Avventure straordinarie di un marinaio in Africa/13. Il re degli antropofaghi
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13.
IL RE DEGLI ANTROPOFAGHI
L'indomani Giovanni e Korosko passavano in rivista i due eserciti. Il momento di mettersi in campagna era giunto; le bande erano state divise in battaglioni ed in compagnie ed anche discretamente disciplinate ed istruite e richiedevano di venire condotte contro gli antropofaghi, certi di vincere quelle orde selvagge. Ormai avevano tanta confidenza nel giovane bianco, da non dubitare più di nulla e poi non era egli il protetto dei feticci!... Se lo aveva detto il capo degli stregoni bisognava crederci.
Quando Finfin e Korosko, montati sul gigantesco elefante, ebbero attraversato il campo, destando ovunque il più fragoroso entusiasmo, fra loro due ebbe luogo un ultimo colloquio, al quale era stato invitato ad assistere anche il capo degli stregoni.
— Io affido a te il mio esercito — gli disse il monarca — ma tu devi farmi delle promesse e bada che se non le manterrai io ti farò senz'altro tagliare la testa.
— Vanno sempre per le spicce questi monarchi dal muso nero — pensò Finfin. — Non parlan d'altro che di tagliare teste.
Poi aggiunse a voce alta:
— Il tuo generalissimo ti ascolta.
— Innanzi tutto tu devi guidare i miei uomini alla vittoria.
— Sì, purché i tuoi uomini combattano da valorosi — disse Finfin. — Spero che non fuggiranno dinanzi agli antropofaghi per paura di venire mangiati.
— Se fuggiranno farai tagliare loro la testa.
— Diavolo!... Se dovessi decapitare tutti resterei solo contro le bande dei payli.
— Ciò riguarda te — disse il re con tono reciso. — Tu devi vincere o avrai da fare con me e coi miei capi.
— Allora vincerò, te lo prometto — disse Finfin ridendo. — Credo di aver trovato un mezzo per costringere i tuoi uomini a combattere da disperati. E poi, cosa desideri?
— Le casse del mio regno sono esauste mentre quelle di Payli so che sono ben provviste. Prenderai le sue ricchezze e me le porterai.
— Ma questa è una guerra da ladri!...
— Io non so che cosa tu voglia dire, ma ti dico: od i tesori di Payli o la tua testa verrà tagliata appena sarai tornato.
— Povera testa!... Dovrò perderla adunque in tutti i modi? E poi hai qualche piccolo favore da chiedermi ancora?
— Mi porterai mia figlia viva.
— E se il re degli antropofaghi l'avesse mangiata? — chiese Finfin.
Il monarca dinanzi a quel sospetto allibì, poi si grattò furiosamente la testa, non trovando risposta. Probabilmente trovava che nemmeno la testa del suo generalissimo gli avrebbe restituita la principessa.
— Orsù, rispondi — insistette Finfìn.
— Allora mi porterai qualche figlia del re.
— E se non ne avesse?
— Non importa, qualche principessa la troverai di certo.
— Hai finito?
— No, voglio la testa di Payli. Egli ha decapitato il re d'Imbiki; è giusto quindi che io abbia la sua.
— Io ti porterò il re, se potrò averlo in mia mano, ma io non permetterò mai che venga ucciso. Lo terrai prigioniero, ecco tutto.
— È impossibile.
— Allora rinuncio al grado di generalissimo e riprendo il mio viaggio.
Korosko cercò d'insistere, ma comprendendo che correva il pericolo di perdere il suo generalissimo, la figlia, il tesoro di Payli ed anche il suo feroce avversario, finì per cedere.
Il giovane bretone salutò il re, gli promise di tornare vincitore, poi salito sul suo elefante con Pompeo, diede il segnale di levare il campo e di mettersi in marcia pel paese degli antropofaghi.
Prima però di lasciare il campo, aveva fatto chiamare i capi e li aveva avvertiti che il primo che avesse voltato le spalle al nemico, lo avrebbe fatto schiacciare dall'elefante.
Quella minaccia doveva ottenere un grande successo, avendo quei negri un superstizioso terrore per quel gigantesco animale amico dell'uomo bianco.
Alle sei del mattino, i due eserciti si ponevano definitivamente in cammino onde recarsi a devastare il regno di Payli e liberare la principessa.
Il regno di Payli si trovava a dieci giornate di marcia da quello di Korosko. La residenza del monarca che si chiamava Sama-Kika era situata nel centro del regno; era quindi necessario attraversare buona parte del territorio nemico prima di giungervi. Anche l'accesso a quel regno era assai difficile, essendo percorso da montagne ripidissime e coperte da foreste fitte assai, quasi vergini.
Dopo dieci giorni, trascorsi senza cattivi incontri, l'esercito di Finfin giungeva dinanzi alle montagne che cingevano il reame di Payli.
Fino a quel momento il re degl'antropofaghi non aveva dato segno di vita. Probabilmente riteneva impossibile una invasione da parte dei chikani e degli imbikini, anche perché il paese si prestava poco ad una marcia d'un grosso esercito, in causa delle difficoltà del terreno.
Finfin, prima di entrare nel territorio nemico, volle procedere come le nazioni civili, non volendo ricorrere ad una sorpresa senza alcuna intimazione di guerra. Stabilito l'accampamento in una forte posizione, chiamò uno dei capi più valorosi e buon parlatore e lo incaricò di recarsi dal re antropofago per intimare la restituzione della principessa Juba e dei prigionieri imbikini o la guerra. Il capo, quantunque temesse una cattiva accoglienza, accettò l'arduo incarico, però disse al generalissimo che voleva avere un compagno.
— Non hai che da scegliere — gli disse Finfin. — Gli uomini valorosi non ci mancano.
— Non è un uomo che io desidero avere per compagno — disse il capo.
— E chi vuoi adunque?
— La tua scimmia.
Quella domanda, imbarazzò grandemente Finfin.
La scimmia da quando si trovava fra i negri aveva sempre manifestata una ripugnanza per quegli uomini color della pece. Era l'odore punto gradevole che tramandavano quando erano sudati o la tema che le giuocassero qualche brutto tiro, si era tenuta sempre lontana da loro non permettendo a chicchessia d'avvicinarla.
Era dunque una cosa difficilissima indurla a tener compagnia all'ambasciatore. Nondimeno Finfin non aveva perduta ogni speranza. Chiamò Pompeo, si mise ad accarezzarlo, poi cominciò a parlargli con voce dolce studiandosi, ora colla voce ed ora coi gesti, di fargli capire che doveva seguire il negro incaricato di portare l'ambasciata al re dei cannibali.
Dovette impiegare non poco tempo a persuadere la scimmia ed a farsi capire, finalmente però vi riuscì.
La brava ed intelligente bestia prima di mettersi in marcia andò ad accarezzare l'elefante, poi tornò da Finfin manifestando un vero dolore per quella separazione, quindi si mise dinanzi all'ambasciatore reggendo sulla spalla un vecchio fucile però carico, datole dal padrone.
L'ambasciatore invece erasi munito del suo scudo ed armato d'una lancia, potendo fare dei cattivi incontri durante il viaggio, specialmente colle bestie feroci.
— Va', mio bravo Pompeo — gli disse Finfin che lo aveva condotto fino all'estremità dell'accampamento. — Tu sei il migliore dei servi.
La scimmia rispose con un'ultima carezza, poi prese il sentiero che doveva condurre alla residenza reale di Payli, sempre seguita dall'ambasciatore. Ben presto essi giunsero ad un villaggio d'antropofaghi, uno dei più vicini alla frontiera. La popolazione, scorgendo quei due nemici, si affrettò a circondarli, gridando:
— Vi mangeremo!... Vi mangeremo!...
Vedendo però che si trattava d'un uomo e d'una scimmia, si arrestarono in preda alla più viva meraviglia. Non avevano mai veduto una scimmia armata di fucile e tanto meno vivere in buona armonia cogli uomini.
Alcuni però più ardimentosi, cercarono di avvicinarsi al capo imbikino per impadronirsene e metterlo ad arrostire pel pranzo, ma Pompeo non era una scimmia così stupida da non comprendere la maligna intenzione di quei feroci negri. Con un rapido gesto armò risolutamente il moschetto e lo puntò verso gli antropofaghi, facendo loro capire che lo avrebbe scaricato sui loro musi. Quella minaccia raffreddò i più animosi. La statura gigantesca di quel quadrumane, la sua attitudine risoluta e la manovra del lungo fucile erano tali cose da far paura anche a degli uomini meno selvaggi.
Uno dei capi si fece però avanti domandando al capo imbikino che cosa desiderasse.
— Io desidero parlare al re — rispose il guerriero. — Vengo come ambasciatore, quindi voi non avete il diritto di toccarmi.
— È tua quella scimmia?
— Appartiene al generalissimo.
— Il tuo generalissimo è nelle nostre mani e lo mangeremo appena sarà ingrassato.
— Ne abbiamo nominato un altro ed il nuovo è assai più valente dell'altro. Presto avrete sue nuove — rispose l'ambasciatore. — Orsù, sgombrate il passo e lasciate che io mi rechi dal re o questa scimmia vi accoppa tutti a colpi di fucile.
Gli antropofaghi spaventati e d'altronde non osando mettere le mani su di un uomo che doveva recare un'ambasciata al loro re, fecero largo, però si misero a seguire il guerriero e la scimmia, formando una specie di guardia d'onore.
Il capo imbikino e Pompeo, mercé la loro risolutezza poterono quindi proseguire il viaggio verso la dimora reale del re degli antropofaghi senza aver da subire altre noie, poiché si era già sparsa la voce del loro arrivo. Le popolazioni dei villaggi, attratte dalla curiosità di vedere quell'ambasciatore scortato da una scimmia armata di fucile e che procedeva con una dignità e con una serietà comica, accorrevano in massa, senza però osare alcuna dimostrazione ostile.
Il fucile di Pompeo bastava a tenerli a dovere e poi sapevano che tali scimmie sono dotate d'una forza prodigiosa.
Sei ore dopo l'ambasciata faceva la sua entrata nel villaggio reale, accolta da clamori assordanti.
Il monarca che in quel momento stava a tavola, occupato a mangiare un bel pezzo di gamba di ippopotamo ed un arrosto di scimmia, udendo quelle urla si affrettò ad alzarsi, credendo che il suo villaggio fosse stato invaso dagli imbikini. Essendo valoroso, balzò sulle sue armi ed uscì seguito dagli ufficiali della sua casa.
Al suo apparire la popolazione tacque prontamente e si prosternò a terra, battendo la fronte al suolo, così volendo l'etichetta. Solamente il capo imbikino e Pompeo rimasero in piedi, calmi, impassibili. Riconoscendo nell'ambasciatore un imbikino, avendo questi il corpo coperto di tatuaggi, gli si avvicinò dicendogli:
— Cosa vieni a fare qui, cane?...
Evidentemente quel monarca mancava di educazione e non faceva gran caso degli ambasciatori dei regni nemici. Da vero tiranno trattava tutti come se fossero suoi schiavi.
Il guerriero imbikino non parve offendersi per quelle parole. Egli d'altronde aveva una grande fiducia nella sua qualità d'ambasciatore e non credeva di dover temere un brutto tiro da parte del monarca nemico. Però si credette in dovere di rispondere:
— Io non sono un cane, bensì un ambasciatore del re Korosko.
— Un ambasciatore?... Allora puoi entrare nella mia dimora — disse il re. — Vedremo cosa vorrà quel miserabile Korosko da me.
Rientrò nella capanna reale sedendosi a tavola e si rimise a mangiare con vorace appetito, mentre l'ambasciatore si sedeva a breve distanza. Pompeo naturalmente non lo aveva abbandonato, gli si era messo dietro, tenendo in mano il fucile come per far comprendere che lo avrebbe protetto contro qualsiasi attentato.
— Puoi parlare — disse Payli al negro, mentre i suoi capi occupavano l'estremità della stanza.
— Il guerriero bianco, Figlio del cielo, generalissimo degli eserciti degli imbikini e dei chikani mi manda a te per darti un consiglio.
— A me un consiglio!... — gridò il monarca, lasciando cadere il boccone che stava per portare alle labbra. — Chi è quel cane di generalissimo che pretende darmi dei consigli?...
— Un uomo bianco, te lo dissi.
— Tu devi mentire, poiché gli uomini dalla pelle bianca non abitano questi paesi.
— È venuto dalla parte del mare.
Il re degli antropofaghi lo guardò con viva sorpresa.
— Korosko ha un uomo bianco!... — esclamò. — E come ha fatto a procurarselo? Deve averlo pagato caro.
— T'inganni!... L'uomo bianco è venuto da per sé per vendicare la morte del re degli imbikini e l'affronto che tu hai fatto a Korosko.
— Ah!... Ah!... — sghignazzò il re. — E cosa pretende di fare l'uomo bianco?...
— Egli ti ordina di restituire la principessa Juba e di mettere in libertà i guerrieri che hai fatti prigionieri — rispose l'ambasciatore.
— Egli vuole comandare a me!... — urlò il monarca. — Egli dunque non sa chi sono io?...
— Non lo ignora poiché è Figlio del cielo.
Il re degli antropofaghi fece una smorfia. Chi poteva essere quell'uomo bianco che aveva assunto il comando degli eserciti di Korosko? Possedeva forse una potenza occulta, invincibile?...
Egli incominciava a sospettarlo poiché diversamente non sarebbe riuscito ad indurre un guerriero imbikino a recarsi da lui. Disgraziatamente quei timori durarono ben poco.
— Io non ho paura del tuo generalissimo bianco — disse, dopo un'ultima esitazione. — Io non riceverò comandi da nessuno.
Poi alzandosi da tavola e mostrando all'ambasciatore una lunga fila di crani umani che ornavano il soffitto della dimora reale, aggiunse con accento feroce:
— Guarda!... Quei crani sono di guerrieri chikani da me uccisi.
L'ambasciatore gettò uno sguardo di sgomento verso quegli orribili trofei. Il re, riprese:
— Guarda: vi è ancora un posto libero.
Il guerriero rimase impassibile.
— Sai quale sarà la testa che andrà ad occuparlo? — continuò Payli con un sorriso da tigre.
— Lo ignoro.
— Sarà la tua.
Il negro ebbe un tremito d'angoscia.
— Io sono venuto qui come ambasciatore, sono dunque inviolabile — disse.
— Io non vedo in te altro che un nemico — rispose il re.
— Non ho fatto nulla a te.
— È vero, però i tuoi compagni hanno circondato le mie terre e si preparano ad assalirmi.
— Non l'hanno ancora fatto. Aspettano la tua risposta prima di agire.
— Se dovessi darti una risposta da portare all'uomo bianco sarebbe questa: che lo aspetto per mangiarlo in salsa verde.
— Sarà te che egli ucciderà, perché è invincibile.
— Lo vedremo, ma tu non vedrai nulla.
Ciò detto fece un segno.
Subito una larga lama cadde fra le spalle del povero ambasciatore e la sua testa, spiccata di colpo, rotolò al suolo sanguinante.
Un guerriero, probabilmente il carnefice del monarca, si era silenziosamente avvicinato all'imbikino armato d'una pesante sciabola ed al segnale convenuto aveva decapitato quel povero diavolo.
Pompeo vedendo l'ambasciatore a cadere, aveva mandato un urlo terribile. Si volse rapidamente e si trovò dinanzi al cannibale che teneva ancora in mano la sciabola rossa di sangue. Il suo furore non ebbe allora più limiti. Afferrò il suo lungo e pesante fucile per la canna e, servendosene a guisa di mazza, ne assestò un colpo tale al negro da sfracellargli il cranio.
Un urlo di rabbia sfuggì agli ufficiali della casa del monarca. Essi impugnarono le armi e si slanciarono verso Pompeo per ucciderlo. Questi però, più lesto di loro, raccolse la testa dell'ambasciatore e con un salto immenso si slanciò fuori dalla capanna.
— Uccidete quell'animale! — urlò il re, furibondo.
Alcuni negri si precipitarono all'aperto ed uno di essi scagliò la sua lancia contro la scimmia, colpendola in una mano.
Pompeo, senza lasciare la testa del povero ambasciatore, puntò il fucile e lo scaricò contro il suo feritore il quale cadde stecchito al suolo, colpito in pieno petto. Gli altri, a quella vista, scagliarono pure le loro zagaglie, mentre coloro che erano armati di fucili facevano una scarica.
Quando il fumo fu dissipato, cercarono la scimmia, credendo di averla uccisa. Immaginate quale fu la loro rabbia nel vedere che non era caduta!... Il bravo Pompeo in quattro slanci aveva raggiunto il margine del bosco e fuggiva a tutte gambe portando con sé la testa dell'ambasciatore.