Attraverso l'Atlantico in pallone/Capitolo 13 - L'Atlantide
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo 12 - L’uragano | Capitolo 14 - Le calme tropicali | ► |
Capitolo 13
L’Atlantide
Il Washington, scaricato di quel peso considerevole, risaliva rapidamente verso le masse di vapori, che ingombravano la volta celeste. I muggiti dell’Atlantico, che il vento sollevava in enormi ondate, diventavano più fiochi via via che l’aerostato s’allontanava.
In pochi minuti gli aeronauti superarono la distanza che li separava dalle nubi e si trovarono avvolti, da un istante all’altro, fra una fitta nebbia carica di umidità, che pareva aprirsi a stento dinanzi all’aerostato. La temperatura scese bruscamente a 4° sopra zero, e un’oscurità intensa avvolse l’ingegnere, O’Donnell ed il negro.
Attraverso quei vapori, che dovevano avere uno spessore enorme, si vedevano di quando in quando guizzare dei rapidi bagliori che tosto scomparivano, e alcune fiammelle azzurre, i fuochi di Sant’Elmo, vennero a posarsi sui bordi della navicella ed a danzare sulle maglie della rete.
Simone, atterrito, emise un urlo acuto e balzò bruscamente in piedi con gli occhi smarriti, i capelli arruffati, il viso stravolto; ma O’Donnell gli si era messo a fianco e, afferratolo strettamente per le braccia, lo costrinse a sedersi.
«Non spaventarti, Simone» gli disse. «Attraversiamo le nubi, e quei fuochi non bruciano nessuno.»
L’aerostato in due minuti attraversò la massa di vapori e s’innalzò attraverso l’atmosfera pura, dove in alto scintillavano le stelle, e all’orizzonte brillava la luna, versando sugli aeronauti i suoi azzurrini raggi d’una dolcezza infinita.
Al disotto si vedevano le nubi accavallarsi confusamente sotto la spinta furiosa del vento, e nel loro seno guizzavano linee di fuoco. Di quando in quando dei tuoni formidabili irrompevano da quelle masse nebbiose e si propagavano con incredibile intensità attraverso le profondità incommensurabili della volta celeste.
Dell’oceano non vi era più traccia alcuna; anzi si sarebbe detto che la terra era scomparsa e che l’aerostato fosse uscito dalla sua orbita, per fuggire verso la luna.
In quelle alte regioni, il vento, non più frenato da alcun ostacolo, né contrariato da alcuna corrente, correva con velocità incredibile, trascinando con sé non più verso il sud-sud-est, ma verso l’est, spingendolo lungo il 32° parallelo.
«Finalmente» esclamò l’ingegnere. «Era tempo che il vento ci trascinasse verso l’oriente! Se si mantiene così in poche ore attraverseremo un grande tratto.»
«Con quale rapidità avanziamo?» chiese O’Donnell.
«Con la velocità delle grandi tempeste, cioè in ragione di novant’otto chilometri all’ora.»
«Altro che ferrovie!»
«Deve infuriare una tremenda tempesta sull’Atlantico» disse l’ingegnere.
«Compiango le navi che si trovano in pieno oceano, Mister Kelly.»
«Forse qualcuna non toccherà le sponde dell’Europa o dell’America.»
«Mentre noi non corriamo alcun pericolo.»
«Quassù, a 3500 metri d’altezza, no: ma se il nostro aerostato si fosse trovato esausto d’idrogeno e senza zavorra, nessuno di noi si sarebbe salvato. Udite che tuoni e guardate quante folgori solcano quelle nubi cariche di elettricità.»
«Il nostro Washington sarebbe stato fulminato.»
«Prima d’ogni altra cosa, O’Donnell. Essendo il più vicino alle nubi, avrebbe ricevuta le prime scariche.»
«Uccide sempre sul colpo la folgore, Mister Kelly?»
«No, O’Donnell: altre volte invece fa dei pessimi scherzi, ma che non sono mortali. Ora si limita a incenerire le vesti della persona senza recare alcun dolore: ora fonde o distrugge le monete, senza toccare il borsellino che la persona tiene in tasca, o scalza di colpo un viandante lasciandogli gli stivali. Si sono osservati in proposito, dei fenomeni bizzarri, inesplicabili. Si sono vedute delle persone uccise dal fulmine, ma che dopo colpite conservavano le carni fresche, come se fossero ancora vive: delle altre, invece, che le avevano completamente consumate.»
«Sono assai capricciosi i fulmini, Mister Kelly!»
«Molto, caro amico. Il signor Neal, per esempio, ha veduto un disgraziato, a cui un fulmine aveva consumato le mani fino alle ossa, lasciandogli intatti i guanti.»
«È strano!»
«Altri hanno veduto delle persone alle quali i fulmini avevano lacerato o distrutto le vesti senza offendere la pelle del corpo, ed altre, invece, che avevano la pelle bruciata e le vesti intatte. Howard, anzi asserisce d’aver veduto un contadino a cui un fulmine aveva scucito gli abiti e gli stivali, ma così bene che pareva opera d'un sarto o d’un calzolaio. Il dottor Gualtiero di Chaubry, invece, ebbe la barba rasa da un fulmine e non gli spuntò più.»
«Ci sono quindi dei fulmini barbieri!»
«Un altro fu privato interamente del pelo che cresceva sul corpo, e i peli furono trovati incrostati e aggrovigliati attorno ai suoi polpacci.»
«Quello era un fulmine rasoio di tempra eccezionale!»
«Sì, burlone; ma vi sono i fulmini incisori. Un soldato, toccato da un fulmine, ebbe riprodotte su di una coscia tre foglie, che non scomparvero più, e io so che una signora, in Svizzera, ebbe disegnato un fiore sulla gamba sinistra. Dei fenomeni bizzarri furono osservati durante il terribile ciclone che il 19 agosto 1870 rovinò la città di S. Claudio nel Giura. Gli alberi colpiti dalle folgori divennero rossi; moltissime serrature furono guastate, perfino negli appartamenti ben chiusi; numerose porte furono private delle loro ferramenta, ed entro case che non erano state colpite dalle scariche elettriche si trovarono delle chiavi contorte entro i cassetti, e perfino a dei mobili strappate tutte le viti.»
«Sono cose che spaventano, Mister Kelly.»
«Vi credo O’Donnell. Fortunatamente noi siamo fuori della portata delle folgori.»
Intanto l’uragano si scatenava con estrema violenza sotto l’aerostato.
Il vento sconvolgeva le nubi, che s’alzavano qua e là come un oceano in tempesta, si laceravano, si pigiavano, roteavano, ora bianche con riflessi di madreperla, ora rosse come se nel loro seno avvampasse un fuoco immenso, ora nere come se tutto d’un tratto si rovesciasse su di loro un mare d’inchiostro o di bitume. Sibili acuti, stridii prolungati, scrosci formidabili, ora secchi e brevi, ora interminabili, uscivano da quelle masse, che l’uragano trasportava sulle sue possenti ali, e tutti quei fragori si perdevano in alto e abbasso, formando un cupo rimbombo. Talvolta, quando quei tuoni tacevano, s’udiva sotto le nubi un lontano muggito: era l’oceano che prendeva parte a quella terribile gara degli elementi scatenati.
L’aerostato che si manteneva a 3600 metri, divorava lo spazio con fantastica rapidità, in balìa delle correnti aeree, quantunque sembrasse immobile o quasi. La corrente che prima lo spingeva verso l’est si era spezzata, forse a causa dell’incontro con un’altra che aveva diversa direzione, e deviava sovente, ora piegando verso il sud, ora riprendendo la direzione precedente.
I due immensi fusi subivano di tratto delle scosse, e quando il vento cambiava, s’inclinavano verso prua, imprimendo alla navicella delle brusche oscillazioni.
Nessuno osava dormire. La paura che l’aerostato s’abbassasse, per causa del condensamento dell’idrogeno o d’un strappo, e che entrasse fra quelli nubi tempestose e sature di elettricità, li teneva svegli. Infine Simone, malgrado quei tuoni, si assopì fra due casse. Ma il suo sonno era agitato: di quando in quando trabalzava, agitava pazzamente le braccia, apriva i grandi occhi e dalle sue labbra uscivano delle grida rauche che tradivano sempre un profondo terrore. Quel disgraziato, se non era pazzo, poco ci mancava: il suo cervello doveva aver riportato un perturbamento pericoloso, dopo l’incontro del polipo gigante.
Alle due del mattino, l’aerostato si trovò quasi improvvisamente sopra l’oceano. Le masse di vapore colà cessavano e pareva che sfuggissero per il sud, forse spinte da un’altra corrente aerea.
Per alcuni minuti si vide quell’immenso accatastamento di nubi ondeggiare fra cielo e mare, fra il balenare dei lampi, poi scomparve sul fosco orizzonte. I fragori cessarono rapidamente, si udì ancora come un lontano rullìo, poi i muggiti dell’oceano soffocarono la voce dell’elettricità.
Giù, in fondo, si vedeva confusamente l’Atlantico, che i pallidi raggi dell’astro notturno illuminavano. Appariva come un immenso velo d’una tinta indefinibile, fra l’azzurro cupo e il marrone, sbattuto, agitato da poderosi colpi di vento. A intervalli si scorgevano degli spazi, delle linee biancastre che si muovevano rapidamente e che subito scomparivano. Doveva essere la spuma che incoronava enormi ondate.
O’Donnell, che osservava tutto, additò all’ingegnere una nave che fuggiva verso il sud, con la velatura ridotta. La si vedeva salire faticosamente gli enormi cavalloni, sprofondare negli avvallamenti, rimontare, poi discendere e quasi scomparire fra la spuma. Per alcuni istanti si scorsero i suoi fanali di posizione, che brillavano come due punti luminosi, uno rosso e l’altro verde, poi più nulla.
L’aerostato, spinto dal vento, che aveva ora un impulso di ottanta chilometri all’ora, s’allontanava, lasciando indietro tutto. Nessuna nave, nessun incrociatore, dotato delle più potenti macchine poteva gareggiare con esso.
Alle tre l’irlandese, che si ostinava a rimanere sveglio quantunque ogni pericolo fosse ormai cessato, essendo il cielo purissimo, sgombro d’ogni nube, segnalò un vivo chiarore che appariva sull’oceano, verso il nord-est.
«Un’isola forse?» chiese all’ingegnere, che aveva afferrato un cannocchiale.
«Una terra qui? È impossibile, O’Donnell» rispose Kelly.
«Le Azzorre non sono sulla nostra rotta?»
«No: sono più al nord, e poi sono ancora assai lontane.»
«Possono essere le Canarie, Mister Kelly?»
«Nemmeno, O’Donnell. Sono più lontane delle Azzorre.»
«Possono essere quelle del Capo Verde.»
«Malgrado la nostra rapida corsa, devono distare ancora di qualche migliaio e più di miglia; e poi credo che l’uragano ci abbia spinti verso il sud.»
«Ma qual cosa supponete che sia dunque?»
«La distanza è troppa e l’oscurità fitta, per discernere qualche cosa; ma io temo che sia un incendio.»
«Un incendio!? Dove?»
«Forse di una nave.»
«Per San Patrick! Una nave che brucia in mezzo all’uragano! Quale terribile situazione per l’equipaggio!»
«Potrebbe pur essere qualche vulcano, O’Donnell.»
«Un vulcano in mezzo all’Atlantico! Che cosa dite, Mister Kelly?»
«E perché no, amico mio?»
«Se dite che siamo lontani da tutte le isole, dove volete che posi questo vulcano? Sulle onde forse?»
«Sul fondo dell’oceano.»
«Ma, che io sappia, nessun vulcano fu segnalato in mezzo all’Atlantico.»
«Ebbene, che importa? Non può essere sorto da un momento all’altro, forse in questa notte? Credete voi che il fondo dell’Atlantico sia tranquillo? No, O’Donnell: s’agita sovente là sotto la spinta dei fuochi interni, subisce talora delle modificazioni, s’alza o s’abbassa, e nel 1811 formò perfino un’isola vulcanica nei pressi delle Azzorre, al largo di San Michele.»
«Un’isola!»
«Sì, quella chiamata Sabrina, che si elevò sull’oceano per trecento metri, ma che poi fu demolita dai flutti. Un’altra pure ne emerse in quei paraggi dopo una abbondante eruzione di vapori, di fumo e di fuoco, durante un terremoto; ma subito scomparve.»
«Vi sono quindi delle isole vulcaniche in quest’oceano?»
«Forse che le Azzorre, le Canarie, Ascensione, S. Elena e Tristan da Cunha non sono di origine vulcanica?»
«Anche le Bermude?»
«No, O’Donnell: quelle sono state formate dai coralli.»
«Se, come mi dite, il fondo dell’Atlantico subisce delle modificazioni e s’agita, si può prestare fede agli antichi scrittori circa la scomparsa dell’Atlantide.»
«E perché no?»
«Ma credete che sia realmente esistito quel continente? E, prima di tutto, che cos’era quest’Atlantide di cui ho udito vagamente parlare?»
«Un’isola immensa, grande, secondo gli antichi, come la Libia e l’Asia minore riunite, e che si estendeva al di qua delle Colonne d’Ercole, ossia dello Stretto di Gibilterra, e che altre isole minori congiungevano ad un continente.
Tutti gli scrittori antichi ne fanno parola, e ciò fa supporre che sia realmente esistita o che esista tutt’ora.»
«Che esista? Dove mai, Mister Kelly?»
«Ve lo dirò poi. Omero nella sua Odissea l’accenna; Esiodo nella sua Teogonia, Euripide nei suoi drammi, Solone nella grande epopea da lui ideata, Platone, Strabone e anche Plinio ne parlarono.
Sembra che gli Atlantidi giungessero nel Mediterraneo, spinti dal desiderio di altre conquiste e che cercassero di sottoporre al loro dominio la Grecia; ma sarebbero stati respinti dai primitivi Ateniesi. Avrebbero però invaso parte del Mediterraneo, l’Egitto, l’Africa settentrionale e le coste della Tirrenia, ossia dell’attuale Italia e alcune parti dell’opposto continente.
Si dice che in quella grande occasione regnasse una potente schiatta di re e che numerose tribù la occupassero. In una certa epoca, però, dopo violenti terremoti e diluvi, l’isola sarebbe stata inghiottita con tutti i suoi abitanti. Anche i cartaginesi fanno menzione di un’isola deliziosa: anzi avevano deciso di andare ad occuparla, nel caso che un disastro avesse distrutto la loro repubblica.»
«Ma in quale modo venne inghiottita?»
«Si sono date diverse spiegazioni. Alcuni credono a causa di un tremendo terremoto; altri, fra i quali Bory de Saint-Vincent e Mantelle, due eminenti scienziati, credono che sia stata subissata dall’irrompere nell’oceano delle acque di un grande lago salato dell'Africa, forse quello del Sahara, che sembrerebbe il letto d’un antico mare.
Io però la penso diversamente, O’Donnell; e credo che l’Atlantide esista ancora. Sarà o sembrerà una enormità, ma io ritengo che gli antichi fossero, in fatto di cognizioni geografiche, ben più innanzi degli europei del 1400 e anche del 1500. Si dice che quell'isola si estendeva al di là delle Colonne d’Ercole e che numerose altre isole più piccole la univano ad un continente. Ebbene, gettate uno sguardo sulla carta del nostro globo. Che cosa vedete all’occidente dell’Europa?»
«L’America» disse O’Donnell, che prestava grande attenzione alle parole dell’ingegnere.
«E dopo, l’America?»
«Ma possibile!»
«Aspettate: che cosa vedete?»
«Le innumerevoli isole dell’Oceano Pacifico?»
«E poi?»
«Il grande continente asiatico-europeo!» esclamò O’Donnell.
«Io dunque concludo che l’Atlantide degli antichi era l’attuale America, che le isole che la univano all’opposto continente sono quelle dell’Oceano Pacifico e che quell’opposto continente è quello asiatico-europeo, il solo che gli antichi greci potevano conoscere.»
«Dunque gli antichi conoscevano la rotondità del globo.»
«Sì, O’Donnell: io ne sono convinto e affermo che essi conoscevano la nostra Terra meglio che gli europei del 1400.»
«Ma quei terremoti e quei diluvi, quelle terre subissate?»
«Quei terremoti, quel grande cataclisma può essere avvenuto, può avere inghiottito qualche isola, come può, invece, aver fatto sorgere le Azzorre e le Canarie, che sono, come ho già detto, d’origine vulcanica. Chissà? Forse gli antichi navigatori, spaventati da quel cataclisma, non ardirono più avventurarsi sull’Atlantico, e l’America rientrò nel buio e fu dimenticata fino all’epoca in cui Colombo e Caboto e via via gli altri grandi navigatori la fecero ancora conoscere alle popolazioni europee.»