Canti (1835)/Al conte Carlo Pepoli

XIX. Al conte Carlo Pepoli

../Alla sua donna ../Il risorgimento IncludiIntestazione 19 agosto 2021 75% Da definire

XIX. Al conte Carlo Pepoli
Alla sua donna Il risorgimento

[p. 84 modifica]


Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
5O gioconde o moleste opre dispensi
L’ozio che ti lasciar gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell’oprar, quel procurar che a degno
10Obbietto non intende, o che all’intento
Giunger mai non potria, ben si conviene
Ozioso nomar. La schiera industre
Cui franger glebe o curar piante e greggi
Vede l’alba tranquilla e vede il vespro,
15Se oziosa dirai, da che sua vita
È per campar la vita, e per se sola
La vita all’uom non ha pregio nessuno,
Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

[p. 85 modifica]

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne
20Sudar nelle officine, ozio le vegghie
Son de' guerrieri e il perigliar nell’armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:
Che non a se, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
25La natura mortal, veruno acquista
Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all’aspro desire onde i mortali
Giù sempre infin dal dì che il mondo nacque
D’esser beati sospiraro indarno,
30Di medicina in loco apparecchiate
Nella vita infelice avea natura
Necessità diverse, a cui non senza
Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
35All’umana famiglia; onde agitato
E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de’ bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Nè men vano che a noi, vive nel petto
40Desio d’esser beati; a quello intenta
Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Nè la lentezza accagionar dell’ore.
Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano
45Provveder commettiamo, una più grave

[p. 86 modifica]

Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
50Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l’umana prole. Or s’altri, a sdegno
I voti anni prendendo, e la superna
55Luce odiando, l’omicida mano,
I tardi fati a prevenir condotto,
In se stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
60Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde quell’una
Cui natura apprestò, mal si compensa.

     Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, e i vani studi
65Di cocchi e di cavalli, e le frequenti
Sale, e le piazze romorose, e gli orti,
Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto,
70Nell’imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede

[p. 87 modifica]

Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
75E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.

     Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
80L’età spendendo, e mari e poggi errando,
Tutto l’orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all’uom negl’infiniti
Campi del tutto la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside
85Sull’alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.

     Havvi chi le crudeli opre di marte
Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno
90Sangue la man tinge per ozio; ed havvi
Chi d’altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far se men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E chi virtute o sapienza ed arti
95Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l’estrane, o di remoti

[p. 88 modifica]

Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l’armi, e con le frodi,
La destinata sua vita consuma.

     100Te più mite desio, cura più dolce
Regge nel fior di gioventù, nel bello
April degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e muove
105Studio de’ carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel che più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce
110E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d’anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
115Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell’età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
120La favilla che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni

[p. 89 modifica]

Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
125Amai, che sempre infino all’ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, nè degli aprichi
Campì il sereno e solitario riso,
130Nè degli augelli mattutini il canto
Di primavera, nè per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d’arte,
135Fatta inanime e muta; ogni alto senso,
Ogni tenero affetto, ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch’io riponga
L’ingrato avanzo della ferrea vita,
140Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell’eterne cose; a che prodotta,
A che d’affanni e di miserie carca
L’umana stirpe; a quale ultimo intento
145Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d’ammirar son pago.

[p. 90 modifica]

     150In questo specolar gli ozi traendo
Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
155Non mi dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fia spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d’amor, Diva più cieca.