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stampare il Belisario nella raccolta del suo teatro (Memorie cit., I, 105); ma vediamo almeno le ragioni del clamoroso successo. Cominciamo pure da una giusta lode che spetta agli interpreti della compagnia Imer. Quel Gaetano Casali dovette porre ogni impegno nel rappresentare il personaggio di Giustiniano, che molto si adattava a un attore “di bella statura e di buona voce” (1. c., 99) e fin dai primi versi dovette guadagnarsi l’attenzione del pubblico (“Popoli di Bisanzio, il nostro eroe ecc.”): attore ottimo “nelle parti gravi”, ossia tragiche, celebrato da Francesco Griselini, da Carlo Gozzi, da Francesco Bartoli, che non solo si fece applaudire nel Catone del Metastasio, ma più tardi perfino nell’Oreste del Rucelìai e nell’Ulisse dei Lazzarini (v. Memorie di G. Zanetti, 1742-43, in Archivio Ven., t. XXIX, 1885) e nel Giunio e nel Marco Bruto del vecchio abate Conti, a cui parve degno di quelle lodi che Cicerone fa a Roscio (Le quattro trag. composte dal Sig. Ab. A. Conti, Firenze, 1751, p. 150). Anche Adriana Bastona “sostenea a maraviglia” il “carattere odioso” dell’imperatrice Teodora; e Cecilia Rutti “faceva piangere nella parte tenera ed interessante di Antonia”; e il Vitalba, “malgrado qualche licenza comica”, era pur sempre un eccellente artista, carissimo al pubblico.
Popolare l’azione di questo dramma che potrebbe meglio intitolarsi, come allora usava, l’Innocenza perseguitata, oppure la Virtù sfortunata del gran Capitano: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, dall’una la gara della genenerosità e della virtù (Giustiniano e Belisario), dall’altra quella della malvagità e della perfidia (Teodora e Filippo): così apparisce al volgo il gioco tragico della vita. In luogo della storia, si è introdotta nel Belisario la solita favola di Fedra, la favola della seconda moglie di Diocleziano o dei Sette savi, nota al romanzo del Cinquecento (I compassionevoli avvenimenti di Erasto. Ricordisi ancora il Crispo, 1662, trag. di G. Fr. Savero) e al teatro popolare (Mario Penna, Il noviziato di C. G., Torino, 1925, pp. 20-21). Quella specie di sentimento dell’onore offeso che restava nella Teodora di Mira di Amescua e di Rotrou qui sparisce, ed è tolta ogni grandezza al carattere dell’imperatrice bizantina: nè qui la donna si sente ardere dalla libidine, come la fatale figlia di Pasifae, ma si sfoga in accenti melodrammatici. Il ricordo del melodramma si avverte di continuo, specialmente nelle scene d’amore di Belisario e Antonia, e contribuì all’incontro felice (“Per combattere il mostruoso ed il gonfio della commedia dell’arte, egli si attacca dunque all’arcadica tragedia dello Zeno e del Metastasio”: Bonfanti, l. c., p. 40).
L’unità di luogo costringe Belisario a dormire nella sala del palazzo imperiale, come Egisto nella tragedia del Maffei, dove corre pericolo di esser ucciso nel sonno dal ferro di Teodora, come il principe greco dalla scure di Merope; niente però sembra più ridicolo a un lettore moderno di quel ritratto che l’Imperatore pone sotto il capo del sopito eroe e che è cagione, insieme con la nota lettera, del terribile errore di Giustiniano. Ma l’umile pubblico che riempiva il teatro di S. Samuele non badava a tali inverosimiglianze e ingenuità: soddisfatto di poter capire quei versi che l’autore stesso dice “più famigliari che sostenuti”, di non trovarvi astruserie, nè mitologie, nè voli sublimi, trascinato da qualche squarcio eloquente, sorpreso da certi abili artificii teatrali, ch’erano già nel primitivo modello spagnolo, si lasciò commuovere dal carattere virtuoso di Belisario e ancora più da quello odioso di Teodora, a segno che molte volte