Capitan Tempesta/Capitolo XVIII - Storie di sangue
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Capitolo XVIII
Storie di sangue
Un panorama superbo s'offriva dinanzi agli occhi della duchessa, essendo quella torre la più alta del castello.
A ponente si estendeva il Mediterraneo, azzurro e terso come uno specchio, solcato qua e là da piccole macchie, che sembravano farfalloni; a mezzodì ed a settentrione le coste dirupate e pittoresche dell'isola, con minuscoli promontori e lunghe file di scogliere, con piccole baie e profonde spaccature, che rassomigliavano ai famosi fiordi della Norvegia; ad oriente invece la pianura cipriota tutta verdeggiante, limitata ad una grande distanza da alte catene di montagne che smarrivansi sul limpido orizzonte.
Su una di quelle piccole baie, la duchessa aveva subito scorta la gagliotta e lo sciabecco, ormeggiate a brevissima distanza l'una dall'altra.
Anche gli occhi d'Haradja si erano subito fissati sui due velieri.
— È quella la tua nave, effendi? — chiese alla duchessa, indicando la gagliotta.
— Sì, signora.
— Haradja, ti ho detto.
— Sì, Haradja.
— Come suona bene il mio nome sulle tue labbra! — disse la turca, passandosi una mano sulla fronte, come per nascondere una impercettibile ruga che l'aveva solcata.
Guardò la duchessa per qualche istante, poi riprese:
— Hai fretta di partire?
— Vorrei condurre presto al Leone di Damasco il visconte Le Hussière. Mustafà potrebbe irritarsi se io tardassi.
— Ah! Sì, è vero, tu sei venuto per quel cristiano, — disse la turca. — Quasi non me ne ricordavo più. E se glielo mandassi, scortato da Metiub? Mi sembra che sarebbe la medesima cosa.
— Tu sai, Haradja, che Mustafà vuole essere obbedito e se non conducessi io il visconte potrei attirarmi la sua collera e cadere in disgrazia.
— Tu non sei un povero capitano; sei un figlio d'un pascià.
— Mio padre mi ha ordinato di obbedire al gran vizir, il quale mi ha preso sotto la sua protezione.
Haradja si appoggiò al parapetto, coi gomiti puntati e la bella testa fra le mani e rimase a lungo silenziosa, cogli occhi fissi sull'immensa superficie del Mediterraneo. Anche la duchessa taceva, cercando d'indovinare il pensiero che tormentava quella strana donna.
Ad un tratto Haradja si scosse e si volse verso la duchessa con un impeto improvviso. Aveva gli occhi accesi e la fronte aggrottata.
— Avresti tu paura, Hamid, a misurarti col Leone di Damasco? — le chiese con accento selvaggio che tradiva un imminente scoppio di collera.
— Che cosa vorresti dire, Haradja? — chiese la duchessa stupita.
— Rispondi alla domanda, Hamid, — disse la turca. — Saresti capace di tener testa, in un duello, al Leone di Damasco?
— Spererei.
— È tuo amico intimo?
— Sì, Haradja.
— Che cosa importa? — disse la turca coi denti stretti. — Anche le più salde amicizie talvolta s'infrangono e non sarebbe la prima volta che due colleghi diventano, anche per un nonnulla o per una rivalità d'amore, due accaniti nemici.
— Non ti comprendo, Haradja, — disse la duchessa, impressionata dall'improvvisa esaltazione che aveva colta la turca.
— Mi capirai meglio questa sera, dopo cena, mio bel capitano. La liberazione di quel cristiano sta tutta lì e se Mustafà crederà di strappare a me i prigionieri fatti da mio zio, avrà da fare con me. Venga ad assalirmi qui, se l'osa! Il Pascià vale forse più del gran vizir e la flotta vale più dell'esercito. Si provi!
Haradja si era raddrizzata, colle braccia strette sul petto, gli occhi sfavillanti, fremente d'ira.
— Si provi! — ripeté con voce sibilante.
Poi, cambiando bruscamente tono e ritornando improvvisamente gaia e sorridente, riprese:
— Vieni, mio bel capitano. Riprenderemo questo discorso dopo la cena. Le mie tempeste sono eguali a quelle che imperversano sul Mediterraneo: brevi ma terribili, poi la bonaccia ritorna.
Facciamo il giro delle terrazze. Ti mostrerò in quale punto i marinai di mio zio hanno dato l'abbordaggio alla rocca.
Ogni traccia di collera era scomparsa sul viso della turca. I suoi occhi, altrettanto belli quanto quelli della duchessa, avevano perduta la loro cupa fiamma e la sua fronte si era rasserenata, come se un colpo di vento avesse scacciate lontane le nubi che l'oscuravano.
Diede un ultimo sguardo al mare, che scintillava sotto i raggi del sole volgente già al tramonto e scese la scaletta della torre, giungendo sulle terrazze che correvano intorno alle massicce muraglie del castello, difese da solide merlature, per la maggior parte mutilate ancora.
Numerose colubrine, quasi tutte veneziane, vi si trovavano colle nere gole volte, parte verso il mare e parte verso le pianure cipriote e lungo i parapetti si vedevano delle alte piramidi di palle di ferro e di pietra.
Haradja fece percorrere alla duchessa quasi tutte le terrazze, dalle quali si dominava pure un immenso tratto di paese e s'arrestò dinanzi ad una vecchia torre quadrata, che sembrava fosse stata spaccata in tutta la sua lunghezza da qualche gigantesca scure maneggiata da un titano.
— È da questa parte che i marinai del grande ammiraglio sono entrati nella rocca, — disse. — Io ero a bordo della galera di mio zio ed ho potuto seguire distintamente tutte le fasi di quel terribile combattimento.
— Ah! — fece la duchessa. — Vi eri anche tu, Haradja.
— La nipote del pascià non poteva già rimanersene inoperosa fra le mura d'un harem. Ero io che comandavo quella galera.
— Tu?
— Ti stupisci, effendi?
— Sai guidare dunque una nave?
— Come uno dei piloti del pascià, — rispose la turca. — Credi tu che io non abbia corseggiato il Mediterraneo? Ho catturato non poche navi cristiane e sono montata all'arrembaggio insieme ai miei marinai. Tu dunque ignori, effendi, che mio padre era un corsaro del Mar Rosso. Probabilmente ne avrai udito a parlare.
— Non so come si chiamasse.
— Ramaib.
— Mi pare.
— Che finì tragicamente.
— Non te lo saprei dire, Haradja.
— Ti racconterò tutto ciò questa sera. Fanno così gli arabi, è vero?
— Passano delle notti intere a udire i vecchi del paese, — rispose la duchessa.
Proseguirono la passeggiata intorno alle terrazze, salendo sulle torri, poi quando il sole scomparve sotto l'orizzonte, ridiscesero nella sala da pranzo che era stata illuminata con quattro bellissime lampade di cristallo, delle fabbriche di Murano, sostenenti un gran numero di candele.
La tavola era stata già preparata ed abbellita con grossi mazzi di fiori che tramandavano un profumo acuto ed inebriante.
Come al mattino nessuno era stato invitato. All'orgogliosa nipote del pascià non piaceva probabilmente concedere alcuna confidenza ai suoi capitani.
Come il pranzo, la cena fu sontuosissima e, cosa incredibile, innaffiata da vecchie bottiglie di vino di Cipro, nonostante il severo divieto del Profeta di far uso di liquidi fermentati.
— Se beve il Sultano, che è il capo dei credenti, posso assaggiare anch'io del vino, — aveva risposto la turca ad una osservazione fattale dalla duchessa, alla quale premeva mostrarsi un vero mussulmano per tema di tradirsi. — Il Profeta doveva essere di cattivo gusto per accontentarsi di latte di cammella diluito con acqua.
E si era messa a bere il dolcissimo vino, ridendosene allegramente di Maometto e della sua proibizione. Pareva però che in quella specie di liquore cercasse un eccitamento, poichè ogni volta che vedeva il fondo d'un bicchiere, tornava a versarne, incitando «il bel capitano» a fare altrettanto.
— Il Profeta non ha tempo di occuparsi di noi, — diceva, ridendo. — Bevi, Hamid: questo vino fa bene e mette un certo fuoco nelle vene che l'acqua non può spegnere. Vale l'hascis!
Quando però la cena fu terminata ed ebbe accesa, dopo il caffè, la sigaretta, Haradja era diventata improvvisamente seria. Pareva che una profonda preoccupazione tormentasse il suo animo.
Si era vivamente alzata, passeggiando nervosamente per la sala e soffermandosi di quando in quando dinanzi alle panoplie d'armi.
La duchessa ebbe per un momento il sospetto che meditasse qualche altro duello con qualche altro capitano del suo presidio, per distrarsi dalla pericolosa «noia turca» ma si rassicurò tosto quando la vide coricarsi su uno dei divani, facendole cenno di sederlesi accanto, su un lungo cuscino di seta posato sul tappeto e su cui stava un cofanetto d'argento pieno di dolciumi che dovevano contenere certamente dell'hascis.
— Mio padre, — disse — era un gran corsaro e fu l'ideale degli individui della sua specie, perchè nessuno mai poté rivaleggiare con lui sia in crudeltà, sia in generosità.
Ero allora una bambina, eppure, mi pare di vederlo ancora, uscire coi suoi vascelli, col viso fosco, la lunga barba svolazzante, e la cintura piena d'armi.
Aveva per me e per mio fratello un affetto profondo, ma guai se noi non l'avessimo obbedito. Sarebbe stato capace di ucciderci, come freddamente uccideva tutti i marinai che osavano resistergli.
Il Mar Rosso si poteva dire che era suo, perchè nemmeno le galere del Sultano, quelle di Solimano, avrebbero potuto contendergli la padronanza di quel vasto bacino rinchiuso fra l'Africa e l'Arabia.
Era un uomo terribile che faceva paura anche a me, quantunque tutte le volte che partiva per le sue crociere o ritornava, mi abbracciasse e mi baciasse. Si era formato un equipaggio che non temeva nè il Profeta, nè Allah, nè il diavolo e con quello devastava tutte le coste, da Suez allo stretto di Bab-el-Mandeb.
La sua crudeltà era leggendaria. Nessun marinaio, preso vivo, trovava grazia presso di lui e veniva gettato inesorabilmente in mare colle braccia e colle gambe legate, onde impedirgli di salvarsi a nuoto.
Mai parlava ai suoi uomini, nè loro permetteva la più lieve familiarità. Era però generoso e distribuiva a tutti imparzialmente la loro parte di bottino.
D'altronde il grande segreto del fascino che esercitava sui suoi marinai, consisteva innanzi tutto nel suo valore straordinario, che lo faceva sembrare un semidio del mare, poi in una eloquenza selvaggia che gli suggeriva, nei più tremendi e sanguinosi abbordaggi, delle frasi sonore ed energiche che inebriavano i suoi uomini più che non facesse l'acre odore della polvere.
Mio fratello, che era più anziano di me, lo accompagnava sovente nelle sue corse, e guai se nei momenti di maggior pericolo avesse dimostrata la più lieve esitazione! Mio padre non era uomo da perdonare nemmeno a chi aveva nelle vene il suo stesso sangue.
Un giorno mio fratello, che era appena uscito dall'adolescenza, dopo un furioso combattimento contro una galera portoghese, assai più grossa e meglio armata della sua, fu costretto a lasciare la preda e salvarsi in un porto dell'Arabia, per non far massacrare inutilmente i suoi uomini.
Quando comparve dinanzi a mio padre, cogli abiti a brandelli, la scimitarra insanguinata, ma senza ferite, invece di una parola d'incoraggiamento, si udì urlare sul viso:
"Cane! Vile! E tu osi tornare dinanzi a me senza una macchia di sangue sul petto! Gettate in mare questo miserabile."
Mio padre era inesorabile con tutti, e nonostante le mie lagrime, lo fece imbarcare su un sambuco e gettare in acqua ad una grande distanza dalla costa.
Fortunatamente coloro che erano stati incaricati di compiere quella triste missione, non osarono legare le gambe e le braccia a mio fratello, sicchè quel bravo giovane, che era un fortissimo nuotatore, poté ancora raggiungere la costa e salvarsi.
Passarono parecchi anni senza che mio fratello desse sue notizie; quando mio padre seppe che era vivo, lo fece tornare al suo castello e si riconciliò con lui. Poche settimane dopo Osman — così si chiamava il giovane — moriva da valoroso, sul ponte della sua nave, respingendo vittoriosamente il nemico.
— E tuo padre? — chiese la duchessa.
— Lo seguì alcuni mesi più tardi nella tomba, in un modo tragico.
Aveva assalito un villaggio dove sapeva trovarsi un greco ricchissimo, che possedeva innumerevoli mandrie di cammelli.
Mio padre aveva forzata la casa ed era entrato nella stanza dove il greco, in compagnia di sua moglie giovane e bellissima e di qualche servo, si difendeva disperatamente a colpi di archibugio e di jatagan.
Sicuro di vincerlo facilmente, non aveva preso con sè che pochi uomini, mentre gli altri si occupavano del bottino che era immenso.
Il greco infatti fu ucciso. Mio padre si gettò allora contro la donna colla scimitarra alzata, giacchè non risparmiava nessuno, ma vedendola tutta in lagrime e tocco forse anche dalla sua bellezza, aveva avuto un momento di esitazione.
Quell'istante doveva riuscirgli fatale, perchè la giovane, raccolta prontamente una pistola che aveva la miccia ancora accesa, gliela scaricò addosso a bruciapelo.
Cadde e non fu rialzato che morto. La palla gli aveva attraversato il cuore.
— E la donna fu risparmiata? — chiese la duchessa.
— Non lo so, — rispose Haradja.
Riaccese una sigaretta, vuotò un altro bicchiere di vino di Cipro, poi tornò a sdraiarsi sul divano, posando una mano sui bruni capelli del giovane capitano.
— Fui raccolta e adottata da mio zio, il pascià, che riempiva allora delle sue eroiche gesta il Mediterraneo, combattendo strenuamente contro i veneziani e i genovesi.
Fui dapprima relegata in un harem, essendo giovanissima, poi, vedendo mio zio che deperivo, m'imbarcò sulla nave ammiraglia. Aveva compreso che io ero una donna d'azione e m'insegnò a governare ed a dirigere le navi.
Si erano ridestati in me allora gli istinti di mio padre. Avevo nelle vene il sangue d'un pirata e quantunque donna, ne provavo tutti gli stimoli feroci. Divenni in breve il braccio destro di mio zio, seguendolo nelle sue crociere nel Mediterraneo e rivaleggiando con lui in audacia e, non lo nego, in crudeltà.
Fui io che un giorno, avendo abbordata una galera maltese, feci legare i superstiti alle àncore, affondandole in mare; fui io a sterminare quasi tutta la popolazione di Scio che si era ribellata al giogo mussulmano... Scio! Meglio sarebbe stato che io non avessi mai posati i piedi su quella terra!
Haradja si era violentemente alzata, col viso alterato da una collera intensa, cogli occhi scintillanti, le nari frementi.
Aspirò a lungo l'aria profumata della sala, tenendosi strette fra le mani le tempie, poi gettandosi indietro, con un moto violento, i lunghi capelli che le si erano sciolti e scagliando a terra il vezzo di perle che l'adornavano, riprese con voce sorda:
— Combattevo fra le truppe di terra che appoggiavano gli uomini della flotta. Non avevo mai veduto, prima di allora, un giovane più bello, più forte, più prode.
Pareva un dio della guerra! Dove maggiore era il pericolo la sua scimitarra ed il suo cimiero scintillavano e non vi erano nè colubrine, nè archibugi che lo arrestassero. Egli se ne rideva della morte e la sfidava sereno e tranquillo, come se il Profeta gli avesse dato qualche talismano meraviglioso per renderlo invulnerabile.
L'amai! L'amai intensamente ed egli non mi comprese o meglio non volle comprendermi. L'amore era una parola vuota per lui: non aveva sete che di gloria.
Eppure quante notti insonni, quante disperazioni, io provai per lui.
Non lo rividi che molto tempo dopo, sotto le mura di Famagosta. Le tempeste del Mediterraneo e la lontananza non avevano spento il fuoco che mi consumava il cuore.
Gli parlai: rimase impassibile; lo guardai intensamente negli occhi e non arrossì, non trasalì.
Eppure sa che io l'amo, o meglio sa che io l'amavo e non si curò, nè si cura di me. Sembra che io sia per lui una di quelle donne che non valgono la pena di guardarle. Io! Haradja, la nipote del grande ammiraglio! L'odio! L'odio! Ed ora voglio la sua vita!
Da quegli occhi fiammeggianti erano sgorgate due lagrime ardenti. La fiera nipote del pascià, la donna crudele e sanguinaria, piangeva.
La duchessa, stupita da quell'improvviso scoppio di disperazione, la guardava, senza riuscire a comprendere chi potesse essere quell'uomo che aveva colpito in mezzo al cuore, e così profondamente, quella donna che sembrava non avesse potuto amare nessun uomo.
— Haradja, — disse, un po' commossa dalla disperazione intensa che traspariva sul volto della turca. — Di chi vuoi parlare? Chi è quel grande guerriero che non ha compreso il tuo amore?
— Chi? Chi?... — gridò Haradja. — Tu lo ucciderai, è vero?
— Ma chi?
— Lui.
— Lui?... Non so chi sia.
Haradja s'avvicinò alla duchessa e, posandole le mani sulle spalle, le disse con accento selvaggio:
— Chi ha vinto Metiub, che è la prima lama della flotta del pascià, può vincere anche la più formidabile scimitarra dell'esercito mussulmano.
— Non riesco ancora a comprenderti, Haradja.
— Vuoi, effendi, il cristiano?
— Sì, perchè sono stato qui mandato per liberarlo e condurlo a Mustafà.
— Io te lo cedo, ma a te solo, a due condizioni.
— Quali? — chiese la duchessa.
— Che tu provochi, innanzi tutto, il Leone di Damasco e che tu lo uccida.
Un grido di sorpresa era sfuggito dalle labbra della duchessa.
— Io uccidere Muley-el-Kadel! — esclamò.
— Sì, lo voglio.
— Tu sai, Haradja, che è mio amico: te lo dissi già.
La turca alzò le spalle, poi con un sorriso sdegnoso chiese:
— Avresti paura, effendi?
— Hamid Eleonora non teme nessuna spada o scimitarra mussulmana. Mi hai veduto alla prova.
— Allora lo ucciderai, — disse la turca.
— Quale motivo potrò trovare per rompere la nostra vecchia amicizia e misurarmi con lui?
— Quale? Ad un uomo non possono mancare dei pretesti e tanto meno ad un guerriero, — disse Haradja, con un riso stridulo.
— Io devo della riconoscenza a Muley-el-Kadel.
— Di quale specie? Sono pronta a pagarla.
— Nessuna ricchezza lo potrebbe.
— Della riconoscenza, — disse Haradja, con accento beffardo. — Parola vuota, che mio padre non ammetteva. O la liberazione del cristiano e la morte, con un colpo di spada o di scimitarra, del Leone di Damasco o nulla: scegli, effendi, Haradja è implacabile.
— Mi hai detto che vi è un'altra condizione — disse la duchessa.
— Il tuo ritorno dopo aver consegnato il cristiano.
— Ci tieni, Haradja?
— Sì; ti accordo un minuto per rispondermi.
La duchessa era rimasta silenziosa. La turca, dopo d'aver vuotato un altro bicchiere di Cipro, era tornata a sdraiarsi sul divano tenendo gli sguardi fissi sul giovane capitano.
— Esiti? — chiese ad un tratto.
— No, — rispose risolutamente la duchessa.
— Lo ucciderai?
— Mi proverò, a meno che il Leone di Damasco non uccida invece me.
Una profonda ansietà pareva che si fosse impadronita della turca.
— Ma io non voglio che tu muoia! — gridò. — Vorresti spegnere anche tu il palpito che fa fremere il mio cuore? Siete dunque tutti leoni feroci voialtri uomini?
Se non vi fosse stato il pericolo di tradirsi e se non avesse avuto dinanzi una donna capace di qualunque atroce vendetta, la duchessa non avrebbe frenato uno scoppio di risa.
Era però troppo pericoloso scherzare colla nipote del pascià e si guardò bene dal manifestare il suo pensiero e di lasciar libero sfogo alla sua ilarità.
— Accetto le tue condizioni, — disse la duchessa, dopo aver meditato.
— Tornerai? — chiese Haradja con uno scatto impetuoso.
— Sì.
— Dopo d'aver però ucciso il Leone di Damasco, è vero?
— Lo ucciderò, se lo vuoi.
— Se lo voglio! Non vi è nulla di più bello, nè di apprezzato nella donna turca che la vendetta.
Un sorriso impercettibile fu la risposta della duchessa.
Haradja si era nuovamente alzata.
— Domani, — disse — il visconte cristiano sarà qui.
La duchessa ebbe un sussulto ed un rapido rossore le colorì le gote.
— Ho già mandato, poco fa, un messo agli stagni morti, affinchè il prigioniero sia qui inviato sotto buona scorta.
— Grazie, Haradja, — disse Eleonora, soffocando un sospiro.
— Va' a riposarti, effendi: è tardi ed io ho forse abusato troppo. Devi essere stanco dopo tante emozioni. Va', mio bel capitano: Haradja penserà, questa notte, a te.
Prese il martelletto d'argento e percosse il disco metallico.
Due schiavi subito entrarono.
— Conducete questo effendi nella stanza che gli ho destinata — disse la turca. — A domani, Hamid.
La duchessa baciò galantemente la mano che la turca le porgeva e uscì, preceduta dai due schiavi che tenevano in mano due torce.