Attraverso l'Atlantico in pallone/Capitolo 26 - Le isole Bissagos

Capitolo 26 - Le isole Bissagos

../Capitolo 25 - L’inseguimento ../Conclusione IncludiIntestazione 22 settembre 2017 75% Da definire

Capitolo 25 - L’inseguimento Conclusione

Capitolo 26

Le isole Bissagos


L’arcipelago delle Bissagos forma un gruppo considerevole di isole, situato non di fronte al Gambia, come si vede generalmente nelle carte geografiche, ma tra la foce del Rio Grande e la costa della Sierra Leone e più precisamente fra il Capo Rosso e la Punta Verga.

Quantunque queste terre si trovino così vicino ai possedimenti francesi della Senegambia, sono pochissimo note, e ben pochi esploratori si sono avventurati su quelle coste che godono di pessima fama. Si sa che sono assai boscose e che sono abitate da una popolazione bellicosa e crudele, dai Bigiuga, guerrieri valentissimi, i quali si sono impadroniti delle isole fluviali, cacciando e sterminando i pacifici Biafri che prima le occupavano.

Come si vede, gli aeronauti del Washington stavano per cadere su di un isola assai pericolosa: però al momento né l’ingegnere né O’Donnell s’inquietavano. A loro bastava toccare terra prima di venire respinti nell’Atlantico dove avrebbero trovato la morte.

Come si disse, nel momento in cui il sole scomparve, il Washington cominciò a precipitare con grande velocità, come se tutto d’un colpo si fosse riempito di ferro. Fortunatamente, invece di cadere su di un terreno scoperto, piombava in mezzo a una fitta foresta, che alzava in aria dei rami giganteschi.

«Non abbiate paura, O’Donnell,» disse l’ingegnere. «I rami ci serviranno da paracadute.»

«Sono abituato ai capitomboli, Mister Kelly.» rispose l’irlandese.

«Vi raccomando di non lasciare la rete prima che io dia il segnale, o uno di noi sarà trascinato ancora in aria.»

L’aerostato cadeva sempre. La distanza scemava con rapidità spaventevole: pareva agli aeronauti che la foresta volasse loro incontro.

«Attenzione ai rami O’Donnell!» gridò l’ingegnere. «Badate di non farvi infilzare.»

Un istante dopo il Washington precipitava sulla cima del bosco. Trovando un punto d’appoggio, tentò di rialzarsi un'ultima volta, ma le maglie della rete s’impigliarono fra i rami, e fu trattenuto violentemente. Il vento però lo sbattè e lo trascinò per alcuni passi, sventrandolo contro le punte degli alberi.

Il gas sfuggì con lunghi crepitii attraverso le fenditure, la seta si sgonfiò rapidamente, e i due fusi si ripiegarono sui rami, pendendo fino a terra come due immensi stracci.

«Povero Washington» esclamò O’Donnell, con accento di dolore.

«È finita» rispose l’ingegnere con un sospiro.

«Scendiamo, Mister Kelly?»

«Siete ferito?»

«No, signore.»

«A terra, dunque.»

Si erano aggrappati ai rami di un albero di dimensioni colossali, un vecchio baobab. Scivolarono lungo i rami che s’incurvavano verso terra e si lasciarono cadere in mezzo ad alcuni fitti cespugli. Stavano per rialzarsi, quando si videro piombare addosso trenta o quaranta uomini di alta statura, color della liquirizia, coperti da pochi cenci e armati di lance e di fucili lunghissimi e di antico stampo. L’aggressione fu così rapida e inaspettata, che O’Donnell e l’ingegnere si trovarono ridotti all’impotenza prima di poter far uso delle loro armi.

«Che vuol dire?» chiese O’Donnell, furioso. «È così che si trattano le persone che cadono dal cielo, in queste isole? Giù le zampe, furfanti!»

I negri invece di obbedire strinsero più robustamente i due aeronauti, emettendo grida formidabili e sgambettando come scimmie che si divertano. Ridevano, si battevano il ventre, che risuonava come un tamburo, e parlavano senza arrestarsi, ripetendo sovente la parola: tubaba!

«Tubaba!» esclamò O’Donnell. «Che vuol dire? Voi capite qualche cosa, Mister Kelly?»

«No, O’Donnell, ma forse qualcuno conoscerà il francese, questi negri, di quando in quando, hanno dei contatti coi trafficanti della Senegambia.»

«Provate a interrogarli. Sarei curioso di sapere che intendono fare di noi.»

«Che cosa desiderate da noi?» chiese l’ingegnere, in francese.

Udendo quella domanda un grande negro, che portava al collo una scatola vuota di sardine di Nantes e sul capo un berretto sformato e stracciato che pareva essere appartenuto a qualche ufficiale di marina, rispose nella stessa lingua: «Vogliamo condurvi da Umpane.»

«Chi è questo Umpane?»

«Il re dell'isola.»

«Come si chiama quest'isola?»

«Orango.»

«Ci avete teso un agguato?»

«Vi abbiamo veduti cadere e siamo corsi qui per mangiare l’uccello che vi portava.»

L’ingegnere scoppiò in una risata.

«Va a mangiarlo il nostro uccello» disse.

«È fuggito? Non vedo che la sua pelle.»

«Sì, è fuggito dopo essersi sbarazzato della sua prima pelle» disse l’ingegnere sempre ridendo. «Dove andiamo ora?»

«Alla tabanca di Umpane.»

«Conduceteci da lui, dunque.»

Ad un comando del negro che pareva fosse il capo, il drappello si mise in marcia, circondando i due aeronauti, ai quali avevano preso le armi, e portando con sé le spoglie del pallone dopo averle fatte in lunghi pezzi. Aprendosi il passo fra i fitti cespugli che ingombravano il bosco, e girando e rigirando fra i tronchi giganteschi dei baobab, delle palme d’elais e dei manghi che crescevano sulle rive delle paludi, dopo mezz’ora giunsero dinanzi a un villaggio situato a breve distanza dalle sponde dell’oceano e composto di un centinaio di capanne più o meno vaste e di lunghi fabbricati che parevano magazzini. Udendo le grida del drappello, una folla di negri si precipitò fuori dalle capanne, recando dei rami accesi e circondando i prigionieri senza però, per il momento, manifestare intenzioni ostili. Le grida divennero così acute, che l’ingegnere e O’Donnell furono costretti a turarsi gli orecchi.

«Che concerto!» esclamò l’irlandese, più seccato che spaventato.

«Una banda di scimmie urlanti non farebbe di più.»

«Dov’è il re?» chiese l’ingegnere al negro dal berretto.

«Laggiù» rispose questi additando una grande capanna circolare, difesa da una palizzata di bambù e appoggiata a un boschetto di aranci.

«Conducimi da lui.»

Il negro e la sua scorta respinsero la folla con una grandine di legnate e condussero gli aeronauti verso la grande capanna. Il re, senza dubbio informato del loro arrivo, li aspettava sulla porta.

Era un brutto negro di trentacinque o trentott’anni, coi lineamenti feroci, gli occhi obliqui che tradivano la doppiezza dell’anima, il naso ricurvo come il becco d’un pappagallo e la carnagione d’un nero lucido perfetto. Portava ai fianchi un sottanino ornato di perle di vetro, di denti di animali selvaggi e di code di scimmie, alle gambe un paio di lunghi stivali sfondati, sul capo un vecchio cappello a cilindro, ammaccato e senza tesa, adorno di etichette, di scatole di sardine, e in mano un bastone da capomusica. In attesa degli stranieri, stava rosicchiando con visibile soddisfazione un pezzo di sapone profumato. Vedendo i due aeronauti, mosse loro incontro seguito da parecchi dignitari e da alcuni guerrieri armati di vecchi fucili, e li guardò per alcuni istanti con curiosità, poi interrogò il capo della truppa, il grande negro dal berretto. Vedendo che la conversazione si prolungava assai e non comprendendo che cosa dicessero, l’ingegnere si fece innanzi e domandò: «In conclusione, che desidera Sua Maestà negra?»

«Nulla per ora» rispose il negro dal berretto. «Domani il grande sacerdote deciderà della vostra sorte.»

«Che intendi dire? È la libertà incondizionata che noi reclamiamo, essendo uomini liberi; al tuo re nulla dobbiamo: ci lasci dunque andare per i fatti nostri.»

«Deciderà il grande sacerdote.»

«Me ne infischio del vostro sacerdote.»

«Bada, bianco, che tu sei straniero qui e che i Bigiuga sono potenti.»

In quell’istante dalla parte dell’oceano risuonò una detonazione, che pareva prodotta da un cannoncino. L’ingegnere e O’Donnell si volsero da quella parte, mentre i negri alzavano urla acute, e al pallido chiarore della luna, che allora si alzava all’orizzonte, videro approdare il cutter che s’era volto in soccorso del Washington mentre questo stava per precipitare nelle onde.

«Siamo salvi» gridò O’Donnell.

Una voce argentina, ma squillante, partì dalla piccola nave: «Mister Kelly!... Mister O’Donnell...»

«Walter!» esclamarono gli aeronauti.

Un uomo bianco armato di fucile e di rivoltelle, era sbarcato e muoveva rapidamente verso i negri, seguito dal mozzo e da otto negri armati di fucili a retrocarica.

«Indietro!» gridò in lingua portoghese. «Dov’è Umpane?»

I Bigiuga, che pareva lo conoscessero, fecero largo e l’uomo bianco avanzò verso gli aeronauti stupiti stendendo la mano e dicendo: «Sono felice di liberarvi da queste canaglie, Mister Kelly e Mister O’Donnell. Ora accomoderò ogni cosa.»

«Grazie, signore» risposero i due aeronauti, vivamente commossi e stringendogli la mano.

«So chi siete.» riprese lo sconosciuto «e donde venite, e lo sapevo prima che raccogliessi il vostro mozzo. L’ardita vostra impresa era conosciuta anche sulle coste africane.»

Poi mentre l’ingegnere e l’irlandese abbracciavano il mozzo lo sconosciuto si volse verso Umpane, dicendogli con voce brusca: «È così che tratti i miei amici? Bisognerà che mi decida a non approdare più alla tua isola e che vada a vendere altrove il mio arak e la mia polvere da sparo.»

«Ma questi nomini sono caduti dal cielo» disse il re, pure in portoghese, «Forse che ti apparteneva quel grande uccello?»

«Sì era mio» rispose il bianco con grande serietà.

«Allora ne manderai uno al tuo amico Umpane?»

«Nel mio prossimo viaggio te ne porterò uno.»

«E non fuggirà lasciandomi la pelle?»

«T’insegnerò il modo di impedirgli di fuggire. Ma tu devi consegnarmi questi due bianchi che sono miei amici.»

«Lo permetteranno le divinità dell’isola?»

«Interrogale.»

Ad un cenno del re si fece innanzi un vecchio negro, che si era affrettato a coprirsi con un pezzo di seta del Washington ornandolo di code di scimmie, di denti umani, di scaglie di testuggine e di perle di vetro. Alla cintola portava un coltellaccio, che pareva essere stato affilato di recente.

«Che cosa sta per succedere, signore?» chiese l’ingegnere al portoghese.

«Si sta per decapitare un disgraziato gallo, Mister Kelly» gli rispose.

«E che cosa ha a che fare un gallo con noi?»

«Questi superstiziosi negri pretendono che le divinità dell’isola risiedano nel corpo d’un gallo, e manifestino le loro intenzioni coi contorcimenti dell’innocente vittima. Se il gallo, nel dibattersi, cadrà dalla vostra parte, gli dei vi permetteranno di andarvene: se si allontana, allora sarà una faccenda seria. Fortunatamente conosco quel volpone di sacerdote e con un regalo farò in modo che le cose vadano bene.»

«Lo credete?»

«L’ho già fatto avvertire che riceverà una delle mie rivoltelle.»

In quell’istante fu recata la vittima. Era un grosso gallo tutto nero, che faceva sforzi disperati per liberarsi dalle mani di due alti dignitari che lo tiravano per le zampe e per la testa. Il grande sacerdote scambiò un rapido sguardo col portoghese, poi con un colpo di coltello decapitò la vittima, la quale andò proprio a cadere ai piedi dell’ingegnere e di O’Donnell.

«Le divinità li proteggono, Umpane» disse il sacerdote con accento solenne.

«Andate,» disse il re con un certo malumore. «Siete liberi. Ma trattengo le vostre armi e la pelle del grande uccello.»

«Te le lasciamo di cuore» disse il portoghese.

Poi mentre uno dei suoi uomini donava al grande sacerdote la rivoltella, disse: «Affrettiamoci signori. Quella canaglia di Umpane potrebbe pentirsi.»

I negri ad un cenno del re aprirono le file, e i due aeronauti, il portoghese, il mozzo e l’equipaggio si diressero rapidamente verso il cutter e s’imbarcarono.

«Ti raccomando il grande uccello!» gridò Umpane.

«Te lo manderò» rispose il portoghese ridendo. «Vedrai come sarà magnifico!...»

Le àncore vennero strappate dal fondo, la randa e la controranda vennero orientate, e il piccolo legno s’allontanò rapidamente dal pericoloso arcipelago, portando seco gli eroi di quel meraviglioso viaggio compiuto attraverso l’Oceano Atlantico.