Belisario/Nota storica
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NOTA STORICA
Chi ha letto le memorie italiane del Goldoni che si trovano nel primo volume della presente edizione, conosce per bocca dell’autore l’origine e le vicende di questa giovanile tragedia (pp. 81, 82, 86,94, 104-5): l’impegno a Milano col Casali, la lettura fattane a Verona ai principali attori della compagnia Imer, la recita a Venezia sul teatro di S. Samuele e l’esito “strepitoso”. Era l’anno 1734: Goldoni aveva 27 anni. Fu questo il suo primo trionfo drammatico, che forse lo legò indissolubilmente al teatro. La notte del 24 novembre il giovine Dottore fu lusingato e tormentato dai sogni della fama e della fortuna, “e fu quella la sola notte” confessava sinceramente, “che senza malattia di corpo non mi fu possibile di prender sonno”.
Il segretario del residente Bartolini non aveva nemmeno avuto la pretesa di scrivere una tragedia, si accontentava di fare una prova, di mettere insieme un’azione scenica da cui fossero sbandite le buffonerie e le assurdità che lo avevano “stomacato” nell’assistere alla recita popolare d’un Belisario sconciato dai comici dell’arte (v. anche R. Bonfanti, La donna di garbo di C. G., Noto, 1899, pag. 39). Gli bastava sollevarsi almeno alla tragicommedia. Ma gli mancò la tranquillità necessaria: ne verseggiò una parte a Milano e una parte a Crema, fra le agitazioni della guerra e un romanzetto d’amore. (Il Meneghezzi in certo suo racconto storico, additatomi da Edgardo Maddalena, Goldoni a Crema, in Gazzetta della prov. di Lodi e di Crema, 7 Sett. 1855, scrisse a questo proposito: “...Così Crema può vantarsi che in essa si principiò, per così dire, la carriera di uno scrittore che venne ben presto il vanto migliore che s’abbia sin qui la musa comica italiana”). Più tardi, nelle Memorie che da vecchio stampò in Francia, aggiunse qualche particolare poco credibile: egli abbozzò in fatti il proprio Belisario sul copione che gli diede il Casali e sulle tradizioni della poesia popolareggiante, non già “sulle orme della storia”. Nè all’Italia, dopo il Trissino, facevano difetto i Belisari: uno, per es., di Scip. Francucci aretino, uscì nel 1622 (Bertana, La tragedia, Milano, 1906, p. 145. Nel 1635 Angelita Scaramuccia stampava un poema, Il Bellisario: v. E. Proto, Un epigono poco noto della “Gerusalemme Liberata", in Studi di lett. italiana, vol. VIII, Napoli, 1908); ma nel Belisario goldoniano si scopre facilmente il sapore spagnolo. Una storia comparativa del teatro del Cinquecento e del Seicento manca pur troppo: manca perfino la storia del teatro spagnolo, manca la storia del teatro italiano del Seicento. Tuttavia fu già provata la fedele derivazione del Belisaire (1643) di Rotrou dall’Esempio maggiore della sfortuna e il capitano Belisario, già attribuito a Lope de Vega e a Montaivan, e di recente trovato fra i manoscritti di Mira di Amescua (o di Mescua: luglio 1625; v. E. Martinenche, La Comedia Espagnole en France, Paris, 1900, pp. 315 e sgg., 323 e sgg.). Può darsi che questa fosse anche la fonte di Des Fontaines, di La Calprenède e di due altri Belisari, di autore ignoto, che si ricordano in Francia nel secolo di Corneille: certo fu la fonte della Caduta del gran Capitano Belisario sotto la Condotta di Giustiniano Imperatore, “tragedia” stampata nel 1661 a Bologna e assegnata comunemente a Giacinto Andrea Cicognini che mori l’anno precedente; ma da qualcuno a Francesco Stromboli veneziano (L. Grashey, G. A. Cicogninis Leben und Werke, Kirchhain N.-L., 1908, pp. 23 e 31). Dal Cicognini si cavò lo scenario di cui abbiamo un esemplare nello Zibaldone del conte Annibale Sersale (donato dal Croce alla maggior biblioteca di Napoli), al num. 11 del vol. II. I personaggi principali nella comedia spagnola, nella tragedia di Rotrou, in quelle del Cicognini e del Goldoni, e nello scenario italiano sono sempre gli stessi, ed anche la favola ha sofferto lievissime modificazioni (sullo scenario v. un cenno in Bonfanti, 1. c., p. 35, n. 2: che il Goldoni risalisse direttamente al dramma di Mira di Mescua, come afferma Lebermann in una tesi che il Maddalena mi ricorda, Belisar in der Litteratur der romanischen und germanischen Nationen, Nurnberg, 1899, non è da credere affatto) ma il poetino veneziano ha levato via il Dottore di Corte e le maschere dei servi che deturpavano lo scenario, non ha permesso nemmeno a Passarino, il “servo sciocco” di Cicognini, di mostrarsi fra le quinte, ha severamente soppresso ogni scherzo che sembrasse profanare la nobiltà dell’azione, ha voluto, senza parere, con la sua aria modesta, acconciarsi ai classici precetti dell’arte poetica, rispettando perfino le unità di tempo e di luogo, per avvicinarsi ai signori letterati, dei quali agognava in segreto l’approvazione.
Tre eremo in quel tempo i maggiori rappresentanti della letteratura e della poesia nella Repubblica di S. Marco, Scipione Maffei a Verona, l’autore della Merope (recitata nel 1713), Antonio Conti a Padova, l’autore del Giulio Cesare (stamp. 1726), e Apostolo Zeno a Venezia, il riformatore del melodramma (Lucio Vero, 1700). Quest’ultimo era più noto allora al Goldoni, che nel rimaneggiare e verseggiare il Belisario con l’innato suo buon senso si lasciò guidare da quelli stessi concetti che avevano condotto lo Zeno a liberare il dramma musicale dalle gonfiezze dello stile, dall’arruffio degli intrecci e dalle buffonerie triviali del Seicento (vedi, sebbene non tanto esatta, Olga Marchini-Capasso, Goldoni e la commedia dell’arte, Napoli 1912, pp. 168-9). Non potè tuttavia impedire che nella recita il Vitalba, sostenendo il personaggio di Belisario, quando nell’ultimo atto esce sulla scena cieco e misero come Edipo “moralizzando sulle vicende umane”, lasciasse l’occasione di dare “un colpo di bastone a una guardia per far ridere l’uditorio” (Memorie cit., voli. I di questa ediz., p. 99). Comunque, è importante la data del Belisario, perchè segna il primo vero trionfo in Italia di un’opera scritta, senza maschere e senza musica, su teatro pubblico, dopo la famosa Merope del Maffei (G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Ven. 1907, p. 25).
Fra i pochissimi che degnarono d’uno sguardo il Belisario, il giovine Luigi Carrer lo chiamò un miserabile dramma giudicandolo “pieno di inezie, senza stile, senza evidenza, senza caratteri, di cui tutto il merito si riduce ad un accozzamento forzato di situazioni teatrali le più comunali” ( Vita di C. G., Ven. 1824, I, 59). Accettiamo pure tale condanna, tanto più che il Goldoni stesso, dopo aver scritto i Rusteghi e altri capolavori, non sapeva indursi a stampare il Belisario nella raccolta del suo teatro (Memorie cit., I, 105); ma vediamo almeno le ragioni del clamoroso successo. Cominciamo pure da una giusta lode che spetta agli interpreti della compagnia Imer. Quel Gaetano Casali dovette porre ogni impegno nel rappresentare il personaggio di Giustiniano, che molto si adattava a un attore “di bella statura e di buona voce” (1. c., 99) e fin dai primi versi dovette guadagnarsi l’attenzione del pubblico (“Popoli di Bisanzio, il nostro eroe ecc.”): attore ottimo “nelle parti gravi”, ossia tragiche, celebrato da Francesco Griselini, da Carlo Gozzi, da Francesco Bartoli, che non solo si fece applaudire nel Catone del Metastasio, ma più tardi perfino nell’Oreste del Rucelìai e nell’Ulisse dei Lazzarini (v. Memorie di G. Zanetti, 1742-43, in Archivio Ven., t. XXIX, 1885) e nel Giunio e nel Marco Bruto del vecchio abate Conti, a cui parve degno di quelle lodi che Cicerone fa a Roscio (Le quattro trag. composte dal Sig. Ab. A. Conti, Firenze, 1751, p. 150). Anche Adriana Bastona “sostenea a maraviglia” il “carattere odioso” dell’imperatrice Teodora; e Cecilia Rutti “faceva piangere nella parte tenera ed interessante di Antonia”; e il Vitalba, “malgrado qualche licenza comica”, era pur sempre un eccellente artista, carissimo al pubblico.
Popolare l’azione di questo dramma che potrebbe meglio intitolarsi, come allora usava, l’Innocenza perseguitata, oppure la Virtù sfortunata del gran Capitano: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, dall’una la gara della genenerosità e della virtù (Giustiniano e Belisario), dall’altra quella della malvagità e della perfidia (Teodora e Filippo): così apparisce al volgo il gioco tragico della vita. In luogo della storia, si è introdotta nel Belisario la solita favola di Fedra, la favola della seconda moglie di Diocleziano o dei Sette savi, nota al romanzo del Cinquecento (I compassionevoli avvenimenti di Erasto. Ricordisi ancora il Crispo, 1662, trag. di G. Fr. Savero) e al teatro popolare (Mario Penna, Il noviziato di C. G., Torino, 1925, pp. 20-21). Quella specie di sentimento dell’onore offeso che restava nella Teodora di Mira di Amescua e di Rotrou qui sparisce, ed è tolta ogni grandezza al carattere dell’imperatrice bizantina: nè qui la donna si sente ardere dalla libidine, come la fatale figlia di Pasifae, ma si sfoga in accenti melodrammatici. Il ricordo del melodramma si avverte di continuo, specialmente nelle scene d’amore di Belisario e Antonia, e contribuì all’incontro felice (“Per combattere il mostruoso ed il gonfio della commedia dell’arte, egli si attacca dunque all’arcadica tragedia dello Zeno e del Metastasio”: Bonfanti, l. c., p. 40).
L’unità di luogo costringe Belisario a dormire nella sala del palazzo imperiale, come Egisto nella tragedia del Maffei, dove corre pericolo di esser ucciso nel sonno dal ferro di Teodora, come il principe greco dalla scure di Merope; niente però sembra più ridicolo a un lettore moderno di quel ritratto che l’Imperatore pone sotto il capo del sopito eroe e che è cagione, insieme con la nota lettera, del terribile errore di Giustiniano. Ma l’umile pubblico che riempiva il teatro di S. Samuele non badava a tali inverosimiglianze e ingenuità: soddisfatto di poter capire quei versi che l’autore stesso dice “più famigliari che sostenuti”, di non trovarvi astruserie, nè mitologie, nè voli sublimi, trascinato da qualche squarcio eloquente, sorpreso da certi abili artificii teatrali, ch’erano già nel primitivo modello spagnolo, si lasciò commuovere dal carattere virtuoso di Belisario e ancora più da quello odioso di Teodora, a segno che molte volte “i gondolieri ch’erano nel parterre, la caricavan d’ingiurie” come racconta sorridendo il Goldoni. (La signora Marchini-Capasso, I. c., pp. 51-52, la quale scoperse nell’intreccio del Belisario “l’impronta del lavoratore geniale”, e non avvertì stravaganze e puerilità, ammira la carità che emana dalla conclusione dalla favola, “il perdonare tutto ad ogni costo, anche ai nostri nemici”).
Un intelligente scrittore americano, H. C. Chatfield-Taylor, si domandò di recente come mai un artista così fedele al vero, come il Goldoni, potesse scrivere un’opera tanto falsa (“Non immagini che abbelliscano i suoi noiosi versi; non filosofia, non verità”: Goldoni - A biography, New York, 1913, p. 135). Ma l’avvocativo veneziano vedeva nel 1734 i personaggi della storia quasi con l’occhio stesso dei suoi gondolieri. Giustamente anche il Bonfanti osserva: “In lui già si mostra l’incapacità di alzarsi sul reale, la tendenza al presente e al sensibile. Non ha dottrina per risalire al passato, non ha fantasia per rendere nella loro idealità i personaggi della tragedia” (l. c., pag. 40. Anche a Mario Penna “i caratteri del Belisario” sembrano “assurdi, non solo per le molte incongruenze che tradiscono la mano dell’autore ancora inesperto, ma altresì per l’ingenuo eccesso di certi aspetti loro”: l. c., pag. 25). A ogni artista la sua parte. Il mondo è troppo grande perchè un artista possa abbracciarne più di un minuscolo frammento.
Del resto il Belisario, benchè applaudito anche a Padova e a Udine nella primavera e nell’estate del ’35, e poi di nuovo nell’autunno a Venezia (vol. I, pp. 112, 113, 116), sparì ben presto dal teatro, nè più vi fece ritorno (parrebbe, dai Mémoires, P. 1, ch. XLVI, che per qualcuno nel 1743 il Goldoni fosse ancora “l’auteur de Bélisaire”). Forse le avventure toccate al noioso romanzo di Marmontel (Bélisaire: v. Grimm, Correspondance, anno 1767), che qualcuno paragonò alle ventisei disgrazie d’Arlecchino, spinsero nel 1769 prima il Moissy e poi il D’Uzincourt a stendere l’uno una commedia eroica in versi e l’altro un dramma dello stesso titolo, ma per fortuna non furono mai rappresentati (oltre Grimm cit., vedi Gaiffe, Le drame en France au XVIII siècle, Paris, 1910, p. 173 e indice). Nel 1836 Tommaseo Locatelli nelle appendici della Gazzetta di Venezia (5 febbr.) lodava il Belisario di Salvatore Cammerano (musicato da Donizetti), ma l’autore nulla doveva al Goldoni.
Una cattiva copia, divenuta presto introvabile, si stampò a Bologna nel 1738, alla macchia, non senza sdegno dell’autore (v. lett. ad Ant. Bettinelli che precede alla Donna di garbo nel 1.° t. dell’ed. venez. 1750 e le cit. memorie nel vol I. della presente ed., p. 105). L’esemplare che noi leggiamo uscì soltanto nel 1793, l’anno in cui morì Goldoni, nel tomo 32 della grande edizione Zatta.
G. O.