Avventure di Robinson Crusoe/13
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
◄ | 12 | 14 | ► |
Stanza di ricovero.
Non mi bisognò molto a comprendere che il luogo in cui mi trovava non era adatto a porvi stanza, particolarmente perchè situato sopra un terreno basso, paludoso, in vicinanza del mare, e tale che ne credeva l’atmosfera mal sana; più particolarmente poi per non trovarvisi acqua dolce da presso; mi determinai quindi a cercare un terreno più salubre e più convenevole al caso mio.
Postomi a considerare su le molte cose che mi sarebbero state indispensabili nella mia posizione, trovai esser queste primieramente salute e acqua dolce in vicinanza, come ho già detto; secondo, un ricovero contro all’ardore del sole, inaccessibile in oltre ad ogni sorta di viventi voraci, fossero questi uomini o bestie; finalmente la vista del mare, affinchè se Dio mi avesse mandato a veggente un vascello, io non avessi perduto ogni possibilità di liberarmi di lì, speranza che io non sapeva risolvermi a sbandire dalla mia mente.
Datomi a cercare questo terreno, trovai una piccola pianura posta a fianco di un erto poggio, che le stava di rincontro presentando un piano inclinato simile al tetto di una casa, affinchè nulla che cadesse dalla sommità del monte poteva venirmi sopra la testa. In oltre sotto questa specie di tetto vedevasi una cavità simile ad un piccolo andito o ingresso della porta di una cantina; ma quivi realmente non si trovava nè caverna nè via di sorta alcuna aperta nel piede del monte.
Sul verde spianato posto dinanzi all’accennata cavità, non più largo di circa cento braccia, e presso a poco due volte altrettanto lungo, io divisai dunque di piantar la mia tenda innanzi alla cui porta lo spianato formasse una specie di giardino; l’estremità di questo spianato scendeva irregolarmente da tutte le bande a guisa di pendìo che toccava il mare. Esso era al nord-nord-west (maestro-ponente), del monte, difeso quindi dal caldo in ciascuna giornata finchè il sole venisse all’incirca tra ponente ed ostro, il che in questi paesi accadea presso l’ora del tramonto.
Prima di piantar la mia tenda descrissi dinanzi all’accennata cavità un semicircolo, il cui diametro da un’estremità all’altra teneva una distanza di venti braccia dallo stesso monte.
In questo semicircolo piantai due filari di forti pali conficcandoli nel terreno tanto che prendessero la consistenza di veri pilastri, la cui parte più massiccia usciva presso a cinque piedi e mezzo da terra, terminando in punta; i due filari distavano circa sei pollici l’uno dall’altro.
Pigliati allora i pezzi di gomona apparecchiatimi nel vascello, li collocai un sopra l’altro entro lo spazio lasciato vuoto dai due filari ch’io empiei sino alla cima; indi piantai nell’interno altri pali alti circa due piedi e mezzo, che s’appoggiavano e prestavano uffizio come di contrafforte alla barriera già fabbricata; barriera sì gagliarda che nè uomo nè animale poteva penetrarvi od oltrepassarla. Ciò costommi grande tempo e fatica, massimamente avendo io dovuto tagliar le pertiche ne’ boschi, condurle sul luogo e conficcarle nel terreno.
Non si entrava qui da porta alcuna, ma bensì per mezzo di una specie di scala con cui si arrivava alla cima della palizzata, e ch’io dopo essere entrato mi tirava dentro; mercè i quali espedienti credutomi abbastanza munito e afforzato contro di qualunque assalitore, dormii tranquilli i miei sonni la notte, ciò che non avrei fatto altrimenti, benchè mi sia accorto in progresso non esservi bisogno di tutte queste cautele contro al genere di nemici ch’io paventava.
Entro questo mio castello o fortezza trasportai con immensa fatica tutte le mie ricchezze, provvigioni, munizioni e vettovaglie che vi ho già precedentemente descritte; poi mi feci un’ampia tenda che a fine di ripararmi dalle piogge, qui violentissime per un’intera parte dell’anno, fabbricai in doppio, composta cioè d’una più picciola tenda interna e d’un’altra più forte che le stava di sopra, il tutto in oltre coperto da una grandissima tela cerata ch’io mi avea posto a parte nel fare incetta di vele.
Allora cessai per qualche tempo di coricarmi nel primo letto che m’avea portato meco alla spiaggia; e gli preferii un letto pensile che da vero era eccellente, siccome quello che appartenne in passato all’aiutante del capitano del vascello.
Sol dopo avere trasportate in questa tenda tutte le mie provvigioni, e quelle prima delle altre che l’umidità potea danneggiare, chiusi l’ingresso della tenda stessa che fin qui era rimasto aperto, e di lì in poi mi giovai per passare e ripassare della corta scala che ho nominata.
Compiuto tutto ciò, cominciai ad aprirmi una via entro al dirupo, e trasportando quanta terra e pietre scavai nell’interno della mia tenda, le collocai a guisa di uno sterrato che innalzò di circa un piede e mezzo il pavimento; così venni ad aprirmi dietro la mia fortezza una specie di grotta. Mi ci vollero molti stenti e gran tempo prima di aver terminate tutte queste cose, al qual fine dovetti trasandarne altre che aveano seriamente occupati i miei pensieri. Non era anche condotto a tutta la sua perfezione il disegno di alzare il pavimento e di farmi una grotta, quando annuvolatosi orridamente il cielo, cadde un tremendo rovescio di acqua: poi la mia tenda fu d’improvviso illuminata da un abbagliante lampo cui succedè tosto, come suole accadere, un grande fragore di tuono. Certo non mi diede tanto fastidio il lampo, quanto un pensiere suscitatosi nella mia mente con la rapidità del lampo stesso: O mia polvere! gridai. Rimasi mezzo morto al pensare, come dipendesse da un soffio che la mia polvere fosse distrutta; la mia polvere su cui aveva fondate tutte le speranze, non solo della mia difesa, ma in oltre del mio sostentamento; e la cosa più singolare si è che quasi nulla io m’affannava sul pericolo di me medesimo, benchè se la polvere avesse preso fuoco, non avrei saputo mai più che cosa potesse farmi del male.
Tale impressione fu sì forte nell’animo mio che, cessato il temporale, lasciai in disparte tutti gli altri miei lavori, tutte le mie fabbriche e fortificazioni per darmi a preparare sacchi e casse per separare la mia polvere e tenerne una piccola partita in un luogo esterno, una piccola in un altro parimente esterno, affinchè qualunque disgrazia fosse per succedere, non prendesse fuoco tutta in una volta, e le porzioni di essa fossero segregate in guisa, che infiammandosene una non si infiammasse tutta la massa. Impiegai poco meno di una quindicina di giorni a terminare questa faccenda; e credo bene che tutta questa munizione, del peso in circa di dugento quaranta libbre, non fosse suddivisa in meno di cento parti. Quanto al barile umido, in quello stato non mi faceva paura; onde lo posi nella nuova grotta, che nella mia fantasia io chiamava cucina. Il rimanente della polvere lo nascosi in buche fatte entro il monte, dopo avermi preso ogni cura perchè l’umido non vi penetrasse, e dopo avere contrassegnato accuratamente il luogo di ciascun ripostiglio per poter trovare all’uopo le mie munizioni.
Mentre tutte le indicate cose si andavano operando, ogni giorno io usciva almeno una volta della tenda col mio moschetto sia per divertirmi, sia per vedere se mi riuscisse uccidere qualche animale buono per nutrimento, sia finalmente per rendermi possibilmente pratico delle cose che produceva quel suolo. Alla prima di tali gite fuor della mia fortezza scopersi che nell’isola v’erano capre, il che mi diede grande soddisfazione, non disgiunta per altro da un dispiacere, perchè questi animali erano sì paurosi, sì leggeri e veloci al corso, che diventava cosa difficilissima il raggiugnerli; pure non mi sconfortai, nè mi abbandonò la speranza che una volta o l’altra ne avrei atterrato uno, come ben presto avvenne; perchè dopo aver preso un poco di cognizione de’ luoghi che frequentavano, concepii il mio stratagemma per appostarli.
Io aveva notato che se vedevano me nelle valli ancorchè fossero sul monte, correvano via spaventati terribilmente; ma se invece stavano pascolando nelle valli ed io era su le montagne, non parea che s’accorgessero di me; donde conclusi che per la collocazione dei loro nervi ottici la vista di questi animali diretta all’ingiù non raggiugnesse prontamente gli oggetti posti al di sopra di essi; per conseguenza mi attenni sempre al metodo di prendere vantaggio su di loro, salendo la montagna finchè essi restavano a pascolare la valle; e così m’accadde frequentemente di far buona caccia. Il primo colpo di moschetto sparato fra queste bestie uccise una capra che aveva il suo capriuolo poppante sotto di se, il che mi diede assai dispiacere; nè quando gli ebbi uccisa la madre il capriuolo si distolse da essa, ma rimase al suo posto fin ch’io le fossi addosso per prenderla; nè ciò solo, ma allorchè io me la portai su le spalle, il capretto mi seguì fino a casa; veduta la qual cosa lasciai giù la madre, e presomi quel piccolo animaletto fra le braccia lo feci passare al di là della palizzata, con la speranza che lo avrei allevato e addimesticato; ma non volea mangiare, onde mi vidi costretto ad uccidere anch’esso e a mangiarlo. E la madre ed il figlio mi mantennero a carne per un bel pezzo, perchè andava con molta parsimonia nel cibarmi, e risparmiava le mie provvigioni, massimamente il pane, il più ch’io poteva.
Stabilita ora la mia abitazione vidi cosa di stretta necessità l’assicurarmi un luogo ove far fuoco e combustibili per mantenerlo. Quali espedienti io prendessi a tal uopo, come pure in qual modo ampliassi la mia grotta, ne darò un pieno ragguaglio a suo tempo; ma prima mi è necessario il dire alcune poche particolarità sopra me stesso e le meditazioni da me istituite su la mia vita, che, come ognuno può ben immaginarsi, non furono poche.