Ben Hur/Libro Quarto/Capitolo XV

Capitolo XV

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CAPITOLO XV.


Il sole tramontava dietro le montagne che proiettavano le loro ombre gigantesche sopra l’Orto delle Palme, e al brevissimo crepuscolo successe rapidamente l’oscurità della morte. I domestici portarono nella tenda quattro candelieri di bronzo e li posero sul tavolo, uno per ciascun angolo. Ogni candeliere aveva quattro braccia, e da ciascun braccio scendeva una piccola lampada d’argento. La luce brillante illuminava il gruppo che continuò la conversazione iniziata parlando in dialetto siriaco, famigliare alle popolazioni d’Oriente.

L’Egiziano raccontò la storia dell’incontro dei tre nel deserto, e convenne con lo sceicco che fu in dicembre, ventisette anni fa, quand’egli e i suoi compagni, fuggendo da Erode, chiesero ospitalità alla sua tenda. Il racconto fu ascoltato con intenso interessamento; gli stessi domestici, indugiavano più che potevano per afferrare ogni dettaglio. Ben Hur lo accolse come si conveniva ad un uomo che udiva una rivelazione di grande importanza per tutta l’umanità e specialmente pel popolo d’Israele. Nella sua mente, come vedremo, andava formandosi un’idea che doveva mutare tutta la corrente della sua vita, ed assorbire tutte quante le sue forze.

Le parole di Balthasar fecero una profonda impressione nel giovine Ebreo, il quale non dubitò per un istante della verità di quanto aveva udito.

Per lo sceicco Ilderim la storia non era nuova. L’aveva udita raccontare dai tre sapienti in circostanze che non [p. 249 modifica]permettevano il dubbio. Vi aveva creduto ed aveva scampato i fuggiaschi dall’ira d’Erode. Oggi uno dei tre sedeva nuovamente, ospite riverito, al suo desco, e le sue labbra ripetevano la medesima narrazione. Ma nella mente di Ilderim quei fatti non avevano l’importanza con cui apparivano a Ben Hur. Egli era un Arabo, e l’interessamento suo non poteva che essere d’ordine generale; Ben Hur invece era Ebreo.

Fin dalla culla egli aveva inteso parlare del Messia; gli studi nel Collegio lo avevano reso famigliare con tutto ciò che riguardava l’Essere, che formava insieme la speranza, il timore e la gloria speciale del popolo eletto; i profeti lo avevano annunziato; e il suo avvento formava il tema di interminabili disquisizioni da parte dei Rabbi; nelle sinagoghe, nelle scuole, nel Tempio, nei giorni di festa e di digiuno, in pubblico ed in privato, i dottori lo predicavano, finchè tutti i figli d’Abramo, qualunque fosse la loro condizione, vivevano in aspettazione del Messia, e spesso con ferrea severità disciplinavano la loro vita in conformità a quell’evento.

Certamente v’erano molti dubbi ed incertezze e grandi controversie fra gli Ebrei medesimi circa il Messia, ma le controversie vertevano sopra un solo punto: quando sarebbe venuto?

Unanime poi era la persuasione fra il popolo eletto, che, qualunque fosse l’ora della sua venuta, egli sarebbe stato il Re degli Ebrei, il loro Re politico, il loro Cesare. Egli avrebbe guidate le loro armi alla conquista della terra, e pel bene loro e in nome di Dio, vi avrebbe dominato in eterno. Su questa credenza, i Farisei o Separatisti — questa parola aveva un senso più politico che religioso — fantasticavano negli anditi e intorno agli altari del Tempio, e vi avevano costruito sopra un edificio di speranze più colossali dei sogni del Macedone. Quelli non abbracciavano che la terra; il loro edificio copriva la terra e toccava coi suoi pinnacoli il cielo. Nella audace, sfrenata fantasia di quell’empio egoismo. Iddio onnipotente doveva essere un semplice strumento per l’espandersi vittorioso del nome Giudeo.

Ritornando a Ben Hur, dobbiamo osservare che due circostanze della sua vita lo avevano tenuto relativamente immune dagli effetti di questa audace religione predicata dai suoi compaesani Separatisti.

In primo luogo suo padre apparteneva alla setta dei [p. 250 modifica]Sadducei, che si potrebbero chiamare i Liberali del loro tempo. Essi rispettavano rigorosamente i libri della legge tramandati da Mosè, ma tenevano in alto disprezzo le aggiunte e i commenti della scienza Rabbinica. Quantunque formassero una setta, la loro religione era più una dottrina filosofica che non una fede; non fuggivano i piaceri della vita e sapevano ammirare le bellezze artistiche e letterarie delle razze pagane. In politica erano gli avversari più tenaci dei Separatisti.

Questi principi paterni erano discesi nel figlio, quantunque la catastrofe che lo aveva raggiunto in giovine età, avesse impedito la loro consolidazione. Ma qui si fece sentire la seconda delle influenze a cui abbiamo fatto allusione.

Cinque anni di soggiorno in Roma avevano lasciato una profonda impressione nell’animo di Ben Hur. Roma era allora all’apogeo della sua gloria se non della sua potenza, il ritrovo politico e commerciale di tutte le nazioni. Intorno all’aurea pietra miliare del Foro — oggi così deserto — si incontravano tutte le correnti dell’attività umana. Le raffinatezze sociali, le opere dell’ingegno, la gloria delle imprese militari e civili non avrebbero potuto lasciare indifferente il figlio di Arrio, che, dalla sua magnifica villa di Miseno, passava nel palazzo di Cesare, in mezzo alla folla di Re, principi, ambasciatori, ostaggi, delegati, clienti, convenuti da ogni parte del mondo, ed aspettanti ansiosi la risposta di un uomo. Certo, le feste di Pasqua raccoglievano a Gerusalemme assemblee non meno splendide e non meno numerose; ma quando egli sedeva sotto il purpureo velario del Circo Massimo, uno dei trecentocinquantamila spettatori, era impossibile che non gli balenasse il pensiero che, forse, nella grande famiglia umana esistevano dei rami non meno degni, per le loro sofferenze e per la loro pazienza nel sopportarle, d’esser fatti segno della pietà divina e di dividere col piccolo popolo d’Israele la gloria promessa.

Ma se questo pensiero gli era venuto, egli non poteva certo dimenticare un’importante considerazione. La miseria delle masse, l’abbiettezza del loro stato, non avevano alcuna relazione con la religione; i loro lamenti non derivavano certo da mancanza di Dei. Nei querceti della Britannia predicavano i Druidi; Odino e Freia tenevano inconcusso dominio nelle Gallie e in Germania; l’Egitto si accontentava dei suoi coccodrilli e dei suoi gatti; i Persiani erano devoti ad Ormuzd e Arimane, tenendoli in pari onore; la [p. 251 modifica]speranza del Nirvana sorreggeva ancora l’Indiano sopra l’arido cammino di Brama; la bellissima anima Greca quando non disputava di filosofia, cantava gli Dei e gli eroi d’Omero; mentre, in Roma, nulla era più comune o a miglior mercato degli Dei. Secondo il capriccio del momento questi padroni del mondo portavano la loro adorazione e i loro sacrifici ora a questo ora a quell’altare, rallegrandosi e deridendo il caos che avevano creato. Dopo aver usurpate tutte le divinità del mondo, deificavano i loro Cesari, davan loro altari e sacerdoti. No, la infelicità dei tempi non era cagionata dalla religione, ma dal mal governo, dalle infinite angherie e delle usurpazioni dei tiranni. Il baratro acheronteo in cui gli uomini erano caduti e da cui imploravano un uomo liberatore, derivava da cause politiche soltanto. La preghiera, uguale dappertutto, a Londra, ad Alessandria, ad Atene, a Gerusalemme, era per un Re liberatore e vittorioso, non per un Dio da adorarsi.

Studiando quell’epoca dopo il lasso di duemil’anni, noi vediamo e riconosciamo che, solo sul terreno religioso, solo per l’avvento del vero Dio potevano diradarsi le tenebre e la confusione di quell’età; ma gli uomini d’allora, anche le menti più acute e serene, non scorgevano altra salvezza fuorchè nella rovina, nell’umiliazione di Roma; con la caduta del tiranno tutto sarebbe mutato; da ciò le preghiere, le congiure, le rivolte, i sacrifici, le morti, le lacrime ed il sangue invano prodigati.

Ben Hur conveniva perfettamente con l’opinione prevalente fra i suoi contemporanei non Romani.

I cinque anni trascorsi nella metropoli gli avevano offerto modo di studiare da vicino le sventure degli oppressi, e lo avevano persuaso che i mali che affliggevano il mondo erano essenzialmente d’ordine politico e potevano essere guariti soltanto con la spada. Con questo intento, per potere un giorno applicare al mondo questo rimedio eroico, era venuto in Oriente.

Nelle palestre di Roma s’era reso famigliare con l’uso delle armi; ma l’arte della guerra ha bisogno di altre scuole, dove l’intelligenza si acuisce e si addestra non meno del corpo.

Il compito del duce, il più arduo di tutti, non poteva essere studiato che sui campi di battaglia.

Questo disegno inoltre abbracciava anche i minori propositi di vendetta ch’egli covava.

Egli pensava, e non senza ragione, che i suoi torti [p. 252 modifica]individuali sarebbero più sicuramente vendicati in guerra che in pace.

I sentimenti coi quali ascoltò la narrazione di Balthasar potranno ora essere facilmente intesi.

Il racconto toccava i tasti più sensibili dell’animo suo. Il suo cuore palpitò; una gioia profonda, quasi feroce lo prese pensando che quel fanciullo così meravigliosamente trovato era il Messia.

Pieno di stupore che Israele fosse restato così indifferente davanti alla rivelazione di un tanto evento e ch’egli medesimo non ne avesse udito parlare prima d’allora, due domande gli si presentarono, nelle quali si concentrava per il momento tutta l’importanza del fatto:

Dove era il fanciullo?

Qual’era la sua missione?

Ben Hur si rivolse a Balthasar.