Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Capitolo LXIV

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LXIV.

Assedio di Ancona.

Nel giorno in cui si commise quella carnificina mi trovai in Camerano presso non so quale Commissario, in servizio del Comune. Tornato a casa e sentendo che fra poco la piazza di Ancona si arrenderebbe, risolvetti di andare a vedere il campo di assedio, non tanto per curiosità, perchè sono stato sempre poco curioso, quanto per poter dire di avere veduta una cosa che in questo Stato nostro pacifico non accade in più secoli. Mia moglie si oppose, ma questo punto lo vinsi io, o perchè mia moglie non si curò di vincerlo, o perchè io non mi ero ancora rassegnato a perderli tutti. La suddetta venne con me, e alloggiammo alla meglio nella casuccia di un villano, alquanto lontana dalla piazza ma sotto il tiro del cannone. Le ostilità, vere o affettate, continuavano, e le palle e le bombe strisciavano e cigolavano non raramente al fianco nostro e sopra di noi. Resto ancora meravigliato come mai essendo io cautissimo e timidissimo potessi espormi a quel pericolo, ma l’esempio seduce, e l’abitudine rende familiare qualunque situazione. Inoltre per la tanta allegria di vederci liberi dai Francesi eravamo tutti ubriachi, e non pensavamo ad altro. Dormivamo tranquillamente sotto la bocca del cannone come sotto l’ombra di un olivo pacifico. Credo che in vita mia questo fu l’unico pericolo al quale mi sono esposto volontariamente, e riconosco per un tratto della providenza se quella pazzia non ebbe conseguenze disgustose.

Il materiale dell’accampamento non era bello perchè la stagione piovosissima, e la campagna montuosa e alberata non lasciava vedere un posto dall’altro. Buona parte dei soldati si era cavate delle tane sotto terra, e l’occhio dello [p. 144 modifica]spettatore godeva poco. Il formale però di quel campo era una maraviglia perchè vi concorrevano tante nazioni, che trattane la Spagna, ogni parte di Europa ci aveva qualche soldato. Il nerbo dell’assedio era formato dagli Austriaci, e fra essi erano Tedeschi, Ungharesi, Fiamminghi, Croati, Schiavoni, Dalmati, Lombardi e Veneziani. Ci erano gli insurgenti, concorsi da varie provincie, i Turchi, i Russi e gli Inglesi venuti per mare, e ci era perfino un corpo di Francesi realisti a cavallo. Un immenso e quotidiano concorso di foresteria che arrivava da tutte le parti, rendeva quel soggiorno deliziosissimo, e gli Austriaci usando un tratto sommamente cortese e morigerato, ne vennero compensati della piena fiducia con la quale conducevamo fra loro le nostre donne, senza temere di alcuna licenza. Vivemmo colà alquanti giorni allegrissimamente e quel poco di bene ci ristorò delle angustie passate. Come il riposo compensa la stanchezza del corpo, così l’allegria compensa i patimenti dell’animo, e poichè se l’uomo affaticato non dorme non è suscettibile di nuovo travaglio, così se all’animo afflitto non si accorda qualche sollievo soccomberà macerato dalla tristezza.

Voglio dire che una matina un Turco passò sotto le nostre finestre tenendo per i capelli la testa di un Francese tagliata di fresco. Quella povera testa aveva ancora un resto di vita, e contorceva la bocca e gli occhi. Il Turco la guardava schernendola, e diceva «ride Franciusa». Si disse che un altro Turco ne aveva cotte le mani, e se le era mangiate. Ma togliamo lo sguardo da questi orrori. Era tanto però l’odio inspirato dai Francesi a tutto il mondo contro di sè, che i Turchi incontrando alcuno isolatamente gli domandavano la corona, e se non aveva o questo, o altro segno di cristiano lo ammazzavano come Giacobino, e aderente della Francia.