Libro terzo - Capitolo XIV
Tuttavia io non voglio, Lavinello, ragionar teco e disputare così sottilmente come per aventura farei tra filosofi e nelle schuole. E sia per me, se così a te piace, amore e disidero quello stesso. Ma io sapere da te vorrei, poscia che tu questa notte detto m’hai che amore può essere e buono e reo, secondo la qualità de gli obbietti e il fine che gli è dato, perché è che gli amanti alle volte s’appigliano ad obbietti malvagi e cattivi. Non è egli per ciò, che essi nello amare più il senso seguono che la ragione? -.
- Non per altro, che io mi creda, - risposi - Padre, che per cotesto -.
- Ora se io ti dimanderò allo ’ncontro - seguitò il santo uomo - perché aviene che gli amanti eziandio s’invogliano de gli obbietti convenevoli e sani, non mi risponderai tu ciò avenire per questo, che essi, amando, quello che la ragione detta loro più seguono, che quello che il senso pon loro innanzi? -.
- Così vi risponderò, - dissi io - e non altramente -.
- È adunque - diss’egli - ne gli uomini il seguir la ragione più che il senso, buono, e allo ’ncontro il seguire il senso più che la ragione, reo -.
- È - dissi io - senza fallo alcuno -.
- Ora mi di’, - riprese egli - che cagione fa che ne gli uomini seguire il senso più che la ragione sia reo? -.
- Fallo - risposi - ciò, che essi la cosa migliore abandonano, che è la ragione, e essa lasciano, che appunto è la loro, là dove alla men buona s’appigliano, che è il senso, e esso seguono, che non è il loro -.
- Che la ragione miglior cosa non sia che il senso, io - diss’egli - non ti niego, ma come di’ tu che il senso non è il loro? non è egli de gli uomini il sentire? -.
- A quello che io avedere me ne possa, Padre, voi ora mi tentate, - risposi - ma io nondimeno v’ubidirò -; e dissi: - Sì come nelle scale sono gradi, de’ quali il primiero e più basso niuno n’ha sotto sé, ma il secondo ha il primo e il terzo ha l’uno e l’altro e il quarto tutti e tre, così nelle cose che Dio create ha infino alla spezie de gli uomini, dalla più vile incominciando, essere si vede avenuto. Perciò che sono alcune che altro che l’essere semplice non hanno, sì come sono le pietre e questo morto legno, che noi ora sedendo premiamo. Altre hanno l’essere e il vivere, sì come sono tutte le erbe, tutte le piante. Altre hanno l’essere e la vita e il senso, sì come hanno le fiere. Altre poi sono, che hanno l’essere e la vita e il senso e la ragione, e questi siam noi. Ma perciò che quella cosa più si dice esser di ciascuno, che altri meno ha, come che l’essere e il vivere sieno parimente delle piante, non si dice tuttavia se non che il vivere è il loro, perciò che l’essere delle pietre è e di molte altre cose parimente, delle quali non è poi la vita. E quantunque l’essere e il vivere e il sentire sieno delle fiere, come io dissi, medesimamente ciascuno, non pertanto il sentire solamente si dice essere il loro, perciò che il vivere esse hanno in comune con le piante e l’essere hanno in comune con le piante e con le pietre, delle quali non è il sentire. Simigliantemente perché l’essere e il vivere e il senso e la ragione sieno in noi, dire per questo non si può che l’essere sia il nostro o il vivere o il sentire, che sono dalle tre maniere, che io dico, avute medesimamente e non pur da noi, ma dicesi che è la ragione, di cui le tre guise delle create cose sotto noi non hanno parte -.
- Se così è, - disse allora il santo uomo - che la ragione sia de gli uomini e il senso delle fiere, perciò che dubbio non è che la ragione più perfetta cosa non sia che il senso, quelli che amando la ragione seguono, ne’ loro amori la cosa più perfetta seguendo, fanno in tanto come uomini, e quelli che seguono il senso, dietro alla meno perfetta mettendosi, fanno come fiere -.
- Così non fosse egli da questo canto, - risposi io - Padre, vero cotesto che voi dite, come egli è -.
- Adunque possiamo noi la miglior parte nello amare abandonando, - diss’egli - che è la nostra, alla men buona appigliarci, che è l’altrui? -.
- Possiamo - rispos’io - per certo -.
- Ma perché è - diss’egli - che noi questo possiamo? -.
- Perciò che la nostra volontà, - risposi - con la quale ciò si fa o non fa, è libera e di nostro arbitrio, come io dissi, e non stretta o, più a questo che a quello seguire, necessitata -.
- Ora le fiere - seguitò egli - possono elleno ciò altresì fare, che la miglior parte e quella che è la loro abandonino e a dietro lascino giamai? -.
- Io direi che esse abandonare non la possono, - risposi - se non sono da istrano accidente violentate. Perciò che ad esse volontà libera non è data, ma solo appetito, il quale, dalla forma delle cose istrane con lo strumento delle sentimenta invitato, sempre dietro al senso si gira. Perciò che il cavallo, quandunque volta a bere ne lo ’nvita il gusto, veduta l’acqua, egli vi va e a bere si china, dove, la briglia ritraendo, non gliele vieti colui che gli è sopra -.