Cartagine in fiamme/22. Roma alla conquista dell'Africa

22. Roma alla conquista dell'Africa

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22. Roma alla conquista dell'Africa
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ROMA ALLA CONQUISTA DELL'AFRICA


Mentre Cartagine a poco a poco riacquistava il dominio del Mediterraneo, in parte perduto dopo la seconda guerra punica, e, fidente nella pace conclusa coll'orgogliosa Roma, trascurava le sue armate per dedicarsi interamente ai suoi commerci, il Senato romano nascostamente decretava, certo non lealmente, la distruzione di quella florida colonia fenicia.

Roma già vincitrice in Oriente e nelle Gallie, sognava la conquista del mondo allora conosciuto, con una tenacità ammirabile.

Le invincibili Aquile romane, non si accontentavano più dell'Europa; volevano l'Asia e anche l'Africa, prima di spingersi verso i nebbiosi mari del settentrione.

Troppe angosce aveva provato l'eterna città, quando il grande, ma sfortunato Annibale, l'aveva minacciata così da vicino, da compromettere gravemente le sorti della repubblica, per tollerare una così pericolosa rivale. Un altro grande condottiero d'eserciti poteva sorgere, e dall'Africa portare la guerra in Italia. Perciò il Senato ne aveva decretata la distruzione. Sembra che Cartagine fosse diventata un vero incubo per la repubblica romana e forse non aveva torto, quantunque la colonia fenicia non pensasse affatto, in quell'epoca, a riprendersi una rivincita, accontentandosi di arricchirsi.

Non era, come ha detto Fulvia, leale la mossa del Senato romano, poiché i cartaginesi avevano reso più d'un servigio alla loro potente avversaria: avevano denunziate le mene ostili del grande Annibale, forzandolo a esulare dalla patria e ad avvelenarsi. Roma però non aveva tenuto alcun conto di quei servigi, che aveva riguardati come doverosi; non pensava che al rapido rifiorire della sua rivale e si doleva di non averla abbattuta abbastanza da impedirle di risorgere.

Catone pel primo aveva già lanciato nel Senato la famosa frase: delenda Carthago. Era quello il segnale, o meglio la condanna di morte della disgraziata città.

Forse quel grido era figlio della paura, poiché Catone, a cui il Senato aveva affidata una missione in Africa, aveva potuto constatare coi propri occhi l'opulenza della repubblica cartaginese, numerare i suoi mercenari e le sue triremi e quinqueremi.

Il timore che l'Oriente, appena sottomesso, dopo sanguinose guerre dalle Aquile romane, poteva collegarsi con quei fenici, che uscivano dal medesimo tronco e far ancora tremare Roma, e forse abbatterla per sempre, aveva invaso a poco a poco tutti gli animi dei vecchi senatori e la terribile parola che doveva segnare la fine d'un gran popolo, era stata pronunciata. Gli appigli non mancavano; Roma aveva già in Africa un fedele alleato, che aveva giurato un odio mortale contro Cartagine per gelosia della sua grandezza: era il vecchio Massinissa, re della Numidia a cui Roma aveva affidata segretamente la sorveglianza della sua rivale.

Il guerriero indomabile, forte della protezione delle Aquile romane, aveva approfittato per dare un primo colpo alla colonia fenicia. Uomo audacissimo, malgrado la sua età molto avanzata, nel 561, avanti la nascita di Gesù Cristo, col pretesto che i cartaginesi erano stranieri in Africa, non appartenenti alla razza negra, aveva, senza dichiarazione di guerra, tolto loro, brutalmente, violando i patti ed il diritto delle genti, il ricco territorio di Emporia, che serviva di passaggio nell'interno del Sahara.

Invano Cartagine aveva protestato appellandosi al Senato romano. Non solo dovette rinunziare a quel possesso, bensì fu costretta a pagare all'usurpatore la bella somma di cinquecento talenti!

Massinissa, da buono e abile ladrone, inorgoglito di quel successo insperato, che gli aveva dato nelle mani terra e denari, non aveva tardato a riprendere il giuoco così ben riuscito e si appropriava, poco dopo, la provincia di Fisca, che apparteneva a Cartagine, non dubitando che il Senato romano gli avrebbe dato ragione.

E non s'ingannò: il ladro aveva fatto benissimo, e Cartagine dovette starsene zitta per timore di peggio.

Quando però fu la volta di Oroscopa, un'altra terra che dipendeva da Cartagine, la pazienza dei fenici sfumò, e levato un esercito di 50.000 uomini li mandarono contro l'usurpatore.

Disgraziatamente l'impresa finì male. L'esercito cartaginese fu rotto; e dopo quel disastro inaspettato, la povera repubblica si trovò sulle spalle una dichiarazione di guerra da parte di Roma, la quale non voleva perdonare ai suoi rivali di aver impugnate le armi per difendersi da un così gran ladrone. E quella fu la più grande infamia delle Aquile romane. I pirati più sfacciati e più feroci, avrebbero forse agito più lealmente dei senatori della grande Roma. Il Consiglio dei Centoquattro e quello dei Suffetti, atterriti solo all'idea di veder giungere le quinqueremi romane, avevano messo in opera ogni mezzo per scongiurare l'uragano, che stava per piombare sulla disgraziata città, che ormai non racchiudeva, fra le sue mura, altro che un esercito di recente sconfitto. L'idea di resistere alle implacabili pretese del Senato romano, era sorta in tutti i cuori, poiché il coraggio e l'amor patrio non mancavano ai cartaginesi; ma l'improvvisa defezione di Utica, una delle migliori fortezze della repubblica, li decise a cedere.

Ahimè! Ormai Roma aveva decretata la distruzione della rivale, aveva già preparato un esercito di 80.000 uomini affidando il comando ai due consoli C. Mario Censorino e Marcio Manlio Nipote.

Apprendendo la notizia che quelle truppe, formate quasi esclusivamente di veterani che avevano combattuto in Oriente, sarebbero state mandate contro Cartagine, il Consiglio dei Centoquattro e quello dei Suffetti, avevano mandato prontamente dei messi a Roma, coll'incarico di mettere a discrezione del Senato romano l'intera città e la sua popolazione.

L'offerta, che dimostrava pur troppo l'impotenza della disgraziata repubblica, era stata tosto accettata, promettendo ai cartaginesi di conservare loro libertà, autonomia, leggi e territorio contro la consegna di trecento ostaggi. Quell'atto che sembrava generoso, nascondeva invece un infame tranello, poiché il Senato romano aveva parlato di territorio senza includere nel trattato il nome di Cartagine città!

Quantunque quell'omissione dovesse mettere in guardia i consiglieri ed i senatori cartaginesi, la sfortunata repubblica fece la consegna degli ostaggi e di tutte le sue armi di difesa e d'offesa: così ben duecentomila armature e un grosso numero di arnesi guerreschi, passarono nelle mani dei romani, togliendo a Cartagine la possibilità di difendersi perfino contro le incessanti ruberie di Massinissa.

La perdita di quelle armi, fu pianta lungamente dagli sventurati cartaginesi; pure colla speranza di poter vivere tranquilli e di riprendere i loro fiorenti commerci, piegarono il capo.

Le cose erano giunte a questo punto quando Phegor, dopo sette giorni di assenza, fece ritorno alla casupola di Fulvia.

Hiram, già quasi completamente guarito, mercé le cure assidue del suo fedele hortator e di certi balsami misteriosi portatigli da Thala, ma soprattutto per ragione della sua fibra eccezionale, era già in piedi e stava discorrendo con Fulvia e con i suoi amici, quando la spia entrò.

La spia non sembrava troppo di buon umore. La sua fronte appariva pensierosa e nei suoi occhi si leggeva un profondo sgomento.

— Tu porti tempesta — gli disse Hiram.

— È vero, signore — rispose Phegor. — Ho assistito or ora all'imbarco degli ostaggi e di tutte le nostre armi. Quei cani di romani non potevano dettarci condizioni più feroci. Una grande sventura sta per piombare sulla nostra povera patria.

— I vili mercanti per conservare i loro commerci hanno tradito Cartagine! — rispose il valoroso capitano con accento indignato. — Sarebbe stato meglio che avessero gettate nel mare le loro merci e che avessero impugnate le armi che hanno consegnato. Io ho sempre odiato quegli uomini che hanno disprezzato noi, che combattevamo per la loro salvezza. Il grande Annibale sarà vendicato dal destino.

— Comincio a temerlo anch'io, signore. Roma comincia ad approfittare della nostra imbecillità.

— Che cosa c'è dunque ancora?

— Sono giunti messi da Roma stamane.

— E quali nuove hanno recato? — chiesero ansiosamente Hiram, Sidone e Thala.

— Che il Senato romano ha intimato al nostro di distruggere la città e di rifabbricarne un'altra a ottanta stadi dal mare.

— È una infamia! — urlò Hiram tendendo le pugna.

— Miserabili! — esclamò Sidone. — Roma si disonora di fronte al mondo!

Phegor alzò le spalle.

— L'onore, il disonore! — disse poi. — Andate a cercarli ora che Roma detta legge a questo povero mondo che va gradatamente, ma implacabilmente, conquistando.

— Vogliono dunque la fine della potenza marinaresca fenicia — disse Thala che era non meno indignato d'Hiram.

— Vuole far di noi, popolo marinaio per eccellenza, un miserabile popolo d'agricoltori — rispose Phegor.

— Ed i Suffetti ed il Consiglio dei Centoquattro, che cosa hanno deciso? — chiese Hiram.

— Pare che vogliano mandare altri messi a Roma per cercare di placarne l'avidità — rispose Phegor.

— E null'altro?

— Ed intanto prepararsi alla difesa.

— Ora che le nostre truppe non hanno più né armature, né armi, né macchine guerresche?

— Si cercherà di fabbricarne delle altre. Ma lasciamo pel momento la politica, capitano, e occupiamoci della tua fidanzata. Ella è qui e non più a Utica.

— Qui! — esclamò Hiram, con un grido di gioia. — Nella casa del vecchio Hermon?

— No; il vecchio non si è fidato a riprenderla con sé. L'ha fatta chiudere nel tempio di Tanit. Sai dove si trova, capitano, non il nuovo, il vecchio?

— Sull'isolotto di Melkarth, è vero?

— Sì — rispose Phegor.

— Lo conosci bene? Vi sono molti sacerdoti là dentro?

— Non meno di cinquanta.

— Vi sono guerrieri che vegliano?

— Il vecchio Hermon ha mandato due dozzine di guardie dei Centoquattro. Egli teme un altro tentativo da parte tua.

— Sa dunque che sono vivo?

— Lo hanno prontamente informato della tua fuga dalla fortezza.

Hiram trasalì.

— Potrebbe allora scoprirmi — disse poi.

— Se io non lo informo, chi potrebbe sospettare tu che abiti questa misera casupola?

— E non parlerai tu?

— No, perché Fulvia non lo vuole ed io oggi sono il suo schiavo.

Un impercettibile sorriso apparve sulle labbra dell'etrusca, che stava appoggiata al lettuccio senza aver fino allora pronunciata una sola parola, poi aveva abbassata subito la testa, onde la spia non sorprendesse la cupa fiamma che le era balenata negli sguardi.

— È vero, Fulvia? — chiese la spia con una certa ansietà.

— Tu sarai sempre muto — rispose l'etrusca con accento imperioso. — Se vuoi avermi per tua sposa, dovrai obbedirmi fino a quel giorno, poi farai quello che vorrai.

— E Phegor giura su tutti gli dei che terrà la bocca chiusa — rispose la spia. — Vedi quanto t'ama l'uomo che tu prima tanto disprezzavi?

Fulvia fece un cenno col capo, ma non rispose.

Hiram intanto si era seduto sull'orlo del lettuccio, prendendosi la testa fra le mani, come se cercasse di far meglio scaturire qualche idea.

— Dunque che decidi, capitano? — chiese Phegor. — Approfitta di questi pochi momenti di tregua che ci lasciano quei cani di romani. Fra tre o quattro lune sarebbe troppo tardi, poiché Cartagine sarà stretta d'assedio.

— Lo credi tu? — chiese Hiram con profondo dolore.

— Lo credono pure anche il Senato ed il Consiglio. Più nessuno si fa illusione sulla sorte che toccherà a Cartagine. Non cadremo senza lotta, non porgeremo la gola alle spade romane perché ci sgozzino come vili montoni, ma l'ultima parola spetterà ai romani, ve lo dico io, capitano.

— E non si protesta contro la gran Roma? — chiese Thala.

— Lo hanno già fatto i nostri messi — rispose Phegor. — Hanno già fatto osservare al Senato romano che colla nostra sottomissione ci erano stati accordati il diritto di conservare la nostra libertà, la nostra autonomia, le nostri leggi ed il nostro territorio.

— E che cosa hanno risposto i romani? — chiese Hiram.

— Che era bensì vero che il Senato romano aveva promesso di rispettare i cittadini, ma non la città, non avendola menzionata nel trattato; anzi i loro consoli hanno aggiunto con cinico scherno, che la distruzione di Cartagine e la fondazione di un'altra città lungi dal Mediterraneo, sarebbe stato di nostro grande vantaggio, perché avremmo trovati maggiori guadagni nel lavorare la terra che correre sui mari. Che cosa decidi dunque capitano? Di rapire nuovamente Ophir? Avrai forze sufficienti per forzare il tempio?

— Con venti dei miei uomini sarei capace di espugnare anche un bastione ben difeso.

— Questa sera, dopo il tramonto, mi troverai sulla spiaggia del porto delle bastionate, con una barca. Se non ti spiace ti guiderò io fino al tempio.

— Bada però che se tu mi fai preparare un agguato, tu sarai il primo a cadere — disse Hiram con voce minacciosa.

— Sono nelle mani di Fulvia — rispose la spia. — Se ella fosse con me allora forse non risponderei della mia fedeltà, poiché io sono ai servizi del Consiglio dei Centoquattro e un po' d'onestà l'ho anch'io, sia pure a mio modo. Addio capitano: dopo la calata del sole ci rivedremo.

Si fermò un istante a contemplare estatico la bellissima etrusca, che non badava in quel momento affatto a lui; poi si allontanò rapidamente bestemmiando Tanit e Melkarth.

Hiram, dopo la partenza della spia era ricaduto nei suoi pensieri. Anche Fulvia, Sidone ed il capo dei mercenari tacevano, tutti presi da una profonda angoscia, ma certamente per motivi diversi. Alla etrusca importava ben poco che Cartagine cadesse nelle mani di quei terribili romani, che avevano già ridotta quasi in schiavitù la sua patria. Era ben altro quello che la preoccupava e che le turbava profondamente il cuore.

Fu ancora il capitano che pel primo ruppe il silenzio, che già durava da parecchi minuti. — Che cosa pensi di tutto ciò, Thala? — chiese rivolgendosi al suo amico.

— Che quella spia non poteva parlare meglio — rispose il vecchio guerriero. — Se tu tardi a rapire Ophir, ti verranno addosso i romani e chissà che cosa nascerà allora. Potresti perdere la vita e la fidanzata insieme.

— Povera patria mia! — esclamò il capitano con un profondo sospiro.

— Non la rimpiangere troppo — disse l'hortator. — Non è mai stata riconoscente verso i suoi generosi figli, che la difendevano contro gli assalti dello straniero. Quale premio ha dato a te perché hai combattuto contro quella Roma, che ora ne esige la distruzione? Merita che tu sguaini ancora la tua spada per essa? Per Tanit e per Melkarth no, assolutamente no! Prenditi la bella Ophir, giacché tu l'ami così immensamente, noleggia una buona triremi e fila verso l'Italia o l'Iberia, prima che le quinqueremi romane blocchino la città. Questo è il consiglio che ti dà il tuo fedele hortator.

— Io fuggire mentre la patria soccombe? Io gettare in mare la mia spada già bagnata nel sangue di quei prepotenti? Sarà impossibile, Sidone.

— Se tu vorrai armeggiare ancora una volta contro i romani, mi troverai al tuo fianco — disse il numida. — Metti prima al sicuro Ophir. Questo è il momento opportuno poiché coi gravi avvenimenti che stanno per succedere, il vecchio Hermon non avrà troppo tempo per occuparsi della sua vezzosa figlioccia.

— Sono pronto a ritentare il colpo — rispose Hiram. — Quando la fanciulla sarà nelle mie mani vedremo quello che ci converrà di fare. Le quinqueremi romane non sono già ancora giunte.

— E quando l'avrai, lascerai Cartagine? — chiese Fulvia con un tremito strano nella voce.

— Il mio sangue deciderà — rispose Hiram. — Tu verrai con me, è vero fanciulla?

— Io? — fece l'etrusca, scuotendo il capo e ravviandosi nervosamente con una mano la sua splendida capigliatura nera. — Te l'ho già detto che non lascerò Cartagine e che io non rivedrò più mai il bel cielo d'Italia.

— Ma perché una tale ostinazione, Fulvia? Perché rimanere qui fra gli orrori d'una guerra di esterminio?

— Non chiedermi il motivo, Hiram — rispose l'etrusca. — Già non te lo direi.

— Allora è segno che tu, pur dimostrando per quella spia un supremo disprezzo, segretamente e senza volerlo lo ami.

— Supponi pure che sia così — disse Fulvia con voce stridula, e in cui si sentiva tutto l'odio che ne provava.

— Strana fanciulla! Chi potrà comprenderti?

— Un uomo avrebbe potuto comprendermi da lungo tempo, ma non l'ha voluto.

— Chi?

— Non posso dirtelo; poi perché perdere il nostro tempo in parole inutili, mentre devi prepararti a strappare Ophir dalle mani dei sacerdoti di Tanit? Forse l'impresa non sarà così facile come tu credi. Hai tu qualche piano nel tuo cervello?

— Ne ho uno io e credo che un altro migliore non si potrebbe trovare — disse Sidone che da qualche po' sembrava che pensasse intensamente. — Sarà possibile trovare vestiti di sacerdote? Qui sta la gran questione, o meglio il grande ostacolo.

— Sono così semplici che in poche ore Fulvia può prepararne anche due dozzine — disse Thala. — I sacerdoti del tempio di Tanit non hanno che un lungo camice di lana gialla.

— E che cosa vorresti farne, Sidone, di quei vestiti? — chiese Hiram.

— Eh!... Eh! — fece l'hortator ridendo. — La sorpresa sarà bellissima.

— Spiegati meglio, amico.

— Tu, Thala, sei conosciuto da molti mercenari.

— Quasi da tutti — rispose il vecchio guerriero.

— Credi che la notizia della tua fuga sia già nota alle truppe?

— Dubito assai.

— Se tu fossi incaricato d'un ordine del Consiglio, nessuno lo metterebbe in dubbio.

— Non credo.

— Dunque tu sarai incaricato di scortare una dozzina di sacerdoti e di mandare quelle guardie in qualche luogo, possibilmente lontano, a spiare l'arrivo delle quinqueremi romane. I tuoi uomini prenderanno il loro posto.

— Tu sei un uomo meraviglioso — esclamò Thala. — Un simile piano, così semplice, non mi sarebbe mai spuntato nel cervello.

— È perché tu non sei un marinaio — rispose Sidone ridendo. — Padrone, — disse poi volgendosi verso Hiram, — approvi quanto ho esposto?

— Pienamente.

— Allora non si tratta ora che di procurarci della lana, per camuffare i nostri numidi da sacerdoti.

— Manderò due dei miei veterani ad acquistarne — disse Thala.

— Sbrigati capo, perché le ore passano presto ed io e l'etrusca avremo molto da cucire.

— Anche tu?

— Un marinaio deve saper fare un po' di tutto.

Il capo uscì di corsa, mentre l'hortator si stropicciava allegramente le mani borbottando:

— Sarà un bel colpo. Basta che Melkarth ci protegga sempre.