Cartagine in fiamme/19. Una fuga miracolosa

19. Una fuga miracolosa

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18. La difesa della torre 20. Il ritorno a Cartagine

UNA FUGA MIRACOLOSA


Quando il veterano e Sidone risalirono sulla piattaforma della torre, qualche freccia sibilava in alto, colpendo le travi della catapulta, senza recare danno alcuno ai pochi numidi rimasti lassù di guardia, poiché si guardavano bene dal mostrarsi fra le aperture dei merli.

Alcuni arcieri, nascosti dietro i rottami dei parapetti delle altre quattro torri, si divertivano a lanciare qualche dardo, più coll'intenzione di tenere i difensori a bada, che colla speranza di metterli fuori di combattimento.

— Sembra che abbiano rinunciato all'idea di farci capitolare colla forza — disse Sidone. — Anche giù, non si ode più alcun rumore.

— Contano sulla nostra fame — rispose il veterano. — La faccenda sarà più lunga però, anche più certa e meno pericolosa per loro.

— Io per mio conto ne ho già perfino troppa, e ritengo che i miei uomini non si trovino in migliori condizioni di me.

— Pazienta fino al tramonto.

— Te l'ho promesso, signore, e non mi lamenterò. Mi prenderò la rivincita più tardi a bordo dell'acatium.

— Se il suo equipaggio sarà sbarcato.

— Sì, signore — disse un marinaio dell'hemiolia, che lo aveva udito. — Abbiamo veduto poco fa un grosso drappello approdare e dirigersi verso questa collina.

— Erano molti quegli uomini? — chiese Sidone.

— Tre dozzine per lo meno.

— Allora ben pochi devono essere rimasti a bordo. Quelle piccole navi non hanno equipaggi numerosi. Stringiamoci la cinghia e aspettiamo che il sole se ne vada a dormire.

Durante la giornata nessun tentativo fu fatto da parte della guarnigione per prendere d'assalto ed espugnare la torre, quantunque fosse stata fortemente rafforzata dall'equipaggio dell'acatium. Non vi era stato che un semplice scambio di frecce fra i guerrieri del corridoio ed i veterani di Thala e fra i numidi della piattaforma e gli arcieri delle torri.

Quando il sole si tuffò in mare, e le tenebre si stesero sull'isoletta, Sidone aiutato dai compagni, portò sulla piattaforma tutte le funi trovate nel magazzino delle armi, vi aggiunse quelle levate dalla catapulta e si mise ad unirle solidamente, facendovi a brevi distanze dei grossi nodi onde servissero d'appoggio. I veterani di Thala, dopo essersi ben accertati che la guarnigione non aveva alcuna intenzione di dare la scalata al primo piano, erano saliti silenziosamente sulla piattaforma portando Hiram.

Thala, curvo su un merlo, ascoltava attentamente, cambiando di frequente posizione.

Quantunque non giungesse dal basso alcun rumore, e la notte fosse diventata oscurissima, essendosi il cielo coperto da densi strati di vapore, attese però ancora qualche tempo, prima di dare il segnale della discesa.

— Prima i marinai — disse quando ebbe gettata la fune, e quando ebbe fatta assicurare una estremità alle travi della catapulta. — Vi troverete al di sopra di una galleria, quindi vi raccomando il più assoluto silenzio, potendo trovarsi sotto di voi delle sentinelle. Non dimenticate che dalla vostra prudenza dipende la salvezza di tutti. Sidone porta con te l'altra fune che ho fatto preparare.

— Sarà abbastanza lunga quella? — chiese l'hortator.

— Il bastione da quella parte non è molto alto. Ne avremo d'avanzo. A te pel primo.

— Subito, signore.

L'hortator si assicurò bene le armi e l'elmetto, scavalcò il parapetto passando fra due merli, s'aggrappò alla fune e scomparve fra le tenebre. Uno dietro l'altro, dopo una breve sosta, scivolarono i numidi.

Quando a Thala parve che tutti fossero giunti sopra la galleria, fece ritirare la fune, avvolse strettamente Hiram nella sua coperta, assicurandolo con parecchie corde tolte agli archi, poi lo portò sul parapetto dicendogli:

— Non temere e non muoverti, amico.

— Non ho paura — rispose il ferito. — E Fulvia?

— Scenderà con me. La fune è solida, e l'ha annodata il tuo hortator, quindi può reggere due e anche più persone.

La coperta era stata legata all'estremità della gomena. Hiram si trovò sospeso nel vuoto e la discesa cominciò, lentamente, senza scosse, tenendo i veterani ben ferma la corda.

Dopo Hiram fu la volta di Thala e di Fulvia.

La giovane etrusca non ebbe alcuna esitazione, quantunque una simile discesa, fra l'oscurità, da compiersi a forza di braccia e di gambe, dovesse spaventare perfino i veterani.

— Le mie braccia sono robuste come quelle dei guerrieri della forte Roma — disse a Thala.

— Io sarò sotto di te pronto a sorreggerti — rispose il veterano.

E la spaventevole discesa, su quella fune ondeggiante era cominciata, rasente l'altissima muraglia della torre.

Quattro volte Thala sostò sotto i nodi, per lasciar tempo alla valorosa fanciulla di riposarsi un istante e di riprendere fiato, poi, sia l'uno come l'altra, si trovarono nelle braccia dei numidi, pronti ad accoglierli.

— Fanciulla — gli disse il veterano, la cui voce era un po' alterata. — Io t'ammiro. Nessuna donna cartaginese avrebbe osato tentare una simile discesa.

I veterani scendevano a due alla volta, sicché in pochi minuti tutti si trovarono riuniti su un tetto piatto, formato da lastre di pietra, senza nessuna pendenza, che pareva dovesse coprire qualche galleria.

— Ci siete tutti? — chiese il veterano.

— Tutti — rispose Sidone che li aveva contati uno ad uno.

— Che due uomini, i più robusti ed i più agili, s'incarichino del trasporto d'Hiram. Uno sorvegli la romana e l'aiuti nei passi difficili.

— E dove finisce questo tetto? — chiese Sidone.

— Sul bastione orientale. Hai sempre la fune tu?

— Sì, signore.

— Seguitemi e soprattutto nessun rumore. Come vi ho detto vi possono essere dei guerrieri sotto di noi; ed un all'armi in questo momento sarebbe terribile, giacché le torri ci dominano.

— Cercheremo di essere leggeri come gazzelle — mormorò Sidone.

Si mossero con infinite precauzioni, onde non scivolare, tenendosi tutti curvi, potendo darsi che qualche sentinella vegliasse sulle terrazze dei vicini fabbricati, che si stendevano intorno alle torri in forma di croce. I mercenari, essendo meglio armati e anche i più agguerriti, marciavano dinanzi con Thala, poi seguivano Hiram e Fulvia ed i numidi venivano ultimi. Attraversato tutto il tetto senza essere stati scoperti, raggiunsero un alto bastione, che formava la cinta esterna della fortezza. Thala stava per salire la piccola gradinata che metteva sulla terrazza merlata, quando arrestò i suoi compagni dicendo sottovoce:

— Tutti a terra!

— Che cosa c'è? — chiese Hiram.

— Vedo un'ombra che passeggia sul bastione.

— Una sentinella?

— Certo.

— Ci ha scorti?

— No, perché continua a passeggiare.

— Bisogna sopprimerla e senza che mandi un grido — disse Sidone. — Affida a me l'incarico.

— Prendi due uomini con te: il colpo sarà più sicuro.

L'hortator con una breve parola fece avanzare due dei suoi numidi.

— Mano lesta e la daga ferma in pugno — sussurrò loro.

— Sì, pilota — risposero i due africani.

— Come le serpi!

— Strisceremo.

Si gettarono sulle pietre che formavano il tetto, mettendosi le daghe fra i denti e deponendo gli scudi onde essere più liberi nel loro movimento, poi salirono silenziosamente la scaletta.

La sentinella si era in quel momento fermata, volgendo loro il dorso e appoggiandosi ad una specie di picca.

— Sorprendiamola prima che si volga — sussurrò Sidone ai suoi uomini. — Sotto e vibrate il colpo sicuro, nella colonna vertebrale.

Da veri africani strisciarono sempre silenziosamente dietro al guerriero. Ad un tratto Sidone s'alzò stringendo la daga.

S'udì appena un rauco respiro, poi un tonfo sordo. Il mercenario, colpito fra le due spalle, era stramazzato, senza mandare un grido, nel fossato del bastione.

— La via è libera — disse l'hortator tornando verso Thala e sciogliendo la fune che portava avvolta intorno alla corazza. — Quel povero uomo non ha avuto nemmeno il tempo di raccomandare la sua anima a Tanit.

— Avanti! — comandò il veterano.

Salirono in fretta la scaletta, attraversarono il bastione, assicurarono un capo della fune ad uno dei merli e gettarono l'altro nel fossato.

— Attenti alle punte di ferro — avvertì Thala.

La discesa, brevissima d'altronde, poiché il bastione non era alto che una mezza dozzina di metri, si compì felicemente, senza che la guarnigione si fosse accorta di nulla.

Probabilmente continuava ad assediare la torre centrale, credendo che i numidi si trovassero ancora lassù alle prese già colla fame. Salita la scarpa del fossato, con non lievi fatiche e precauzioni, perché anche quella era irta di punte di ferro acutissime, che lasciavano appena il passaggio ad una persona, s'incamminarono verso le boscaglie che coprivano i fianchi dalla collina.

Quando l'imponente massa della fortezza scomparve dietro gli alberi, Sidone respirò a lungo, battendosi il petto con ambe le mani.

— Erano due ore che nei miei polmoni mancava l'aria — disse a Thala che gli camminava a fianco. — Vorrei vedere il viso che farà domani il comandante della fortezza, quando non ci troverà più sulla piattaforma della torre.

— Sarà meglio che tu non lo veda — rispose il veterano sorridendo.

— Di questa fuga se ne parlerà a lungo. È stata veramente meravigliosa. Ci prendano ora!

— Non siamo ancora a Cartagine, e ci rimane da compiere l'impresa più difficile.

— La conquista dell'acatium? Sarà un affare spiccio, signore.

— Non sappiamo quanti uomini siano rimasti a bordo.

— Ti ho detto che quelle navi hanno equipaggi poco numerosi. Il grosso è nella fortezza, quindi ben pochi devono essere rimasti sul legno.

— Tu non hai pensato ad una grave difficoltà.

— A quale signore?

— Se non trovassimo sulla spiaggia una barca?

— Sanno nuotare i tuoi uomini?

— Tutti.

— Ci getteremo a nuoto e assaliremo egualmente l'acatium — rispose Sidone. — Anche colle armature non saremo troppo imbarazzati ad attraversare due o trecento passi d'acqua. Faremo a meno degli scudi.

— Non trovi mai ostacoli tu.

— Signore, si tratta di salvare il mio padrone, innanzi a tutto, e poi la nostra pelle. Giacché Melkarth non mi ha ancora chiamato negli abissi marini, cerco di tirarla alla lunga più che posso.

— E non ti dò torto — rispose il veterano. — Anch'io, pur sempre combattendo, ho sempre cercato di conservare la mia.

— Ah, signore!

— Vuoi dire?

— Se andiamo a Cartagine, riconosceranno facilmente l'acatium: una nave da guerra non è una mercantile. Noi daremo fuoco alla nave?

— Sì, ma quando saremo a Cartagine — rispose il veterano.

Erano giunti allora alla base della collina. Thala osservò attentamente la pianura, poi si cacciò nel burrone che avevano già percorso per giungere al passaggio segreto della fortezza.

Mezzanotte doveva essere passata da qualche po', quando giunsero sulla riva del mare. La luna cominciava allora a far capolino fra uno strappo dei vapori che coprivano il cielo, facendo scintillare vagamente le onde, che la marea spingeva verso il lido, con un rotolamento ritmico.

La barca che aveva loro servito per approdare era scomparsa; però a duecento passi dalla riva ondeggiava pesantemente l'acatium, e nessun lume vi brillava sopra. I pochi uomini rimasti a bordo, sicuri di non essere disturbati, dovevano dormire profondamente sui banchi dei remiganti.

Tutti si erano fermati guardando la nave. Anche Hiram, che era stato deposto sulla sabbia della spiaggia, si era alzato sulle ginocchia per meglio vederla.

— Io credo che l'impresa non sarà poi tanto difficile — disse Sidone, avvicinandosi al ferito. — Non vi deve essere molta gente su quell'acatium; e poi dormiranno tutti.

— Vuoi attaccarla? — chiese Hiram.

— Sì, padrone, ci è necessaria per recarci a Cartagine.

— Potremo disporre d'un numero sufficiente di remiganti?

— I miei uomini lasceranno le daghe e lo scudo pel remo — disse Thala. — Sono abituati alle dure fatiche; il grande Annibale faceva, quando era necessario, dei suoi guerrieri dei remiganti.

— È vero — affermò Hiram.

— Giù gli scudi e non perdiamo tempo — comandò Sidone. — Due uomini, i peggiori nuotatori, rimangono a guardia del padrone e della etrusca.

— E le corazze non saranno di troppo peso? — chiese Hiram.

— Io rispondo dei miei uomini — disse Sidone.

— Ed io dei miei — aggiunse il veterano. — Hanno attraversato più volte l'Ebro, anche cogli scudi sulle spalle.

— Andiamo, signore — replicò l'hortator che era impaziente d'assalire l'acatium.

I mercenari ed i numidi gettarono gli scudi sulla sabbia, poi si cacciarono risolutamente in acqua, tenendo le daghe fra i denti.

Soli due uomini erano rimasti a guardia d'Hiram e di Fulvia, pronti però ad accorrere in aiuto dei loro compagni, se ve ne fosse stato di bisogno. Sidone, come il solito, era dinanzi a tutti, nuotando vigorosamente.

Il vecchio pilota nuotava come un pesce, e non si trovava affatto imbarazzato anche se aveva indosso la pesante corazza e l'elmetto sul capo.

Con poche bracciate raggiunse la fune dell'ancora gettata a poppa dell'acatium, e vi si aggrappò in attesa dei compagni.

Il veterano, che nuotava non meno destramente di lui, fu il primo a raggiungerlo.

— Hai veduto nessuno? — gli chiese.

— Si direbbe che la nave è deserta — rispose l'hortator. — Sali: io ti seguo.

Sidone s'aggrappò alla fune stringendola colle mani e con i piedi. Quantunque fosse vecchio, in pochi istanti raggiunse la murata di poppa e la scavalcò con un volteggio da far invidia ad un giovanotto.

Aveva appena impugnata la daga, quando si vide precipitare addosso un uomo e sentì afferrarsi per la gola, mentre una voce tuonava:

— Tradimento!... Tutti in coperta!

L'assalto era stato così improvviso, che il pilota si trovò a ridosso della murata e nell'impossibilità di difendersi.

Fortunatamente il veterano giungeva in suo aiuto. La daga del guerriero scintillò in aria e calò sul dorso del marinaio dell'acatium.

Il disgraziato lasciò l'hortator, mandando un urlo di dolore, fece due o tre passi indietro agitando disperatamente le mani e cadde pesantemente sulla tolda, gridando con un ultimo sforzo:

— Aiuto!... Tradimento!

Dal boccaporto di prora accorreva furioso l'equipaggio, armato di asce e di coltellacci ricurvi in forma di falce.

Non erano però che dodici o quindici uomini, ancora assopiti e mezzi stupiditi. Sidone ed il veterano, con pochi e formidabili colpi di daga, frenarono il loro slancio urlando: — Arrendetevi!... Siete morti!

L'imminenza del pericolo aveva però completamente svegliati i marinai, i quali credendosi assaliti da pochi individui, dopo aver dato indietro fino alla torretta di prora, erano tornati all'attacco, gridando furiosamente. In quel momento i numidi ed i compagni di Thala, uno ad uno, giungevano, balzando lestamente sopra la murata poppiera.

— Arrendetevi! — ripetè il veterano allungando il braccio armato. — Non potete vincere.

I marinai dell'acatium vedendo giungere continuamente altre persone, gettarono le armi e s'inginocchiarono dicendo:

— Grazia!...

— Meritereste che vi gettassimo in bocca ai pesci — disse Sidone. — Siamo però uomini generosi e del vostro sangue non sappiamo che cosa farne. Calate le barche.

I marinai dell'acatium, troppo felici d'essere sfuggiti alla morte, non si fecero ripetere due volte l'ordine, e le due scialuppe furono messe in acqua.

— Una per voi e una per noi — disse Sidone. — Sei uomini per andare a raccogliere il padrone e la etrusca. Lesti, amici; prima dell'alba dobbiamo essere lontani e al di là d'Utica.

Un momento dopo le due scialuppe prendevano il largo, una dirigendosi direttamente verso la spiaggia, l'altra, che conteneva i marinai dell'acatium, verso occidente.

— Ed ora signore? — chiese l'hortator, interrogando il veterano.

— In rotta per Cartagine — rispose Thala. — Sarà là che noi daremo la grande battaglia, se Hiram vorrà riconquistare la fanciulla che ama.

— Sarà ancora libera?

— Lo spero. Non credo possibile che il vecchio Hermon abbia pensato a rinnovare subito le nozze. E poi Ophir, che io conosco benissimo, è troppo scaltra per cedere senza aver prima saputo se Hiram è vivo o morto.

— E se le nozze si facessero a Utica invece che a Cartagine?

— Il presidente dei Centoquattro non può assentarsi dalla capitale, in questo momento, più d'una mezza giornata. Gravi notizie sono già giunte da Roma.

— Eh! — fece Sidone aggrottando la fronte. — Un'altra guerra?

— Sembra che Roma si sia decisa di dare un colpo mortale alla repubblica cartaginese.

— Che cosa vogliono ancora quei romani?

— Che cosa? Il dominio assoluto del Mediterraneo e la distruzione della potenza fenicia. Sono certo che tristi giorni si preparano per Cartagine. Annibale, il grande Annibale, vilmente abbandonato dalla sua patria, è morto di veleno e non sarà più qui a difenderla colla sua invincibile spada!

— Ecco un uragano che verrà forse a guastare i nostri affari. È necessario affrettarci, o il padrone perderà tutto.

— Spero che la nostra lotta finisca prima che le quinqueremi e le triremi romane facciano la loro comparsa dinanzi a Cartagine.

L'arrivo della scialuppa, che conduceva a bordo Hiram e Fulvia, troncò la loro conversazione.

— Grazie, amici — disse il ferito quando fu issato in coperta, tendendo la mano a Sidone ed a Thala. — Non dimenticherò mai che a voi devo non solo la vita, bensì anche la mia libertà.

— Non parlare di ciò Hiram — rispose il veterano. — Pensa a guarire più presto che ti sarà possibile e lascia a noi l'incarico di riprendere Ophir.

Lo fece trasportare nella cabina del comandante, adagiandolo su un soffice letto, poi risalì prontamente gridando:

— Ai remi amici!... Taglia la fune, Sidone!

Numidi e guerrieri scesero sotto coperta, la fune di poppa fu troncata d'un sol colpo, e l'acatium prese la corsa verso il sud, mentre l'hortator riprendeva le sue funzioni, battendo vigorosamente la lastra di bronzo situata dinanzi alla panca di poppa, onde regolare i colpi dei remi.

Essendo, come abbiamo già detto, quelle navi di poco tonnellaggio, l'acatium filava rapidissimo sotto la spinta dei suoi venti remi disposti su due ordini. I guerrieri aiutavano vigorosamente i numidi d'Hiram, come se fossero veri marinai. Thala, dopo essersi assicurato che nessuna nave era in vista e che il veloce legno si dirigeva verso la costa occidentale senza deviare, premendo a tutti di tenersi lontani da Utica, dove si teneva ancorato il grosso della squadra cartaginese, ridiscese da Hiram per esaminargli la ferita e rinnovargli la fasciatura.

— È tempo che mi occupi un po' anche di te, amico — gli disse. — Finora non ho potuto fare nulla per la tua ferita.

— Non preoccuparti gran che — rispose Hiram sorridendo. — i corpi dei guerrieri sono abituati ai colpi di lancia e di daga.

— Quando non cadono stecchiti: e quello è il nostro torto — aggiunse Thala.

Fece cenno a Fulvia di uscire e levò delicatamente le fasce che coprivano la ferita.

— Ecco un buon colpo di daga — disse curvandosi su Hiram e prendendo in mano la piccola lampada di metallo. — Quello che te lo ha dato, doveva avere un polso sicuro e un braccio robustissimo. Fortunatamente la punta deve prima essersi smussata contro la tua corazza, che non le ha permesso di andare troppo innanzi.

— Ne avrò per molto?

— Tu sei di una robustezza eccezionale, amico. Tra una quindicina di giorni tu potrai restituire questo colpo di daga, se quel soldataccio ti comparirà dinanzi.

— Non lo conoscerei, perché la notte era troppo oscura e poi avevo non so quanti uomini intorno che cercavano il mio cuore.

— Il grande Annibale sapeva scegliere i suoi uomini. Ah!... Se fosse ancora vivo! L'ingrata sua patria merita la punizione che l'aspetta.

— Che cosa dici tu, Thala? — chiese Hiram.

— Ti ripeterò quello che dicevo poco fa al tuo hortator. Roma muove alla conquista della tua patria.

— Torna alla carica! — esclamò Hiram con doloroso stupore.

— Uno dei messi del Consiglio dei Centoquattro, giunto giorni sono dall'Italia, ha recato la terribile notizia che Roma si prepara a portare nuovamente la guerra in Africa, colla scusa di proteggere Massinissa.

— Non è ancora contento Massinissa di averci, a poco a poco, forte dell'appoggio dei romani, ridotto quasi ad un nulla il nostro territorio, un giorno così vasto?

— Non sembra amico — rispose Thala. — Quel vecchio dannato che osa sostenere che i cartaginesi sono stranieri in Africa, si è preso anche Emporia e non intende di restituirla a Cartagine.

— Gli si muova guerra una buona volta!...

— È quello che si farà — rispose il veterano. — So che la repubblica sta preparando cinquantamila uomini per invadere la Numidia; io però dubito che possano bastare. Dietro a Massinissa vi è la repubblica romana; e sono certo che nel caso che al numida toccasse un disastro, le navi dei nostri nemici sarebbero qui. I tuoi compatrioti, che hanno mandato ambasciatori in Italia per reclamare contro le continue prepotenze dell'africano, quale giustizia hanno ottenuta? D'obbligare la tua repubblica a pagare a quel barbaro re cinquecento talenti in aggiunta delle spogliazioni e delle rapine commesse. Roma è perfida e prepara la rovina di Cartagine!

— Sì — affermò Hiram, come parlando fra sé. — Sarà un terribile uragano che tutto schianterà nella sua corsa disastrosa. Maledetta Roma!... Si scorda che i nostri, più vili che gli sciacalli, le hanno reso un prezioso servigio.

— Quello di avvertirla delle mene del grande Annibale, che sognava una nuova corsa trionfale attraverso l'Italia e di abbandonarlo. Se non si fosse avvelenato, tu avresti assistito a chissà quale morte del famoso capitano.

— Ed io, che cosa farò? — si chiese Hiram dopo un lungo silenzio. — Lascerò che Roma distrugga la mia patria senza brandire la spada?

— La patria! — esclamò il veterano con un sorriso di scherno. — Vedi come questi trafficanti orgogliosi, che altro non pensano che ad accumulare denari, ti hanno ricompensato dei servigi che tu hai resi alla repubblica? Ti hanno esiliato a Tiro.

— È vero, Thala, fu ingrata verso Annibale e verso tutti i suoi capitani, che volevano renderla potente e temuta.

— Lascia quindi che la tua patria se la sbrighi da sé. Il Consiglio dei Centoquattro sarebbe capace, se tu offrissi la tua valorosa daga in difesa della repubblica, d'arrestarti e di farti morire fra i più atroci tormenti per soprappiù.

— Io sono nato in Cartagine.

Thala alzò le spalle.

— Anch'io sono nato in Sicilia — disse poi.

— Amo la terra che mi servì di culla.

— Troppo generoso.

— E non potrei assistere alla rovina della mia patria, io che sono uomo di guerra.

— Farai quello che vorrai Hiram, prima però assicurati Ophir.

— La ritroverò io?

— Non può essere che a Cartagine e sapremo scovare il vecchio Hermon. In un momento così terribile per la repubblica, non avrà abbandonata la sua carica. Riposa tranquillo e non preoccuparti d'altro. Riprenderemo il discorso a Cartagine.

Lo costrinse con dolce violenza a ricoricarsi, lo coprì per bene uscì dalla cabina in punta di piedi, risalendo sulla tolda.