Centoventi sonetti in dialetto romanesco/Avvertenze
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AVVERTENZE
INTORNO AL DIALETTO ROMANESCO
Ogn’Italiano può leggere e intendere molto facilmente questo dialetto; ma pure non saranno del tutto inutili le seguenti avvertenze.
Per indicare, ne’ casi in cui è necessario, su qual sillaba cada la posa della voce (accento tonico), e insieme se la vocale così accentata sia aperta o chiusa (accento fonico), noi, in tanta deplorabile confusione dell’ortografia italiana, facciamo in questo modo. Sulle vocali e ed o mettiamo l’accento grave, quando devono pronunziarsi aperte; e l’acuto, anche in fin di parola, quando devono pronunziarsi chiuse. Sulle tre altre vocali, che hanno sempre, in romanesco come in italiano, un suono solo, e che perciò richiedono il solo accento tonico, mettiamo sempre il grave, anche nel corpo della parola. E del grave ci serviamo (anzichè del circonflesso, il quale ci è parso inutile, e fors’anche equivoco a cagione del diverso valore che ha in francese), per distinguere vòi (vuoi) da voi pronome, pòi (puoi) da poi avverbio, e simili.
Tutti gl’infiniti de’ verbi, in romanesco, mancano della sillaba finale re; ma conservano l’accento tonico e il medesimo accento fonico sulla vocale in cui l’hanno in italiano: parlà (parlàre), avé (avére), patì (patìre) créde (crédere). Alcuni pochi però, accentati in italiano sulla penultima, sono in romanesco ora tronchi e ora piani, a capriccio. Così, chiamare e vedere fanno ora chiamà e vedé, e ora chiama e vede; per esempio: «Sémo annati a vedé la festa; e voi nu’ la volete vede?» Sui piani non mettiamo nessun accento, salvo il caso che occorra distinguerli da qualche omonimo, come èsse (essere) da esse pronome.
Davanti a’ verbi che, cominciando con la sillaba ri, significano ripetizione d’azione, i Romaneschi aggiungono quasi sempre un’a: aritorna (ritorna), aripeto (ripeto), arispose (rispose).
In vece di non, dicono sempre nun, che spesso troncano in nu’, specialmente davanti all’l.
Al posto dell’articolo il mettono er, e qualche volta el; ma quando vogliono parlare in punta di forchetta o canzonar qualcheduno, dicono anche ir. In vece di i e gli, dicono sempre li; in vece di del, al, dal, col, sul, quasi sempre der, ar, dar, cór, sur. - In generale, oggi non mettono mai l’articolo o la preposizione articolata terminanti in r, davanti a parola che cominci per l; e perciò dicono sempre: el lavoro, del lavoro, al lavoro, dal lavoro, col lavoro, sul lavoro, nel lavoro e simili, e non mai er lavoro, der lavoro, ec. Ma al tempo del Belli, pare che non fosse così; giacchè egli, alle sole persone meno plebee fa usare in questi casi l’l in vece dell’r, e, naturalmente, glielo fa usare davanti a qualunque consonante (si vedano, per esempio, i sonetti La Poverella e Er Cappellaro).
In luogo di nel (salvo l’eccezione della precedente avvertenza), dicono sempre ner (con l’e chiusa), o in ner, o in der; e in plur. ne li, o in ne li, o in de li (nei).
In luogo di nello, sempre ne lo, o in ne lo, o in de lo; e in plur. ne li, o in ne li, o in de li (negli).
In luogo di nella, sempre ne la, o in ne la, o in de la; e in plur. ne le, o in ne le, o in de le (nelle).
In luogo di in un, in uno, in una, usano qualche volta in d’un, in d’uno, in d’una.
Il per lo troncano spesso in pe', e, davanti a vocale, anche in p’, come quando adoprano, ma non sempre, p’er in vece di pel.
Il d dopo l’n lo mutano quasi sempre in n; per esempio, in vece di mondo, quando, intenda, dicono: monno, quanno, intenna.
Al posto del gl mettono sempre la j, salvo quando, ma raramente, in luogo di fijo e fija, dicono fio e fia, e quando, più raramente ancora, in luogo di mijo (misura lineare) e mija dicono mio e mia.
Per la congiunzione condizionale se usano sempre si; e per l’affisso si, sempre se.
Le consonanti iniziali le pronunziano spesso con molta forza, e, nel corpo del discorso, spesso le raddoppiano addirittura, appoggiando la prima, se il senso lo permette, sull’ultima vocale della parola antecedente; per esempio: a pietà, pronunziano appietà; tu sentirai, tussentirai; ma che diavolo, maccheddiavolo. Il Belli metteva queste doppie consonanti; noi non le mettiamo. Raddoppiamo bensì, quando occorre, quelle nel corpo della parola, come doppo, commare, ec.; senza però raddoppiare come il Belli la j per gl (fijo), nè il g avanti all’n (bisogna), quantunque anche queste due si pronunzino quasi doppie.
Spesso la c, nelle sillabe cia, ce, ci, cio, ciu, ha un suono molle, quasi fosse preceduta da un’s (camiscia, disce, calisci, voscione, sciuco), e tutta la sillaba si pronunzia con uno strisciamento piano e uguale, non con quel colpo aspro che le si dà in italiano in floscio, fascio e simili. Il Belli metteva anche quest’s; noi no.
Egli metteva altresì una z, che noi non mettiamo, al posto dell’s, tutte le volte che questa sia preceduta da consonante.