Attraverso l'Atlantico in pallone/Capitolo 15 - La nave dei morti

Capitolo 15 - La nave dei morti

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Capitolo 15

La nave dei morti


Verso l’est, a una grande distanza, un punto nero spiccava nettamente sulla tranquilla superficie dell’Atlantico e sembrava perfettamente immobile. Non poteva essere un uccello, né una barca, poiché a tale distanza né l’uno né l’altra sarebbero stati visibili, né un pescecane di grandi dimensioni, poiché non sarebbe rimasto immobile, né un vascello, poiché su quel punto nero non si scorgevano né un pennacchio di fumo, che si sarebbe facilmente riconosciuto, né delle vele.

«Che cosa può essere?» si chiese O’Donnell, fissando con grande attenzione quella macchia nera che si trovava proprio sulla direzione dell’aerostato.

«Forse un cetaceo che dorme tranquillamente a fior d’acqua, o che è stato ucciso» disse l’ingegnere.

«Una balena qui, in questi climi caldi?»

«No, O’Donnell: le balene non abbandonano quasi mai i mari freddi: ma i capidogli si trovano dovunque, anche sotto l'equatore.»

«Vediamo» disse l’irlandese, prendendo il cannocchiale puntandolo in direzione della macchia nera.

Guardò per parecchi minuti con estrema attenzione, poi abbassò lo strumento. La più viva sorpresa era dipinta sul suo viso.

«Non è un cetaceo» disse.

«Che cosa è dunque?» chiese l'ingegnere.

«L’avanzo di un disastro marittimo, Mister Kelly.»

«Un rottame?»

«Sì, una nave senz’alberi, coricata sul tribordo e senza equipaggio.»

«Un veliero.»

«Senza dubbio perché non scorgo la ciminiera della macchina.»

«Sarà stato abbandonato dal suo equipaggio.»

«Abbandonato! No, Mister Kelly.»

«Come lo sapete?»

«Ho veduto sospese alle gru di babordo e di tribordo quattro imbarcazioni.»

«È impossibile, O’Donnell!»

«Guardate, Mister Kelly.»

L’ingegnere prese a sua volta il cannocchiale e guardò.

«Avete ragione» disse poi. «Le scialuppe sono a posto.»

«Che l’equipaggio si sia salvato su di una zattera?»

«Avrebbe portato con sé anche le imbarcazioni, che sono sempre preferibili a una zattera che veleggia male e che una tempesta può facilmente sfasciare.»

«Che l’equipaggio sia stato raccolto da qualche nave?»

«Potrebbe essere; ma perché la nave salvatrice avrebbe lasciato le imbarcazioni, che hanno un certo valore?»

«Sarei curioso di chiarire questo mistero, Mister Kelly.»

«Lo chiariremo, O’Donnell. Il vento ci spinge proprio diritti su quella nave, e prima di sera noi l’abborderemo.»

«Purché il vento non cambi.»

«Sono deciso ad abbassarmi ed a gettare le mie àncore. Forse su quella nave possiamo trovare dell’acqua e riempire i nostri barilotti, che si stanno svuotando con una rapidità che mi spaventa. È molto se ne abbiamo centocinquanta litri.»

«In trenta ore il sole ci ha assorbito più di quaranta litri!» esclamò O’Donnell. «Se questa calma ci tiene imprigionati quattro o cinque giorni ancora, noi saremo alle prese con la sete.»

«Vedete che è necessario abbordare quella nave.»

«Se vi passeremo solamente vicini, io sono deciso a calarmi in acqua, Mister Kelly, e a rimorchiare il pallone.»

«Ed io a sacrificare un po’ d’idrogeno.»

Perdurando la calma, l’aerostato si avvicinava alla nave con estrema lentezza, essendovi appena appena un soffio d’aria, e non sempre continuo. Era molto se i due fusi percorrevano uno spazio di cinque o sei chilometri all’ora, mentre quel rottame si trovava lontano trenta e anche più.

A mezzodì anche quel leggerissimo alito di vento venne a mancare, e il Washington rimase immobile a ventidue o ventiquattro chilometri di distanza. Però verso le tre, quando il gran calore, che aveva raggiunto la spaventevole cifra di 42°, cominciò a scemare, s’alzò una brezza un po’ fresca, che lo spinse con la velocità di otto chilometri all’ora.

Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l’idrogeno. Alle quattro pomeridiane l’oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri.

A così breve distanza, con l’aiuto del cannocchiale, l’ingegnere e l’irlandese potevano scorgerla nettamente.

Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle.

Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta.

Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere.

«Che sia qualche animale?» chiese O'Donnell.

«Sarà forse un cane» rispose l'ingegnere.

«Abbandonato dell’equipaggio?»

«Certamente.»

«Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame.»

«Lo credo anch’io.»

Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa.

L’ingegnere fece attaccare l’ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d’acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l’aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo.

Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d’acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s’avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii.

«Attento all’àncora, O’Donnell» gridò l'ingegnere.

«Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni» rispose l’irlandese.

Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s’abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L’àncora, guidata dal braccio dell’irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo.

Il cane, un enorme molosso, s’avventò rabbioso verso l’àncora, emettendo minacciosi ululati.

«Diavolo!» esclamò O’Donnell. «Sarà un po’ difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly.»

«Lo uccideremo, O’Donnell. Ma...»

«Che cosa?»

«Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?»

«Per mille merluzzi! È odore di morti questo!» esclamò l’irlandese, impallidendo.

Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull’oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l’aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!

L’ingegnere e O’Donnell, entrambi in preda a grand’emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d’una tenebrosa voragine, ma invano.

«Gran Dio!» esclamò l’irlandese. «Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell’olandese maledetto, o la nave-feretro?»

«Siete coraggioso, O’Donnell?» chiese l’ingegnere.

«Lo credo» rispose l’irlandese.

«Allora seguitemi!»

«E Simone?»

«Rimarrà a guardia dell’aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire.»

«Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso.»

L’ingegnere si volse verso il negro e lo vide curvo sul bordo della scialuppa, con gli occhi fissi sulla nave; ma quegli occhi tradivano una paura orribile, e il volto era diventato grigio, cioè pallidissimo.

«Simone!» disse l’ingegnere.

Il negro non rispose e non abbandonò la sua posa. Pareva che cercasse d’indovinare la causa di quelle esalazioni pestifere, che salivano fino all’aerostato, a ondate.

«Simone,» ripetè «cosa fai?»

Questa volta il negro alzò il capo e guardò il padrone con due occhi smarriti.

«Dei morti?» chiese, battendo i denti. «Io paura.»

«Ma quali morti, pauroso?»

«Là! Là!» balbettò il negro, rabbrividendo e indicando il boccaporto. «È la nave dei morti!»

«Tu sogni, Simone»

«No» disse l’africano con strana energia.

«Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly» disse l’irlandese. «Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo.»

«Quale?»

«Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno.»

«Rimanete qui voi, O’Donnell. Scenderò io.»

«Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo.»

«Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d’aiuto mi raggiungerete.»

«Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l’aerostato ed esporvi a dei pericoli.»

Poi, prima che l’ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s’aggrappò alla fune e si lasciò scivolare.

«Badate al cane» gridò l’ingegnere.

«Ho la rivoltella» rispose O’Donnell.

Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti.

Giunto all’ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L’enorme molosso stava presso all’ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca.

«È idrofobo!» esclamò O’Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. «Bel guardiano a questa nave dei morti!»

Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave.

«È morto?» gli chiese l’ingegnere, dall’alto.

«Lo credo» rispose O’Donnell. «Se si rialza ho altri due colpi.»

Si lasciò andare e cadde sulla tolda.

«Corna di cervo!» esclamò. «Che profumi! Ma che cos’è accaduto qui? Che l’equipaggio si sia scannato?»

S’avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto.

Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione.

«Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni» mormorò.

Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz.

«È una nave messicana» gridò, volgendosi verso l’ingegnere, che lo guardava con ansietà.

«Vi sono dei morti?» chiese l’ingegnere.

«Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente.»

«Udite nessun rumore, nessun gemito?»

«Regna un silenzio di tomba, Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana.»

«Temo un grave pericolo, O’Donnell.»

«Bah! I morti non si muovono.»

«Ma avvelenano, uccidono.»

«Ho la pelle dura» rispose l’irlandese, che forse non aveva compreso l’allusione dell’ingegnere.

Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva.

La sua assenza fu breve. L’ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l’ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle.

«Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!» gridò con accento di terrore.

S’aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all’ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita:

«Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!»

«Ma che cosa avete veduto, O’Donnell?» chiese l’ingegnere. «Siete pallido e sconvolto.»

«Ho... che forse noi, che abbiamo respirato... quei miasmi,... siamo perduti.»

«È scoppiata una epidemia su quella nave?»

«Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!»

«Fuggiamo» ripeté l’ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido.

Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra.

L’aerostato, scaricato di quel peso, s’innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.