Cartagine in fiamme/8. Un salvataggio miracoloso
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UN SALVATAGGIO MIRACOLOSO
Hiram si era ingannato credendo che Phegor, messo alle strette fra la scelta di un colpo di daga, che non lo avrebbe di certo risparmiato, dato specialmente da una mano così destra e così robusta come quella del guerriero cartaginese e le onde, avesse trovata la morte fra le acque del Mediterraneo. La spia era un uomo d'una solidità a tutta prova e dotato d'una estrema energia. Se aveva trovato dinanzi a sé un avversario assolutamente invincibile e ben deciso a squarciargli la corazza e spaccargli il cuore, non aveva però perduta la speranza di salvare ancora la pelle.
Vistosi ormai perduto, si era precipitato risolutamente fra i cavalloni, contando sulla resistenza dei propri muscoli e sulla sua abilità di nuotatore. Sapendo che sarebbe stato follia voler resistere ai cavalloni che si frangevano con estremo furore contro la scogliera, si era lasciato trasportare da loro, tagliandoli di sotto, onde non farsi sfracellare contro le fondamenta del torrione.
Quella manovra gli riuscì finalmente, sicché quando rimontò a galla si trovava già ad un centinaio di metri dalla scogliera e quasi fuori dal pericolo di esservi ricondotto, essendo in quel luogo i cavalloni brevissimi.
— A quanto pare Melkarth protegge non solo i marinai, bensì anche gli uomini di terra — borbottò il briccone. — Se riesco a girare la scogliera, rientrerò domani mattina in città e allora, mio caro trafficante di Tiro, ti preparerò un giuochetto che ti farà sudare freddo.
Con un poderoso colpo di tallone si sollevò sulla cresta dell'onda che sopraggiungeva, lanciando un rapido sguardo verso il torrione.
— Né il sole e la luna brillano, — mormorò; — però Phegor ha gli occhi che vedono anche fra l'oscurità ed io ti ho veduto, cane d'un esiliato. Tu mi cerchi lungo la scogliera; mi aspetterai un bel po'.
Vedendo che da quella parte non poteva salvarsi, si mise a nuotare vigorosamente girando la scogliera e la torre.
Quel bagno gli aveva fatto tornare le forze quasi esauste da quel lungo battagliare col formidabile cartaginese; per di più la corazza che indossava era leggera e non gl'impediva nessun movimento, essendo formata, come abbiamo detto, da sole piastre che scorrevano facilmente le une sulle altre. Al di là della torre si estendeva una lingua di terra, che correva lungo la bocca, chiamata più tardi dai romani Agger Scipionis, che metteva nel così detto Stagnum Tuneticum, difesa anche da quella parte da muraglie altissime e merlate, poiché tutta Cartagine era cinta da salde bastionate e da torrioni imponenti e merlati.
Sapendo che in quel luogo non vi erano scogliere, Phegor si lasciava trasportare, sicuro di venire spinto sulle arene o sulle dune di sabbia. Già non distava che duecento passi, quando si sentì urtare fortemente e rovesciare su un fianco.
Si lasciò subito cadere a picco, rimanendo sottacqua finché la sua provvista d'aria fu esaurita, poi rimontò alla superficie, in preda a un gran terrore.
— Un pescecane di certo — mormorò. — Ed io, stupido, ho lasciata cadere la daga prima di saltare in acqua. Se la corazza non ti salva ora, Phegor, finirai la tua carriera.
Si era messo a nuotare velocemente, salendo e discendendo le onde che non cessavano di spingerlo verso la costa.
Un secondo urto, più ruvido e più violento del primo, lo gettò da una parte, rovesciandolo quindi colle gambe in aria.
Quasi nel medesimo tempo si sentì afferrare attraverso il corpo e stringere poderosamente. Il disgraziato aveva mandato un urlo terribile, poi con ambo i pugni aveva percosso furiosamente l'animale che già intaccava le piastre della sua corazza, piegandole contro le cestole come se fossero pezzi di cartone. Sia che fosse stato sorpreso da quella inaspettata resistenza o che le piastre di ferro avessero persuaso lo squalo, che quella preda era un po' troppo dura pei suoi denti, aprì le mascelle, probabilmente anche per guardare meglio con chi aveva da fare.
Phegor, sentendosi libero, non indugiò a lasciarsi andare a fondo, per sottrarsi ad un nuovo e più pericoloso attacco.
Toccate le rocce, s'aggrappò ad una di esse, tenendo ben chiusa la bocca. Quell'immersione durò un mezzo minuto, poi il nuotatore, che correva il pericolo di affogare, tagliò l'acqua obliquamente, lasciandosi travolgere da un cavallone che sopraggiungeva rumoreggiando.
Due volte si sentì trasportare in alto e rotolare in tutti i versi e altre due precipitare, quindi scaraventare impetuosamente innanzi fra le dune di sabbia della spiaggia.
Quantunque fosse tutto pesto e avesse le costole indolenzite da quel doppio colpo di mascella, che la corazza aveva solo in parte attenuato, fu lesto a rialzarsi e a mettersi al sicuro dagli altri cavalloni che il Mediterraneo precipitava senza posa.
— Porterò questa lorica al tempio di Melkarth — disse, sforzandosi di sorridere. — Senza queste piastre, quel mostro marino mi tagliava in due come un povero polipo e tutto era davvero finito con Fulvia... Fulvia! — riprese un momento dopo, facendo scricchiolare i denti. — Anche quella me la pagherà, lo giuro su Baal-Molok!... Ama quel preteso trafficante di Tiro, ne sono sicuro. Troppa fortuna, mio caro!... Tu non mi hai ucciso ed io ti struggerò meglio del fuoco di Molok!
Si guardò intorno. La spiaggia era deserta ed a cento metri più innanzi si ergevano le mura della città.
— Una notte passa presto — disse. — Domani delle scialuppe usciranno dallo stagno e mi riuscirà facile rientrare in Cartagine e anche raggiungere il palazzo del vecchio Hermon. Sarà un bel colpo per lui! Lo crede a Tiro ed è qui pronto a giuocarlo. Dove trovare una spia migliore di me?
Colle mani si scavò una buca e vi si accovacciò dentro, come una bestia feroce entro la tana.
Il simun che soffiava sempre caldissimo, asciugava rapidamente le sue vesti. D'altronde anche in quell'epoca le notti africane non erano meno tiepide di quello che non lo sono ora.
Phegor si era assopito da un paio d'ore, quando uno sbattere di remi gli fece aprire gli occhi. Cominciavano allora appena appena le stelle ad impallidire e solo un lieve barlume di luce si diffondeva verso oriente. Si alzò rapidamente, scosse la sabbia che gli si era seccata indosso e si slanciò verso la riva, dalla parte del canale che conduceva nello Stagnum Tuneticum. Una barca, montata da una mezza dozzina di pescatori, radeva la costa, avviandosi verso il mare.
— Accosta! — gridò Phegor. — Ordine del Consiglio dei Centoquattro.
Udendo quel comando, i pescatori non indugiarono di attraversare il canale e raggiungere la spiaggia. Un ordine del Consiglio che, con quello dei Suffetti divideva il potere della repubblica, nessuno avrebbe osato di disobbedire.
— Che cosa desideri, signore? — chiese umilmente il capo dei pescatori.
— Che tu mi conduca nel porto dei mercanti. Hermon, il possente capo dei Centoquattro penserà a ricompensarti. Bada che se tu o qualcuno dei tuoi uomini narrerete a chicchessia che mi avete trovato qui, non sfuggirete alla vendetta del Consiglio.
— Saremo tutti muti come pesci.
Phegor balzò nella barca, si slacciò la corazza onde farsi credere anche lui un pescatore e presero frettolosamente il largo, uscendo dal canale e girando le estreme torri che difendevano la città verso il mare.
Venti minuti dopo entravano a tutta velocità nel porto mercantile, attraversandolo in tutta la sua larghezza.
Quantunque il sole non fosse ancora sorto, Phegor distinse benissimo l'hemiolia d'Hiram ancorata a breve distanza da quella gettata, ove per poco non aveva perduta la vita.
— Vedremo se questa sera tu sarai ancora lì — mormorò, digrignando i denti. — Un bel fuoco in mezzo al porto che possa scorgersi dalle terrazze di Hermon, sarà uno spettacolo che farà piangere i begli occhi d'Ophir.
Ci volle una buona ora prima che la barca, la quale aveva dovuto rallentare la sua corsa, in causa del gran numero di scialuppe che ingombravano il porto, raggiungesse le calate meridionali.
— Tornate alla pesca, e silenzio — disse Phegor ai barcaiuoli, quando la barca toccò la riva. — Voi avete reso un gran servizio alla repubblica ed al Consiglio. Non sarete dimenticati.
Balzò a terra e s'allontanò rapidamente, entrando in città attraverso una di quelle numerose gallerie che sboccavano nel porto.
Si trovava nei vecchi quartieri della città formati da casette quadrate, strette e altissime come torri, sormontate da terrazze e divise le une e le altre da viuzze tortuose e cosparse di sabbie e di avanzi d'ogni specie, veri semenzai d'infezione.
Phegor risalì lentamente verso la grande piazza dei templi dedicati a Baal-Molok, a Melkarth e ad Astarte, il dio supremo dei cartaginesi; però giunto in una viuzza trasversale, e quasi abbandonata, fiancheggiata da vecchie case semidiroccate, vi s'introdusse, camminando con precauzione e girando intorno sospettosamente gli occhi.
Il suo viso era diventato cadaverico e pareva che una profonda impressione, una specie d'angoscia, lo avesse improvvisamente assalito.
— Che sia proprio vero, — mormorò — che gli assassini sentono il prepotente bisogno di rivedere le loro vittime? Forse ho fatto male a uccidere quella povera vecchia, ma la passione per quella etrusca mi acceca e mi fa diventare più cattivo di quello che forse non sono.
Si era fermato dinanzi ad una casupola di meschina apparenza, la cui porta era socchiusa.
Esitò qualche minuto, poi con un calcio l'aprì e s'inoltrò in uno stretto corridoio, le cui pareti erano diventate nere pel fumo dei focolari che non avevano alcuno sfogo, non conoscendo i cartaginesi l'uso dei camini. Giunto alla base d'una scaletta, Phegor s'arrestò, poi fece un passo indietro. Una gran pozza di sangue era sul pavimento.
— È morta! — mormorò il miserabile. — Quando l'ho lasciata si dibatteva ancora. D'altronde, era una schiava etrusca, una donna che apparteneva a quella razza infame che rovinò la nostra repubblica. Muoiano tutti, fuorché Fulvia pei suoi begli occhi!
Salì la scala, sostando però ogni due o tre gradini ed entrò in una stanzuccia dalle pareti screpolate, quasi priva di mobili: la dimora di una povera schiava. In mezzo al pavimento, distesa sui neri mattoni, avvolta in una vecchia veste di lana oscura, qua e là rattoppata, giaceva una donna, ancora bella, coi capelli nerissimi e disciolti, di forme giunoniche, simili a quelle delle matrone, cogli occhi sbarrati ed un orribile squarcio alla gola coperto di sangue raggrumato. Phegor, con uno sforzo supremo, si era accostato alla sua vittima, che pareva lo fissasse ancora con uno sguardo pregno d'odio, poi aveva dato indietro facendo un gesto di disgusto.
— Purché questo delitto, che non era necessario, non mi sia fatale — mormorò, mentre un brivido lo scuoteva tutto. — Chi saprà la sorte che toccherà a Cartagine con quella maledetta Roma? È quella lo spettro sinistro della nostra repubblica!... Si direbbe che negli occhi della madre di Fulvia io vedo la suprema e la più terribile minaccia della nostra rivale del Mediterraneo. Ah!... Quegli occhi mi fanno troppa paura!
Volse le spalle alla povera donna e fuggì quasi a precipizio, scendendo i gradini a quattro a quattro.
Quando fu nella via aspirò una lunga boccata d'aria, mormorando:
— Questo è vento della nostra repubblica. Là dentro soffiava raffica romana.
Si era messo a camminare velocemente, guardandosi di quando in quando indietro, come se temesse di veder ricomparire, sulla porta sgangherata della casupola, la madre della fanciulla che amava, colla gola orrendamente squarciata e grondante sangue.
Quando si ritrovò nella grande via che conduceva alla piazza dei templi, rallentò il passo anche perché la folla la ingombrava. Lunghe file di schiavi iberi, numidi, romani, negri delle province interne, passavano e ripassavano carichi di merci, spinti innanzi da guardiani che non risparmiavano loro nerbate ed ingiurie. La schiavitù antica, se era dolce per le donne, non era certo troppo gradevole per gli uomini, specialmente per quelli robusti. Se Roma li sacrificava nei suoi circhi, Cartagine, forse più pratica, li dedicava interamente ai suoi commerci e anche abusava delle loro forze. Phegor, che pareva assorto in tristi pensieri, attraversò la vasta piazza senza nemmeno degnare d'uno sguardo quelle grandiose costruzioni, che potevano competere con quelle meravigliose dell'Egitto e superare forse quelle romane per ricchezza dei colonnati e vastità dei peristili e s'arrestò dinanzi alla magnifica dimora di Hermon, che era una delle più belle e delle più grandi di Cartagine.
— Il vostro padrone? — chiese agli schiavi che erano schierati dinanzi alla porta.
— È sulla terrazza — risposero.
— Che nessuno mi segua: affari del Consiglio dei Centoquattro.
Salì un marmoreo scalone, attraversò parecchie gallerie che, se non avevano lo stile arabo puro e che doveva succedere qualche migliaio d'anni dopo, di poco lo distavano, e comparve sull'immenso terrazzo che era riparato da un velario meraviglioso, di porpora che doveva costare una somma enorme. Sdraiato su un cuscino d'egual stoffa, stava un vecchio dalla pelle assai abbronzata e quasi incartapecorita, tutto avvolto in un'amplissima veste di lana bianca che gli lasciava scoperte la magre spalle e le più magre braccia, con piccoli sandali di pelle ai piedi, legati con corregge dorate e trattenute da fermagli di perle e di smeraldi.
— Phegor! — esclamò, vedendo comparire la spia. — Quando ti si vede, il Consiglio dei Centoquattro e la repubblica nulla hanno da perdere. Tu, giovanotto, hai sempre avuto una intelligenza meravigliosa.
— Salute e lunga vita al vecchio Hermon, il capo più saldo della repubblica — rispose la spia con rispetto.
— È il vento del deserto o quello del Mediterraneo che ti porta qui?
— Né l'uno, né l'altro — rispose Phegor, con un tristo sorriso. — Soffia questa volta dal porto mercantile.
— Non sono dunque né quei maledetti romani, né quei dannati numidi che ti hanno qui spinto.
— No, mio signore, questa volta è un cartaginese.
Il vecchio Hermon si era sollevato sulle braccia, guardando con stupore la spia.
— Si trama qualche cosa dunque qui, entro le salde mura di Cartagine? — chiese.
— Sì, ma non contro la repubblica perché il nemico è troppo debole, bensì contro di te — disse Phegor.
— Astarte ti ha forse guastato il cervello, figliuol mio?
— Nemmanco un dito, mio signore.
— Per Baal-Hammon, spiegati dunque!...
— Tua figlia è qui?
— No — rispose Hermon. — Mi ha detto che si recava al porto dei mercanti per fare degli acquisti. Delle navi fenicie provenienti da Tiro sono giunte e tu sai, forse meglio di me, che portano sempre dei profumi meravigliosi che alle donne piacciono.
— Ah! — fece Phegor, sorridendo malignamente.
— Che cosa vuoi dire?
— La notte scorsa dove ha dormito la fanciulla che tu hai adottata come figlia?
— Nella sua stanza.
— E la vegliava?
— La sua schiava favorita.
— Sarepta?
— Certo.
— Ne sei sicuro, mio signore?
Il vecchio si rizzò in piedi cogli occhi fiammeggianti.
— Vieni tu a parlarmi della repubblica o dei miei affari privati? — chiese. — Dimentichi forse chi sono io? Sono il capo del Consiglio dei Centoquattro.
Phegor rimase impassibile dinanzi a quella sfuriata.
— Mi hai capito? — chiese il vecchio.
— Sì.
— Che cosa hai da rispondere dunque?
— Che sono venuto qui per la repubblica e anche pei tuoi affari privati. Gli uni si connettono cogli altri.
— Che Tanit polverizzi Melkarth...
— Tu bestemmi inutilmente, mio signore. Chi sono io dunque? Una spia!... il Consiglio mi paga e faccio il mio dovere.
— Che cosa vuoi sapere dunque?
— Se tu sei certo che Ophir la notte scorsa abbia dormito.
— Lo dubiti?
— Certo, perché io so che mentre tu ed i tuoi schiavi dormivate, ha ricevuto, su questo terrazzo, un uomo.
— Che i vini dell'Iberia ti avessero guastata la testa?
— Non avevo bevuto nemmeno l'acqua delle cisterne.
— E l'hai veduto quell'uomo?
— Sì ed ho cercato anche di farlo prendere...
— Ed era? — chiese il vecchio con voce sibilante.
— Ma... — disse Phegor che pareva si divertisse a mettere a dura prova l'impazienza del capo del Consiglio dei Centoquattro. — Alcuni mi hanno detto che è un onesto mercatante di Tiro.
— Un navigante!... Dove Ophir può averlo conosciuto?
— Non ho ancora finito, mio signore. Quella non è l'opinione mia.
— Udiamola dunque.
— Sarebbe invece un uomo che potrebbe diventare fatale alla repubblica, perché militava in Italia, contro Roma, con Annibale.
— Il suo nome? — gridò il vecchio.
— Lo conosci già, perché sei stato tu ad esiliarlo quando ti sei accorto che Ophir lo amava.
— Hiram?...
— Sì, Hiram! Io l'ho riconosciuto quantunque siano trascorsi due anni da che Cartagine lo respinse nel Mediterraneo. Sono una spia che vale oro quanto pesa, è vero mio signore?