentenziò Amelia.
Il bambino Achille (si chiamava cosí con evidente profezia di una delle due gambe difettose) seccato forse da tante cure cresceva cattivetto parecchio. Quella sua gruccia era nella sua mano sinistra un’arme terribile e le fantesche la ricevevano spesso sulla schiena. «Perché non picchi con la mano destra per fare esercizio?» ammoniva Amelia. A quattr’anni gettò la gruccia, sempre con la mano sinistra, contro la madre. Il piccolo mostricciattolo era poco divertente. Un bel giorno si mise a letto con un raffreddore. La febbre non lo abbandonò piú. Intorno a lui le cure continuarono assidue. Si fecero venire dalla capitale dei medici illustri cui si parlava della febbre, della gamba corta, della tombola fatta dal padre e di tutte le cure intraprese. Se ne andarono intontiti. «Ad ogni modo» sentenziò uno di loro «la deformità resterà quale è. Non aumenterà.» Ed ebbe ragione. Avrebbe potuto anche dire che quella deformità sarebbe diminuita poiché si sa che la deformità della morte copre tutte quelle della vita.
Quando la piccola cassa fu portata via Amelia si sentí ben sola. “Ed ora?” si domandava quasi farneticando. Il marito — dopo la sua ultima avventura — non osava troppe ginnastiche e massaggi. Cosí non c’era niente da fare. Ritornò ai nipoti. Ma erano cresciuti e appena appena la conoscevano.
Fu una fortuna che in quei giorni un amico d’affari del marito da Roma chiese l’ospitalità del Merti per la propria moglie e due bambine che dovevano fare i bagni di mare. Furono invitati calorosamente e la casa s’animò. La signora Carini era una buona donna insignificante alquanto se non avesse parlato il piú puro linguaggio romano. Le due bambine erano due tesori. Erano brune e Gemma la maggiore di sei anni aveva un aspetto di piccola madre quando teneva per mano Bianca la minore. E Bianca meritava tale nome. Nei suoi riccioli bruni c’erano traccie d’oro e la sua pelle era bianca tanto che le venette vi si rivelavano azzurrognole alle tempie. Divenne subito la prediletta di Amelia che la strinse al seno come se avesse riavuto il suo Achille riveduto e corretto. Oh! ma come una bambina cosí era differente dal suo povero bambino compianto cui essa in cuor suo domandava perdono perché lo tradiva. Dapprima un po’ intimidita dal nuovo ambiente presto ne divenne la padrona. Correva le vaste stanze del pianterreno col passo malfermo e quando Amelia le correva dietro spaventata all’idea che qualche spigolo di mobile potesse ferire la testina, la madre sorridente e tranquilla diceva: «Lasci, lasci; sa guardarsi da sola». Amelia non raccontò alla signora Carini come il suo bambino fosse stato fatto. Lo piangeva con la buona signora descrivendolo come se avesse somigliato a Bianca. Le pareva un delitto e una vergogna parlare della deformità del povero bambino. E cosí anzi il ricordo di Achille si purificò e certo in ultimo Bianca e Achille si confusero tanto bene insieme che Amelia piangeva piuttosto di non possedere Bianca che di aver perduto Achille. Amelia ebbe una grande gioia che le fu concesso di dormire con Bianca. La piccola che ancora faceva dei denti si destava talvolta piangendo di notte e destava allora anche la Gemma. Le due madri divenute intimissime nell’affetto per i bambini andarono presto d’accordo e Bianca dormí nel letto del signor Merti che per intanto dovette emigrare dalla stanza di sua moglie. Amelia amava nella semioscurità alzarsi a contemplare l’angioletto che le dormiva accanto. La stanza era illuminata da una debole luce rosea e la bambina era coperta solo da breve camiciuola. Le sue carni bianche avevano degli splendori delicati in quella luce. Il miracolo della vita, della piú pura vita, si enunciava chiaro con un distacco incredibile di colore in quella stanza ove l’unica luce rosea avrebbe dovuto fondere tutto. La testina ricciuta poggiava immota i labbrucci socchiusi. Talvolta un sogno le strappava qualche parola incomprensibile di cui Amelia rideva tanto da dover premere la propria bocca sul guanciale. Una manina nel sonno poggiava sempre accanto alla testa di Amelia che non rifiniva d’ammirarne le unghiette miniate.
Oh! se le avessero lasciata quella bimba per tutta la vita ella non avrebbe domandato di meglio. Ma già il signor Carini aveva scritto che fra giorni sarebbe venuto a riprendere la sua famiglia. Si facevano ora dei complimenti. I Carini non volevano piú oltre abusare dell’ospitalità dei Merti e il marito dava ordine alla moglie di prendere delle stanze in un Hôtel per rimanervi tutti insieme per una decina di giorni. Oh! Amelia non avrebbe permesso questo. Almeno finché Bianca sarebbe rimasta in quella città avrebbe dormito con lei e tanto fece e tanto disse che la moglie convinse subito per lettera il marito di accettare l’ospitalità del Merti.
Per un malinteso il signor Carini capitò inaspettato. Trovò in casa la sola Amelia con Bianca. Era un uomo forte, buono, l’aspetto di un fattore ordinato. Amelia se lo era figurato fine e gentile come la moglie e le figlie e piuttosto le dispiacque. Invece era chiaro che il Carini rimase stupito della bellezza di Amelia. La mestizia aveva resi anche piú belli gli occhi azzurri pieni di pensiero e di sentimento.
La venuta del Carini rese Amelia piú triste del solito. Il Carini a cena era facondo e lieto. La moglie osservò di non averlo mai visto tanto lieto e lo disse con accento di gratitudine perché attribuiva l’allegria del marito alla gioia di rivederla.
Poi la signora Carini andò a mettere a letto Gemma e Amelia, Bianca. La buona bambina pigliò subito sonno. Amelia rimase a contemplarla lungamente. La signora Carini ebbe intanto bisogno di non so che cosa da Amelia e con la famigliarità acquisita durante il lungo soggiorno in quella casa mandò da lei il marito. Questi picchiò timidamente e Amelia andò ad aprirgli. «Che cosa ha?» domandò il Carini spaventato al vedere la faccia di Amelia irrorata di lagrime. Temeva fosse accaduto qualche cosa a Bianca. «Oh! non è nulla!» disse Amelia piangendo piú forte e abbandonandosi su un divano. «Piango perché volete portarmi via Bianca.» Il Carini da abitante di capitale già annusava la buona avventura. Ma ogni esitazione gli fu tolta quando Amelia esclamò: «Darei la vita per avere dei figliuoli come ne avete voi».
Il Carini partí con un peggior umore di quello che aveva portato. Insomma la buona avventura c’era stata ma passeggiera tanto e non c’era stato caso di rinnovarla. Ben volontieri abbandonò la città perché quella bella donna che faceva cosí per un istante dono di sé e si ritoglieva subito apparentemente dimenticando tutto gli pareva tanto anormale da averne paura. La considerava come pazza e non vedeva l’ora di trarle dalle mani la piccola Bianca. Non l’aveva considerata pazza all’improvviso abbandono la sera del giorno stesso in cui lo aveva conosciuto. Ciò gli sembrava abbastanza regolare. Ma quando alla mattina dopo, vedendola piú bella che mai e all’aspetto sofferente, volle approfittare di un momento in cui li avevano lasciati soli per stringerle la manina unicamente per significarle la sua gratitudine e si vide respinto con uno sguardo di meraviglia altezzosa, pensò: “È decisamente pazza!”. Ella fu poi come era stata al momento del suo arrivo; dedicava ogni cura ai suoi ospiti quando le cure ch’ella continuava a prodigare alla piccola Bianca gliene lasciavano il tempo. Al buon Carini dinanzi ad una maschera simile si rizzavano i capelli sulla testa e passò in quella casa otto giorni spaventevoli. Erano rimasti d’accordo che i Carini avrebbero approfittato della larga ospitalità offerta loro per quindici giorni ma dopo otto il Carini non potendone piú si fece venire da Roma un dispaccio che lo richiamava.
Alla stazione la signora Carini insisteva perché Amelia promettesse di dar loro l’occasione di sdebitarsi di tanta ospitalità venendo a passare qualche settimana da loro a Roma. Amelia uscí per un istante dal sogno in cui era stata posta dal dolore del distacco dalla piccola Bianca. Posò uno sguardo sicuro sul povero Carini che trasalí: «Forse verrò a Roma».
E, appena partiti, la signora Carini entusiasmata esclamò: «Quanta gentilezza! Bisognerà trovare il modo di fare altrettanto per loro se vengono a Roma». Tenendo stretta al suo seno la Bianca. Esasperato il Carini scoppiò: «Non ci mancherebbe altro». E scorgendo la stupefazione della moglie si corresse come poté: «Noi non abbiamo mica un palazzo».
Amelia non ebbe bisogno di andare a Roma. Venne una bambina. Consegnata al dottore per un esame accurato egli credette di poter assicurarne la perfetta salute e l’equilibrata costituzione. Asseriva che se il povero Achille fosse stato sottoposto alla sua nascita ad un’indagine tanto accurata, si sarebbe potuto prevedere il suo sviluppo a guisa d’astice2. La madre sembrava piú serena del padre al quale non pareva vero di aver data la vita ad una bambina che aveva le due gambe intiere. Egli s’affannava ogni giorno a vedere il corpicino nudo della bambina. Se la teneva in braccio e la bambina si quietava subito quando egli la cullava camminando col suo solito dislivello di quasi un metro. «Le farai venire il male di mare» ammoniva la madre. Dopo un anno il signor Merti non poté piú avere dei dubbî. Quale non fu la sua gioia! Non avrebbe potuto essere maggiore se egli stesso da un momento all’altro fosse guarito e avesse potuto smettere le tante suole e la tanta ovatta. Cessò da ogni cura. Aveva il sentimento di essere liberato da un incubo. «Non abbiamo piú paura» esclamava. «Ora potremo avere tanti figliuoli quanti ne desideriamo.» «Sí» diceva Amelia, «ma vediamo ancora crescere la bambina.» Essa non la osservava; l’amava. Bianca era dimenticata. Donata (cosí era stata battezzata la bambina) ne copriva il ricordo tanto le due bambine si somigliavano. Anche questa quando cominciò a mettere i denti, se era inquieta di notte esigeva di abbandonare il suo lettuccio e s’arrampicava in quello della madre al cui corpo aderiva in cerca di calore e di altra vita. E la madre sentendone il bisogno, si commoveva come se l’avesse portata ancora nel suo seno cosí bella e bianca. Le piccole membra si agitavano impensatamente. Una manina si cacciava nella bocca della madre, piccola, morbida, e dentro s’apriva andando a toccare con le dita il palato. Poi la bambina sedeva sul petto della madre ed era tanto lieve che veniva alzata tutta e abbassata dal respiro di Amelia. Affluirono alla casa ogni sorta di giocattoli che furono disposti nella stanza altre volte adibita agl’istrumenti ortopedici. Di notte però le bambole andavano ad adobbare il lettino di Donata. Ella ci dormiva in mezzo come un generale circondato dalla truppa. Riposavano tutte con gli occhi chiusi. Ognuna aveva la sua teletta di notte e per Amelia era un bel da fare svestirle e rivestirle tutte. Le bambole da quelle buone piccine che erano pigliavano sonno subito e Donata balbettava la preghiera in mezzo a loro per poi imitarle. Il signor Merti assisteva sempre alla complicata funzione. L’orgoglio lo soffocava. Veniva preso da assalti di risa inestinguibili; da lui anche la gioia aveva lo aspetto di un assalto di nervi. Spesso mormorava all’orecchio della moglie: «Sei contenta di me?». «Sí, caro» rispondeva essa quasi maternamente abbracciandolo. Anche lei aveva oltre che la gioia anche l’orgoglio di aver data la vita a Donata che era anche piú bella e gentile di Bianca. Nel colore bruno dei capelli s’era fuso un bagliore d’oro; gli occhi s’erano ammorbiditi come se vi fosse stato mescolato un colore prezioso. Amelia ci aveva messa la sua bellezza; nella lotta essa aveva vinto quella sciocca signora Carini.
Non mancarono anche per lei delle paure. Un giorno Darwin le disse che i figliuoli del secondo marito erano un po’ parenti del primo. Ma Donata dimostrava il contrario. Le gambe diritte si movevano nello stesso ritmo. Nel bagno pestavano l’acqua producendo ambedue lo stesso suono. Non si poteva fidarsi neppure di Darwin a questo mondo.
Il vecchio dottor Gherich ch’era stato il suo conforto durante la malattia di Achille le comunicò un giorno ch’egli intendeva cessare dalla pratica e le domandò di poter presentarle suo figlio Paolo che avrebbe potuto sostituirlo. Prometteva che non avrebbe mancato di coadiuvare suo figlio ogni qualvolta ce ne sarebbe stato di bisogno. Amelia aderí volontieri. Il nuovo dottore era un uomo già di media età, biondo, serio, il collo un po’ piccolo per cui aveva un aspetto alquanto rigido, aumentato dall’alto solino che usava. Portava una barba bionda intera. Faceva l’impressione di persona molto seria. La consegna del suo cliente al figlio avvenne da parte del vecchio dottore con una certa solennità. Egli raccontò tutta la storia della famiglia incominciando addirittura dalla caduta fatta dal Merti dalle mani della balia. Amelia sorridendo tentò d’interrompere: «Oh! quella, grazie al Cielo, non ha piú importanza». Ma il dottore con voce commossa raccontò tutto quello che aveva sofferto Amelia fino alla morte di Achille. Gli occhi azzurri di Paolo si stabilivano con un aspetto evidente di ammirazione su Amelia che fece venire subito la piccola Donata. Paolo la guardò e senza ciarlataneria ammirando la figurina che cominciava ad allungarsi sempre conservando una piena armonia di forme dichiarò: «Non occorre mica essere stati all’università per capire che qui c’è tutta la salute». S’informò minutamente del modo come veniva nutrita Donata e raccomandò da medico moderno di diminuirle di molto le razioni di carne. S’informò poi di Amelia. Ella stava benissimo e cosí egli non ebbe neppure il piacere di toccarle il polso.
Poi ci fu una seconda visita del vecchio dottor Gherich. Raccontò come il figlio fosse un uomo già noto per certe sue pubblicazioni sulle paralisi infantili. Anzi le porse un opuscolo ch’essa poi tentò di leggere smettendo solo dopo di essersi imbattuta in qualche termine tecnico. Si capiva che al dottor Gherich premeva sopratutto di conservare al figlio la clientela del milionario. Amelia stava ad ascoltare per l’affetto che nutriva pel vecchio signore ma quando egli cominciò a farle anche la biografia del figlio ella ebbe pena per costringersi ad ascoltarlo. Il vecchio signore raccontò delle virtú famigliari del figlio. Aveva sposata una ragazza dabbene che ora dava segni di perdere il bene dell’intelletto; perseguitava il marito con un odio motivato da niente. «I suoi genitori saranno stati pazzi anch’essi?» «Il solo padre» corresse il Gherich sorridendo. «Ma noi si credeva che la sua pazzia fosse derivata da una terribile caduta.» «Dalle mani della balia?» domandò Amelia senz’alcuna malizia. «No! molto piú tardi; dopo la nascita della figlia. Perciò lí (e il buon dottore dedicò all’avverbio un accento speciale) la caduta non ha niente a fare con la malattia.» Il dottor Paolo aveva però una consolazione a questo mondo nel suo figliuolo bravo, bello e buono. E anche questo rimase impresso ad Amelia. «Se è cosí» essa disse «il dottor Paolo non è da compiangere.»
Il suo posto di medico in casa venne conquistato dal dottor Paolo stesso. Una domenica Donata era di malavoglia. Pianse e gridò dalla mattina alla sera. Calato il sole Amelia, praticissima nel maneggiare termometri constatò un leggero aumento di temperatura. Si telefonò per un medico ma a quell’ora e di festa non fu possibile averlo. Già il Merti consigliava di rinunziarvi per quella sera trattandosi di una indisposizione certo di non grande importanza quando la piccola Donata fu colta da un accesso di tosse che non voleva cessare. La bambinaia mormorò: «Che non sia il crup». La casa fu subito per aria. Tutta la servitú fu lanciata in città in cerca di un dottore. Amelia si teneva la bambina stretta al petto, livida dallo spavento. Altrettanto spaventato il Merti. Finalmente si trovò un medico arrivato il giorno prima dall’università. Trovandosi per la prima volta in quel putiferio anche lui perdette la testa. La mamma e il babbo erano tanto lividi ch’egli pensò a un principio di soffocamento. «Io non posso dire altro» sentenziò, «che dovete trasportare subito la bambina all’ospitale. Avete mezz’ora di tempo.» Amelia non se lo fece dire due volte. Coperse la bambina con tre o quattro coperte e corse senza cappello giú per le scale. Ella avrebbe salvata Donata! Per fortuna sulle scale s’imbatté nel dottor Paolo ch’era stato scovato fuori dal cocchiere. Egli guardò con attenzione la bambina che, spaventata, urlava come un’aquila e poté tranquillare subito tutti. La bambina aveva un leggero raffreddore e nient’altro. Subito Amelia gli credette e la sua gioia fu tale che, arrivata nella sua stanza, deposta la bambina sul letto cadde riversa priva di sensi. E fu la prima volta ch’ebbe bisogno ella stessa del dottore. Essa stette subito bene ma la cura fece ammalare il dottore.
Amelia poté accorgersi subito agli sguardi del dottore alla voce che gli si velava quando le indirizzava la parola, come egli volesse dedicare le sue cure specialmente a lei. Ne fu turbata e seccata. Non temeva di nulla ma avrebbe amato per la propria e la tranquillità del marito (che a volte sapeva essere geloso) di avere un medico meno giovine e sopratutto meno innamorato.
Il giovine medico cominciò anche a venire troppo di frequente. Un giorno a lei parve leggere negli occhi di Paolo quasi un’intenzione di aggressione. Ne fu spaventata un po’. Nel corso della conversazione e forse neppure troppo a proposito trovò il modo di proclamare: «Io amo mio marito». I suoi occhi azzurri si fissavano freddi sul medico. Parevano due pezzettini di piastra dura e lucente. Il desiderio di costui la offendeva. Ripeté anche: «Io amo mio marito». Ad ogni modo si capiva ch’ella non dubitava ci fossero delle ragioni che ai terzi poteva far dubitare di tale suo amore, altrimenti non ci avrebbe messa tanta enfasi.
Paolo piegò il capo scorato. Egli era già arrivato a quel punto della passione nel quale ogni alterigia è definitivamente smessa. Oltre che la bellezza egli amava in Amelia anche la virtú. Oh! se sua moglie fosse stata cosí (egli si diceva) egli avrebbe passata la vita ai suoi ginocchi. Il lusso di quel palazzo faceva risaltare meglio la modestia di Amelia. Come si capiva che l’unica cosa di quel palazzo cui ella fosse attaccata era quella sua figliuola Donata. Quella stessa Donata era la prova vivente dell’eccellenza dell’organismo della madre. Quell’organismo, crogiuolo delicato e purificante, aveva annullata la tabe del padre!
«Signora!» egli disse e non volle rinunciare al godimento di parlare del proprio amore, «Signora! Io amo e stimo anche vostro marito.»
Gli occhi azzurri s’addolcirono.
«Permettete» proseguí egli dopo una lieve esitazione, «che io continui le mie cure a Donata. Io spero che la mia presenza non vi offenda tanto da costringervi ad allontanarmi da questa casa. Se avessi a recarvi dispiacere l’abbandonerei da me.» Ella disse con dolcezza: «Vi sono anzi riconoscente delle vostre cure per Donata e vi prego di continuargliele».
Egli non sentí che la dolcezza che c’era in quella voce e non il senso delle parole. Ebbe il torto di afferrarle una mano; ella gliela tolse con disdegno. Si separarono lui umile, supplichevole, essa con evidente premura di vederlo fuori della porta. Ed essa ritornando alle sue solite occupazioni pensava di dover lagnarsi del contegno di Paolo col padre suo. Il disdegno le arcuava le belle labbra. Lui invece scendeva le scale esitante. Certo sarebbe stato raggiunto da una letterina di congedo. Non avrebbe fatte piú quelle scale. E il suo dolore era non di aver osato troppo ma di aver osato troppo poco. Della clientela o di Donata gl’importava poco. Non avrebbe piú avuta l’occasione di dire le tante parole che gli erano suggerite dalla sua passione. Prima tutto dedicato ai suoi studii, poi legato ad una donna che non amava, Paolo, in amore era anche piú giovine di quanto lo fosse in età. Egli avrebbe voluto gli fosse stato permesso di baciare il lembo del vestito di Amelia, o, tutt’al piú, la sua mano. Non ebbe il coraggio di ritornare al palazzo se non chiamato. Di sera da quel ragazzo che era amava passare sotto il palazzo o fermarvisi di faccia a fissare le finestre chiuse. Scriveva anche versi il povero dottore! Certi suoi istinti poetici soffocati dalla medicina e dalla vita ritornavano rigogliosi a galla. All’ospitale i suoi ammalati che sempre lo avevano amato sentivano nelle sue parole e nelle sue cure una nuova dolcezza. Causa il proprio grande dolore era divenuto piú sensibile ai dolori di tutti.
Ad ogni modo ebbe la consolazione di non ricevere l’attesa lettera di congedo. Anzi un giorno che s’imbatté nel Merti, questi lo arrestò per domandargli perché non lo si vedesse piú da loro. «Grazie al Cielo non avete bisogno di me» si sforzò Paolo di sorridere. «Lo so, lo so!» disse giocondamente il Merti che s’era appoggiato allo stipite di una porta. «Tuttavia gli amici si vedono sempre volontieri.» Gli offerse la mano e poi con uno slancio si staccò dal muro e si avviò a zoppicare oltre. Ma Paolo non corrispose all’invito. Non voleva piú veder mutarsi per lui gli occhi azzurri raggianti in piastrine dure metalliche.
Un pomeriggio Paolo era uscito col figliuolo per fargli prendere aria. Era una di quelle giornate soleggiate in cui l’inverno stanco prende un riposo. Alla spiaggia c’era un grande tepore primaverile e Carletto allora decenne camminava con un piccolo passo elastico accanto al padre. Era uno splendido fanciullo bianco, rosso e biondo.
L’equipaggio dei Merti che Paolo riconobbe subito era fermo in mezzo alla via. Dentro, coperto di pelliccie riposava il Merti mentre alcuni passi piú innanzi camminavano Amelia e Donata. Paolo volontieri sarebbe passato oltre anzi trasse un po’ bruscamente a sé il fanciullo per fargli accelerare il passo. Fu sforzo vano. Il Merti esclamò dalla carrozza: «Oh! dottore!» e subito, beato di aver l’occasione di richiamare a sé la moglie, urlò: «Amelia!». Cosí Amelia e la bambina furono presto accanto all’equipaggio ove li attendeva Paolo col figlio suo. Donata aveva allora sei anni e s’intimidí al vedere una nuova faccia. Amelia aveva salutato Paolo gentilmente, decisa come era di non privare la figlia di un medico ch’essa stimava moltissimo. Poi si scherzò e si finí con l’obbligare Donata a dare la manina a Carletto e camminare con lui. Carletto gentilmente trattenne la manina del piccolo essere che gli trotterellava accanto. Amelia con gli occhi lucenti guardava i due piccoli animali ugualmente belli la cui differenza di colore risaltava maggiormente nella viva luce solare. «Li mariteremo insieme!» disse essa sorridendo. «Sí» disse Paolo. Lui non guardava i bambini e dalla beatitudine non aveva parole. Se la carrozza non avesse cigolato presso i