Avventure di Robinson Crusoe/51
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Sbarco inaspettato.
— «Padrone! padrone! quelli venire!»
Saltai su e senza prevedere alcuna sorta di pericoli, mi vestii in fretta, attraversai il mio boschetto che intanto era giunto a potersi dir folta selva; e non pensando, come dissi, a pericoli, era venuto senz’armi, cosa insolita in me. Qual non fu la mia sorpresa allorchè vôlti gli occhi al mare vidi tosto alla distanza circa di una lega e mezzo una barca che con una di quelle vele chiamate spalla di castrato e protetta da favorevole vento si avviava alla spiaggia, e notai subito che non parea venisse dal punto ove il continente giacea, ma di rimpetto la punta più meridionale dell’isola. Vedute le quali cose, chiamai Venerdì, imponendogli di tenersi celato, perchè quelli là non erano la gente aspettata da noi, nè potevamo sapere se fossero amici o nemici.
Andato immantinente a prendere il mio cannocchiale per vedere che cosa dovessi pensare di coloro, e tratta fuori la mia scala a mano, salii la cima del monte, come soleva ogni qual volta occorreva cosa che mi mettesse in sospetto, perchè da quell’eminenza io dominava a mio modo le cose, senza timore di essere scoperto. Situatomi appena su quella sommità, potei perfettamente discernere un vascello all’âncora distante circa due leghe e mezzo da me, ma non più d’una e mezzo dal sud-est (scirocco) della spiaggia. Secondo le mie osservazioni, il vascello doveva essere inglese e uno scappavia parimente inglese la barca.
Non so esprimere la confusione in che mi trovai. Per una parte il contento di vedere una nave, ed una nave ch’io aveva ragione di credere fornita di miei propri concittadini e per conseguenza amici, era tanto che non mi sento idoneo di descriverlo; ma d’altra parte certi sinistri presentimenti che non so spiegare donde fossero venuti, mi giravano in capo, e mi diceano di stare all’erta. Prima di tutto andava ruminando in mia testa, qual razza di faccende potesse condurre una nave inglese in questa parte del mondo, ove, nè andando nè tornando, gl’Inglesi non avevano alcuna sorta di traffico. Sapeva d’altra parte non essere occorse burrasche o altri disastri di mare che li avessero potuto costringere a cercar quivi un riparo; dalle quali cose argomentava che se erano Inglesi, probabilmente non erano qui con buon disegno, e che valea meglio per me il continuare nella vita di prima, che cadere in mano di ladri o d’assassini.
Ch’uom non disprezzi tali segreti cenni o presentimenti che gli vengono dati, allorchè tutti i computi della sua ragione gli dicono che non v’è realtà di pericolo da temersi. Sono essi (e pochi, cred’io, che abbiano fatta qualche osservazione su le cose, me lo negheranno), sono essi certe manifestazioni del mondo invisibile derivate a noi da un consorzio degli spiriti; non ne è lecito il dubitarne. E se queste intendono a salvarci dai mali che ne sovrastano, perchè non le supporremo noi venute da qualche ente amico (o sia l’ente supremo, o qualche essere a lui subordinato, ciò non fa nulla) e comunicateci per nostro bene?
Questo avvenimento mi confermò pienamente l’aggiustatezza di questo ragionamento; perchè se non m’avessero posto in guardia questi segreti avvertimenti, venissero poi di dove venissero, sarei stato inevitabilmente perduto ed in condizione ben più trista di prima, come siete subito per convincervene.
Non rimasi lungo tempo su quella cima prima di vedere la barca avvicinarsi al lido come in cerca di una cala ove gettar l’àncora, e donde effettuare uno sbarco. Fortunatamente non era venuta innanzi tanto che chi vi stava entro si potesse accorgere della darsena ch’io m’avea poco prima costrutta pel mio navilio; onde cercò spiaggia un miglio e mezzo lontano da me; altrimenti ne avrei avuta alla porta di casa, come si suol dire, la ciurma che m’avrebbe smantellato il mio castello e svaligiato del tutto. Sbarcati che furono, compresi ottimamente che erano Inglesi, almeno la maggior parte, perchè distinsi fra coloro uno o due Olandesi, ma ciò monta poco. Contai che erano undici in tutto, tre de’ quali disarmati e, a quanto sembrommi in quel momento, legati: vidi pure che quando quattro o cinque della banda furono saltati a terra, tirarono fuori della barca i tre che ho indicati in condizione di prigionieri. Uno di questi tre facea gesti di preghiera, di dolore, di una disperazione indicibile; gli altri due, a quanto potei discernere, sollevavano talvolta le mani al cielo, e parevano afflitti sì, ma non tanto. Non so dirvi qual fosse la confusione delle mie idee a simile vista; nè capiva il significato di tutto ciò. Venerdì si credea di capirlo, perchè mi si volse tosto esclamando:
— «Ah padrone! voi vedere che uomi inglesi mangiar prigionieri come uomi selvaggi!
— Oibò, Venerdì! V’immaginereste forse che quelli là volessero mangiare gli uomini caduti in loro potere?
— Sì; volerli mangiare.
— No, gli risposi. Ho ben paura che li vogliano assassinare; ma state certo che non li mangeranno.»
In tutto questo tempo non mi avea dato alcun pensiere per indovinare il netto delle cose: non faceva altro che tremare, inorridito alla vista di quello spettacolo, e aspettandomi da un istante all’altro che i tre prigionieri venissero trucidati. Anzi una volta vedendo uno de’ malandrini alzare il braccio armato di lungo stilo o spada sopra uno di que’ tre poveretti, e credendo che non indugerebbe un minuto a vibrare il colpo, mi si congelò il sangue di raccapriccio in tutte le vene. Ben m’augurava di cuore in quel punto lo Spagnuolo e il vecchio selvaggio andatosene in sua compagnia, o di trovar qualche via per giungere inosservato alla distanza di un tiro di schioppo da quel luogo e liberare le povere vittime; perchè notai che i mascalzoni non avevano armi da fuoco con loro; ma il caso presente mi suggeriva alla mente altri espedienti.
Dopo i brutali modi usati da que’ cialtroni ai lor prigionieri, notai che si sparpagliarono attorno, come se avessero intenzione di visitare il paese, e che gli altri tre rimasero in libertà d’andare ove avessero voluto. Ciò non ostante restavano seduti su lo stesso luogo meditabondi e con tutti i più manifesti segni della disperazione. Ciò ricordavami il primo istante del mio naufragio su questo lido: onde cominciai a considerare sopra me stesso; a ricordarmi come anch’io mi fossi dato per perduto; come girava gli occhi stralunati all’intorno; quali tremende paure m’incalzarono; come quella di essere divorato dalle fiere mi fe’ scegliere a stanza un albero per tutta una notte.
Que’ poveri sfortunati, io pensava, sono nel mio caso d’allora. Io certo non potea menomamente immaginarmi che il soccorso della Provvidenza mi verrebbe da quel cadavere di naufragata nave donde trassi, poichè i venti e la marea lo ebbero spinto più vicino alla costa, e il mio sostentamento e i conforti di quella mia vita per sì lungo tempo. Così, io diceva fra me, quelli là non sanno quanta certezza abbiano della loro liberazione, come sia ad essi vicina, come realmente si trovino in una condizione di salvezza, mentre appunto si credono irremissibilmente perduti e il caso loro disperato. Tanto poco vediamo dinanzi a noi su questa terra, e tanta ragione abbiamo di essere grati al signore dell’universo, perchè non lascia mai sì compiutamente derelitte le sue creature, che nelle condizioni anche più triste non abbiano alcun che per ringraziarlo e talvolta sieno più vicine di quanto se lo figurano al porto di loro salvezza; anzi di frequente sono condotte a questo porto da quelle circostanze medesime che pareano fatte per trascinarle alla disperazione.
È a sapersi che l’alta marea era appunto al suo colmo quando costoro sbarcarono nella mia isola, onde mentre or si sbandavano per vedere in che razza di paese fossero venuti, lasciarono inavvedutamente calar tanto il fiotto che venne a secco la barca entro cui doveano rimettersi in viaggio. Aveano posti in questa, perchè gli avvisassero dell’ora di ripartire, due dei loro che, come venni a conoscere più tardi, avendo bevuto di acquavite un pocolino più che non bisognava, profondamente s’addormentarono. Uno d’essi nondimeno svegliatosi più presto dell’altro, non tardò a vedere che la sua barca era troppo arrenata perchè potesse smoverla da sè solo, onde si diede a chiamare i suoi sbandati compagni che corsero tosto alla barca. Ma ci voleva altro che la forza di tutti loro per metterla di nuovo a galla: quel fondo era sì melmoso, che la barca stava piuttosto che nell’acqua affondata in una specie di sabbia mobile. Veduto ciò, da veri marinai, gente la meno antiveggente che siavi su la terra, non ci pensarono più, e si diedero un’altra volta a vagare per l’isola. Ne udii un di questi che nell’uscire di barca diceva al suo vicino:
— «Stia lì! Che te ne pare Giacomo? Galleggerà al ritorno dell’alta marea.» Le quali parole mi confermarono nella prima supposizione fatta intorno alla patria di que’ galantuomini.
In tutto questo tempo ebbi tanta cura di tenermi nascosto, che non ardii scostarmi dal mio castello (e quanto ringraziava Dio che fosse così ben munito!) per una maggior distanza della via da farsi per salire al mio osservatorio o faro. Sicuro che non vi volendo meno di dieci ore prima che, col tornare della grossa marea, que’ miei ospiti potessero metter di nuovo a galla la loro barca, nel qual tempo sarebbe venuta la sera, mi prefissi d’aspettare quell’ora per vedere con maggior libertà e più da vicino i loro movimenti ed ascoltarne i propositi, se ne aveano. Intanto mi apparecchiava ad una battaglia, come aveva fatto altra volta, con la differenza che sapendo dover fare con altri nemici, posi in ciò maggiore cautela. Ingiunto parimente d’armarsi a Venerdì che era divenuto, grazie ai miei insegnamenti, un eccellente bersagliere, gli diedi tre archibusi, prendendo per me due moschetti da caccia. V’accerto che vestito della mia formidabile casacca di pelle di capra, coperto il capo del mio berrettone che vi ho già descritto, con la spada senza fodero che mi pendeva dal fianco, due pistole alla cintura, un moschetto per ispalla, faceva da vero una figura tremenda.