Satire (Persio)/VI
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Che? già il verno t’appressa al Sabin foco,
Basso, e le corde a grave plettro avvivi?
Cantor mirando dell’antiche e prime
Cose al suon maschio di latina cetra,
5Poi d’amor giovanili, e vecchj egregi
Con istil casto. A me tepe la Ligure
Spiaggia, e sverna il mio mar, là dove sporgono
Scogli immensi, e in gran seno il lido avvallasi.
Uopo è veder di Luni il porto, amici
10Ennio il vuol, dacchè in sogno ei Quinto Omero
Non è più da pavon pittagoreo.
Quì nè calmi del volgo, nè dell’Austro
Dannoso al gregge; nè il vicino campo
Del mio più pingue invidio, e s’anco tutti
15Arricchiscano i vili, io non vo’ curvo
Invecchiarmi per questo, e cenar magro,
Nè in boccal muffo dar nel bollo il naso.
Altri altro pensi: un astro crea gemelli
D’umor vario. L’un furbo, il natal solo,
20Compro un dito di salsa, unge erbe secche
Rorandole di sacro pepe; e l’altro
Sciupa un tesor splendido sciocco. Io n’uso
Io sì, ma lauto non dò rombi al servo,
Nè gustar so de’ tordi il sapor fino.
25Spendi quanto è il ricolto, e tutto il macina;
Che temi? il puoi: lavora; e l’altro erbeggia.
— Ma chiede aita l’amico che naufrago
Salvossi ai Bruzj, e i sordi voti e tutto
Seppellì nell’Ionio. Ei giace a riva
30Co’ gran Dii della poppa, e il mergo scontra
Del pin rotto gli avanzi. — Or dunque intacca
Il capital; sii largo, ond’ei non giri
Pinto in azzurro. — Ma, se il fo, la cena
Funebre irato obblia l’erede, e fetide
35Dà l’ossa all’urna, il cinnamo svanito
Non curando, e le casie amarascate.
Dirà: se’ sano, e sprechi? A dritto grida
Bestio a’ Sofi: ecco il frutto del venutoci
Con palme e pepe oltremarin sapere:
40Viziár coll’unto il macco anche i villani.
— Oltre il rogo ciò temi? Or tu mio rede,
Qualunque ti sarai, due motti a parte.
L’Imperador, nol sai? mandato ha il lauro
Per grande rotta de’ Germani. Il freddo
45Cener dell’are è scosso; ed armi al tempio
Cesonia appresta e regj ammanti e rance
Giubbe a’ prigioni e cocchi ed alti Belgi.
Per sì bel fatto cento coppie ai numi
Offro, e al Genio del Duce. Osa impedirlo!
50Guai se fiati. Alla plebe olio e pan-carne
Darò. Il vieti? ti spiega. Abbiam quel campo
Vicin, vuoi dirmi, ancor sassoso. Orsù.
Nè cugina io non ho, nè pronipote,
Nè zia paterna; la materna è sterile,
55Niun dell’ava riman. Vo’ alle Boville,
Se mi secchi, e all’Ariccia, e scrivo erede
Manio. — Un oscuro? — Se mi chiedi il quarto
Mio padre, a stento troverollo. Ascendi
Ancor due gradi, e oscuro è il ceppo. Or Manio
60Può star, che scenda dal maggior mio nonno.
Tu, più prossimo, a che nel corso or chiedermi
La lampa? Dio Mercurio a te vengh’io
Con la borsa: la vuoi, o non la vuoi?
— Manca alcun chè. — Per me l’ho speso: il resto
65Qualunque è tuo. Di Tadio non cercarmi
Il legato, nè farmi il padre adosso,
Col dir: sparmia la sorte, e spendi il frutto.
— Ma che resta? — Che resta? Ehi, ragazzo, ungi,
Ungi più l’erbe. A me, le feste, urtica,
70E teschio appeso per l’orecchie al fumo?
E d’oca entragni al mio nipote, ond’egli
Con palpitante e vagabonda coda
Pisci in conno patrizio? Io scheltro, ed esso
Tremante per grassezza epa di prete?
75Vendi or l’anima al lucro, e merca e fruga
Ogni angolo, e niun meglio ingrassi e traffichi
Dal rigido cancello i Cappadoci.
Doppia il censo: il doppiai; già è triplo e quartuplo
E decuplo. Fa punto; e fia trovato,
80Crisippo, il finitor del tuo sorite.