Cartagine in fiamme/17. Una spedizione notturna

17. Una spedizione notturna

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16. Un soccorso inaspettato 18. La difesa della torre

UNA SPEDIZIONE NOTTURNA


— Fermi! Lume dinanzi a noi! Ah! Che abbiano saputo quelle canaglie che noi siamo qui? Che sia la quinqueremi?

— È impossibile pilota! — rispose una voce. — Stamane non vi era alcuna nave qui.

— Che sia l'acatium?

— Nemmeno quello c'era.

— Eppure quel lumicino indica la presenza d'una nave.

Sidone, poiché era lui che domandava, abbandonò per un momento il lungo remo che serviva da timone alla pesante barca regalatagli da Aco, e scrutò attentamente la tenebrosa superficie del mare. I remiganti, vedendolo rizzarsi, avevano alzate le pale. Tutti gli sguardi si erano fissati verso la costa dell'isola, che era vicinissima e dove si scorgeva una massa oscura, sulla quale brillava un piccolo punto luminoso.

— È qualche grossa nave — disse infine l'hortator, facendo un gesto di stizza.

Il veterano che si era alzato disse:

— E che, non siamo forse noi uomini d'arme? Non siamo già venuti qui per far saltare l'acqua coi remi e spaventare pesci. Vi è un lume? Lo spegneremo colle nostre daghe e colle nostre azze, avesse pure intorno cento uomini.

— Ecco un bel parlare — disse Sidone. — Il capitano Hiram sapeva scegliere i suoi amici ed i suoi guerrieri.

— E forti e decisi a tutto — rispose il veterano. — Vuoi che attacchiamo quella nave?

— No — rispose risolutamente Sidone. — In questo momento gli uomini sono troppo preziosi.

— Potremo accostare la spiaggia senza che quei marinai se ne accorgano?

— Sidone è un furbo.

— Fa' come vuoi allora.

L'hortator per la seconda volta si alzò guardando la massa oscura che il flusso sollevava leggermente, con un continuo scricchiolìo, poi disse ai suoi uomini:

— Avanti, senza far rumore.

— Sarà un affare un po' serio, pilota — disse un marinaio di punta. — Vi sono scoglietti dinanzi alla spiaggia.

Era vero. Le onde del Mediterraneo, che giungevano dal largo, si frangevano con furore sopra una moltitudine di scoglietti, che si stendevano dinanzi alla riva, aguzzi come pettini, rimbalzando con formidabili muggiti.

Spingere la barca sopra quegli ostacoli, era come esporsi ad una sicura perdita.

Sidone però non era un marinaio da spaventarsi per così poco.

Riprese il lungo remo poi disse ai suoi uomini:

— Avanti e niente rumore.

La barca, che si era arrestata, riprese la corsa, in modo da passare molto al largo dalla massa oscura che galleggiava nella minuscola baia dell'isola. Il fragore prodotto dalle onde rompentesi contro le scogliere e le dune, copriva il rumore dei remi, mentre la profonda oscurità, resa più fitta da masse vaporose, che il vento di settentrione spingeva nella baia cartaginese, copriva la barca rendendola assolutamente invisibile.

Quella seconda corsa durò una diecina di minuti, poi Sidone fece nuovamente alzare i remi, dicendo:

— Adagio, amici: mi pare che vi siano delle scogliere dinanzi a noi.

— È vero pilota — disse uno dei remiganti. — Le ho vedute stamane.

— Ed a me è parso d'aver udito un grido verso la spiaggia — aggiunse il veterano.

— L'avrà mandato qualche uccello marino — rispose Sidone. — Cerchiamo di non dar di cozzo contro le scogliere e affrettiamoci a prendere terra, prima che la luna si mostri. Tu, signore, conosci la via che mena alla fortezza?

— Ti condurrei lassù anche se avessi gli occhi bendati — rispose il veterano.

— Giù i remi, ragazzi — comandò L'hortator. — Tagliate l'acqua di piatto.

La barca si mise in marcia lentamente, con infinite precauzioni per non urtare e sventrarsi sulle punte rocciose; poi trovato un passaggio, mosse veloce verso la spiaggia, arenando la prora sulle sabbie.

Al rumore prodotto dai remi che venivano riposti sui banchi, alcuni stormi di gabbiani, che sonnecchiavano fra le dune, s'alzarono, scappando in tutte le direzioni con un vivo starnazzare d'ali.

— Buon segno — disse Sidone. — Se qui vi fossero degli uomini, quegli uccelli sospettosi non si sarebbero posati.

I ventitré uomini e Fulvia sbarcarono portando con loro le daghe e le asce, tirarono la barca in secco onde l'alta marea non la portasse via e si misero subito in cammino preceduti dal veterano.

Superate le dune, si trovarono in mezzo a gruppi di palmizi e di agave, disposti senza alcun ordine, la qual cosa indicava come quella parte dell'isola non fosse stata ancora dissodata.

— Mi pare che nessuno vegli — disse il veterano, rivolgendosi verso Sidone che gli camminava a fianco. — Potremo così giungere inosservati all'entrata del passaggio segreto.

— E dov'è la fortezza?

— Dopo queste piante: si trova sulla cima d'una collina e viene anche considerata come inespugnabile.

— Che brutto affare per noi, se Melkarth non vi avesse mandato, capitano! Che cosa avrei potuto fare io con pochi uomini contro bastioni imprendibili?

— Vi avrebbero uccisi tutti prima che uno di voi fosse giunto sugli spalti — rispose il veterano.

— È grossa la guarnigione?

— Quando io ero il comandante della fortezza, avevo sotto di me duecento uomini.

Sidone fece una smorfia.

— Oh! — esclamò poi.

— Entreremo senza che alcuno se ne accorga — disse il veterano. — Il passaggio segreto mette nella stanza del comandante, che sorprenderemo nel sonno. Quando avremo in mano lui, i suoi uomini non oseranno assalirci, almeno lo spero. Affrettiamo il passo. Se l'alba ci sorprendesse, quella nave che abbiamo scorta potrebbe darci dei gravi fastidi durante la nostra ritirata.

— Lesti, ragazzi, — disse Sidone, — e tu, romana, se sei stanca affidati alle mie braccia.

— Non ne ho ancora bisogno — rispose Fulvia.

Il drappello oltrepassò la zona alberata e si trovò dinanzi ad una piccola pianura sparsa di rocce acute ed interrotta di tratto in tratto da burroncelli. All'estremità sorgeva una collina su cui giganteggiava una gran massa nera, adorna di alcune torri altissime.

— La fortezza — disse il veterano, indicandola a Sidone.

— Un vero nido d'uccelli rapaci — rispose l'hortator. — Non saliremo però fino lassù. Non vi è bisogno.

Il veterano osservò la pianura per qualche minuto, poi guidò il drappello entro un burroncello fiancheggiato di cespugli e che pareva si prolungasse fino alla base della collina.

— Che nessuno parli senza mio ordine — disse. — Qui vi è del pericolo, e se veniamo sorpresi, le catapulte della fortezza ci lanceranno addosso una tale massa di sassi da coprirci tutti.

Anche il burrone fu attraversato in tutta la sua lunghezza, senza che i marinai fossero stati scoperti e giunsero ben presto alle prime falde della collina, che erano coperte da una folta vegetazione.

Dopo una nuova fermata per meglio orizzontarsi, il veterano prese un sentieruzzo che saliva serpeggiando fra le altissime palme, e lo seguì finché si trovò dinanzi ad una enorme roccia dove scorgevasi, a circa due metri dal suolo, una nera apertura del diametro d'un paio di metri.

— È questo lo sbocco del passaggio segreto della fortezza — disse.

— Farà oscuro là dentro — disse Sidone.

— Ho con me una corda che per caso ho trovato nella scialuppa — rispose il veterano. — Sarà abbastanza lunga per rischiararci il cammino fino alla porta di bronzo.

Trasse di tasca due selci e le battè violentemente sul rovescio della sua daga, mentre uno dei suoi compagni sfilacciava rapidamente un pezzo di corda ben imbevuta di quella misteriosa composizione, conosciuta in quell'epoca col nome di fuoco greco, perché inventata dagli abitanti dell'Arcipelago. Ottenuto il fuoco, il veterano, aggrappandosi agli sterpi ed ai rami dei cespugli, che crescevano fra le spaccature della rupe, raggiunse l'apertura. Sidone aiutò Fulvia a salire, poi uno ad uno montarono gli altri.

— È proprio questo il passaggio capitano? — chiese l'hortator.

— Non m'inganno — rispose il veterano. — L'ho percorso troppe volte. Seguitemi.

Prese la fune che ardeva meglio d'una torcia, impugnò per ogni precauzione la daga e s'inoltrò nel corridoio che era stato scavato nel vivo masso.

Tutte le fortezze cartaginesi, come già altre costruite più tardi da altri popoli, avevano una galleria che serviva di ritirata alle guarnigioni, onde sottrarle alla strage, non avendo né romani, né altri l'abitudine di graziare i prigionieri.

Quanti ne cadevano in mano ai vincitori, venivano scannati senza alcuna misericordia ed i cartaginesi più barbari e più sanguinari ancora, non si mostravano più generosi.

L'istoria di Attilio Regolo, è troppo conosciuta da tutti per giudicare dei selvaggi ed inumani costumi di quei tempi lontani.

La galleria saliva ripida, così stretta però da permettere appena il passaggio d'un solo uomo per volta. Quello scavo doveva aver costato non poche fatiche ai costruttori della fortezza.

Giunti ad una certa altezza, i mercenari ed i numidi di Bidone s'arrestarono dinanzi ad una porta di bronzo, che pareva molto massiccia e che solo un ariete sarebbe stato capace di sfondare.

— Siamo sotto la fortezza — disse il veterano. — Qui dietro vi è la stanza del comandante.

— Non sarà però cosa facile gettarla giù senza fare un fracasso da svegliare anche Melkarth, se è abituato a dormire — disse Sidone.

— Non occorre usare né le spalle, né le asce — rispose il veterano.

Alzò la corda che continuava a bruciare, mise le mani su un anello che era passato entro un gancio, poi spense la fiaccola, chiedendo:

— Siete pronti?

— Sì — bisbigliarono tutti.

— Le armi in mano.

— Le abbiamo.

Si udì tosto un leggero stridìo come se la porta, invece d'aprirsi, scorresse entro delle scanalature, poi il veterano sussurrò:

— Avanti: il passaggio è libero.

Tutti si spinsero innanzi stringendo le daghe e le asce e si trovarono avvolti in una profonda oscurità.

— Il comandante non si è ancora coricato — disse il veterano. — Non tarderà però, essendo la notte già alta. Coricatevi a terra e lasciate fare a me e all'hortator.

— Che cosa devo fare? — chiese Sidone.

Il veterano lo prese per una mano e lo trasse innanzi finché si trovò addosso ad una parete.

— Non muoverti di lì, pilota, — gli disse — e aspetta che il comandante entri.

— Se non sono diventato sordo mi pare che qualcuno scenda una scala, capitano — rispose l'hortator. — Noi numidi abbiamo l'udito acutissimo.

— Pare anche a me.

— Devo afferrarlo pel collo e strangolarlo, od accopparlo con un colpo d'ascia?

— Non farai altro che prenderlo e turargli la bocca.

— Non griderà, capitano. Due dita sul collo e nessun suono uscirà dalle sue...

— Taci: viene!

Si udiva un passo pesante scendere dai gradini. Sidone appese alla cinghia l'ascia e allargò le braccia.

Un momento dopo la porta, anche quella di bronzo, s'apriva ed un uomo, che indossava una corazza a scaglie rientranti e che doveva aver varcato la cinquantina, entrava tenendo in mano una lampadina di metallo che spandeva all'intorno non troppa luce.

Aveva appena varcata la soglia che Sidone gli piombava addosso stringendolo forte alla gola, mentre il veterano gli strappava la lampada onde non si rovesciasse.

— È preso, capitano — disse l'hortator, chiudendo nel medesimo tempo, con un poderoso calcio, la porta. — L'ho fatto diventare muto d'un colpo solo.

I compagni del veterano ed i numidi, che fino a quel momento si erano tenuti sdraiati al suolo, erano scattati in piedi come un solo uomo, facendo balenare le daghe e le asce.

— Allenta la stretta — disse il veterano.

Sidone obbedì.

Il comandante, dopo d'aver aspirata rumorosamente una lunga boccata d'aria, fece qualche passo indietro, chiedendo con voce strozzata dal furore e un po' anche dalla poderosa stretta dell'hortator:

— Chi siete voi? Romani forse?

— Fino a ieri mattina eravamo mercenari al soldo della repubblica cartaginese, — rispose il veterano facendosi innanzi. — Ora siamo uomini liberi.

— Venduti ai romani — disse con disprezzo il comandante.

— T'inganni: i guerrieri che col grande Annibale hanno vinto in Italia tante battaglie, non si vendono ai loro nemici.

— Perché siete qui dunque? Che cosa volete da me? Io sono il comandante della fortezza.

— Lo sapevamo anche prima — disse Sidone ironicamente.

— Traditori!...

— Taci e rispondi invece alle nostre domande — disse il veterano. — Sei circondato, i nostri uomini ad un mio cenno sono pronti ad ucciderti, non dimenticarlo.

— Io risponderò se mi dirai come tu sei entrato.

— Pel passaggio segreto.

— Chi te lo ha indicato?

— Questo non ti riguarda: rispondi e non interrogare. Tu hai un uomo ferito nella fortezza, che fu raccolto in mare. È vero?

Il comandante lo guardò come se avesse cercato di indovinare i pensieri del veterano.

— Parla — disse il capitano con voce minacciosa. — Noi non siamo già venuti qui per impadronirci della fortezza; se però tu non risponderai, sorprenderemo la guarnigione e non lasceremo vivo un solo uomo. Conosco troppo bene questo luogo. Ti è stato consegnato un uomo ferito?

— Sì — rispose il comandante che non sperava ormai di essere soccorso da nessuno, trovandosi quella stanza troppo lontana dai corridoi e dalle camerate.

— Un capitano, è vero?

— Non lo so, un guerriero però di certo, perché aveva ancora indosso la corazza.

— Sai come si chiama?

— Hiram.

Fulvia e Sidone avevano mandato nell'istesso tempo un grido a malapena frenato:

— Lui.

— Il padrone!

— Fu condotto qui solo? — riprese il veterano.

— Sì, solo.

— È grave la sua ferita?

— Ha ricevuto un colpo di daga sotto l'ascella destra.

— Guarirà?

— L'uomo è forte e giovane ancora, e la lama che lo colpì non è molto entrata nella carne.

— Si potrebbe trasportarlo senza pericolo?

— Credo di sì.

— Noi siamo venuti a prendere quell'uomo.

— Io non posso cederlo — disse il comandante. — Mi è stato affidato da un messo del Consiglio dei Centoquattro.

— Fosse anche un messo di centocinque, noi ce lo prenderemo egualmente — disse Sidone. — Per Melkarth, nostro protettore! Uno più uno meno, a noi non fa né freddo né caldo, perché noi siamo gente da riderci anche di Baal-Molok e di Tanit.

— Non bestemmiare contro le nostre divinità! — disse il comandante.

— Io non sono un cartaginese, non credo che nella protezione di Melkarth — rispose Sidone.

— Allora sei un nemico della repubblica.

— Niente affatto, perché servo fedelmente e devotamente un capitano cartaginese.

— Il ferito forse?

— L'hai indovinato.

— Un uomo che la patria ha bandito.

— Già, perché aveva versato, in Italia, il suo sangue per la patria — disse Sidone beffardamente. — Ecco la ricompensa del famoso Consiglio dei Centoquattro e dei suffetti. Ci consegni il prigioniero sì o no?... Noi non siamo venuti qui per discutere, bensì per agire.

— E se mi rifiutassi?

— Poco ce ne importerebbe, — disse il veterano; — anzi spiacerebbe a te perché avresti in compenso un buon colpo di daga e di quelli che troncano la vita sull'istante. Conosco la fortezza meglio di te, saprei trovare egualmente il prigioniero.

— Giacché sono nelle vostre mani, cedo al vostro desiderio. Badate però che non rinuncerò più tardi a vendicarmi di voi.

— Sapremo guardarci da te. Apri e guidaci e t'avverto che al primo grido che mandi sei un uomo morto.

Il comandante fece un gesto vago e aprì la porta. Il veterano fu pronto a precederlo tenendo nella sinistra la lampada e nella destra la daga, onde essere pronto ad immergerla nel petto del vecchio soldato se avesse chiesto soccorso. Tutti gli altri si erano messi dietro, camminando sulla punta dei piedi, onde non svegliare la guarnigione.

Percorsero tre o quattro corridoi, attraversarono una galleria scoperta, poi il comandante si arrestò dinanzi ad una porta massiccia che era chiusa da due robustissimi ganci di bronzo.

— Il prigioniero è qui — disse volgendosi verso il veterano. — Vi è un uomo con lui: se grida non tenetemi responsabile.

— Sarai pronto ad intimargli il silenzio — rispose l'amico d'Hiram. — I guerrieri sono abituati a obbedire ai loro capi.

Il vecchio staccò i ganci e spinse la porta.

I numidi ed i mercenari erano subito entrati nella stanza, tenendo alte le daghe e le asce, pronti a compiere una strage.

Su un letto bassissimo giaceva un uomo che pareva profondamente addormentato e sotto una lampadina che proiettava una luce scarsissima, disteso su un pezzo di stoffa, vi era un giovane guerriero che aveva pure gli occhi chiusi. Sidone si era subito precipitato verso il letto, mentre il veterano si era gettato sul giovane puntandogli la daga alla gola e dicendogli:

— Se parli sei morto: silenzio, se vuoi vivere.

Hiram sentendosi toccare alla fronte si era prontamente svegliato, chiedendo con voce debole:

— È giunto il momento di sacrificarmi a Baal-Molok?

— Non pare, padrone — rispose Sidone. — Ti eri dimenticato dunque di noi?

— Tu! Sidone! — esclamò il capitano alzandosi a sedere. — Sidone!

— Sì, il tuo fedele hortator.

— Ed i tuoi numidi?

— Sono con me e anche Fulvia.

— Fulvia! E Ophir?

— Sempre lei — mormorò la giovane etrusca.

S'avanzò verso il letto e gli chiese:

— Ti spiace rivedermi, Hiram?

— Ah! No, mio buon genio! — esclamò Hiram.

— E me? — chiese il veterano, facendosi a sua volta innanzi. — Non t'aspettavi di certo di rivedermi in simile momento.

— Thala!... Tu qui... mio caro amico, a cui devo già la vita... Spiegami...

— Non è questo il momento delle spiegazioni, bensì quello di andarcene — rispose il veterano. — I tuoi numidi ti porteranno.

— E Ophir? — chiese per la seconda volta il ferito, con ansietà.

— Ti basti sapere per ora che è viva e che non corre alcun pericolo — disse Sidone.

— Nelle mani di chi?

— Non posso dirti nulla per ora, padrone. Quando saremo in salvo ti diremo tutto. Pensiamo a filare prima che la guarnigione si svegli... Ah! Miserabili!

— Dove sono il comandante e l'uomo che vegliavano sul padrone? — chiese Thala.

Tutti si guardarono intorno con spavento. Sia l'uno che l'altro, approfittando della commozione che si era impadronita di tutti, nel rivedere Hiram, erano scomparsi.

Il veterano aveva mandato un grido di furore.

— Siamo perduti Sidone, prendi il capitano e seguitemi senza indugio. Forse giungeremo ancora in tempo per raggiungere il passaggio segreto. Lesti e mano alle armi.

Sidone avvolse Hiram in una coperta e aiutato da due dei suoi uomini lo sollevò portandolo nella galleria, dove già si erano radunati i mercenari per proteggere la ritirata insieme coi numidi.

Il veterano guidò il drappello attraverso un altro corridoio, che doveva condurli più rapidamente al passaggio segreto, ma quando si trovò dinanzi alla porta di bronzo della stanza del comandante, retrocesse spaventato, esclamando:

— L'hanno chiusa!

— Ciò vuol dire che siamo presi — disse Sidone, a denti stretti.

Hiram alzò il capo:

— Date anche a me una spada — disse. — È meglio morire combattendo, piuttosto di farci cucinare vivi nel ventre di Baal-Molok.

— Se provassimo a sfondare la porta? — chiese l'hortator.

— Perderemmo inutilmente il nostro tempo — rispose Thala. — Ci vorrebbe un ariete. Venite! Venderemo cara la nostra vita.

Tornarono rapidamente sui loro passi fermandosi dinanzi ad una stretta gradinata, che saliva rapidamente in forma di chiocciola.

— Dove ci conduci, signore? — domandò l'hortator.

— Sulla torre più alta della fortezza — rispose Thala. — Lassù ci difenderemo a lungo. Presto! Odo delle grida!

Clamori spaventevoli echeggiavano per gl'immensi corridoi della fortezza. La guarnigione, svegliata dal comandante e dall'infermiere, o meglio dal sorvegliante d'Hiram, accorreva furibonda per scacciare gl'invasori.

— I guerrieri sulle scale! — gridò Thala. — I numidi con me sul terrazzo della torre! Vi deve essere un deposito d'armi al secondo piano. Se vi sono degli archi e delle frecce prendetele.

Salirono frettolosamente la scala dopo aver chiusa la porta che era molto massiccia e robustissima e raggiunsero il piano superiore, formato da una stanza piuttosto ampia.

Thala, che non aveva abbandonata la lampada, gettò intorno un rapido sguardo. Non si era ingannato, le pareti erano coperte di scudi, di daghe, di asce, di coltellacci in forma di falci, di archi, di frecce e di cordami per le catapulte della fortezza.

— Armatevi, — disse, — e guadagniamo subito il terrazzo. I miei compagni penseranno a difendere la scala.