Libro terzo - Capitolo VI
Ma non credere tuttavia, Gismondo, perciò che io così parlo, che io per aventura stimi buono essere lo amare nella guisa che tu ci hai ragionato. Io tanto sono da te, quanto tu dalla verità lontano, dalla quale ti discosti ogni volta che fuori de’ termini de’ duo primi sentimenti e del pensiero ti lasci dal tuo disiderio traportare, e di loro amando non stai contento. Perciò che è verissima openione, a noi dalle più approvate schuole de gli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio. La qual bellezza che cosa è se tu con tanta diligenza per lo adietro avessi d’intendere procacciato, con quanta ci hai le parti della tua bella donna voluto hieri dipignere sottilmente, né come fai ameresti tu già, né quello, che ti cerchi amando, aresti a gli altri lodato come hai. Perciò che ella non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza nasce e d’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e più vaghi, e è accidente ne gli uomini non meno dell’animo che del corpo. Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra tengono proporzione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto più sono di bellezza partecipi e l’uno e l’altro, quanto in loro è quella grazia, che io dico, delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e più piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, e d’animo parimente e di corpo, e a lei, sì come a suo vero obbietto, batte e stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre ha: l’una, che a quella dell’animo lo manda, e questa è l’udire; l’altra, che a quella del corpo lo porta, e questa è il vedere. Perciò che sì come per le forme, che a gli occhi si manifestano, quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli orecchi ricevono, quanta quella dell’animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare dalla natura dato, che perché esso fosse tra noi de’ nostri animi segno e dimostramento. Ma perciò che il passare a’ loro obbietti per queste vie la fortuna e il caso sovente a’ nostri disiderii tôr possono, da loro, sì come spesso aviene, lontanandoci, ché, come tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l’occhio né l’orecchio non si stende, quella medesima natura, che i due sentimenti dati n’avea, ci diede parimente il pensiero, col quale potessimo al godimento delle une bellezze e delle altre, quandunque a noi piacesse, pervenire. Con ciò sia cosa che, sì come ci ragionasti tu hieri lungamente, e le bellezze del corpo e quelle dell’animo ci si rappresentano col pensarvi, e pìgliassene, ogni volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come alle bellezze dell’animo aggiugnere né fiutando, né toccando, né gustando non si può, così non si può né più né meno eziandio a quelle del corpo, perciò che questi sentimenti tra le siepi di più materiali obbietti si rinchiudono, che non fanno quegli altri. Che perché tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra quest’erbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è odorante, quale fiatoso, quale amaro, quale dolce, quale aspero, quale morbido, ma che bellezza sia la loro, se tu non gli mirassi altresì, mica non potresti tu conoscere, più di quello che potesse conoscere un cieco la bellezza d’una dipinta imagine, che davanti recata gli fosse. Per che se il buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, e se alla bellezza altro di noi e delle nostre sentimenta non ci scorge che l’occhio e l’orecchio e il pensiero, tutto quello che è da gli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori di ciò che per sostegno della vita si procaccia, non è buono amore, ma è malvagio; e tu in questa parte amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose. Perciò che sozzo e laido è l’andare di que’ diletti cercando, che in straniera balìa dimorano e avere non si possono senza occupazione dell’altrui e sono in se stessi e disagevoli e nocenti e terrestri e limacciosi, potendo tu di quelli avere, il godere de’ quali nella nostra potestà giace e godendone nulla s’occupa, che alcuno tenga proprio suo, e ciascuno è in sé agevole, innocente, spiritale, puro. Questi bastava che tu hieri ci avessi lodati, o Gismondo, questi potrai tu ad ogni tempo con le prose e con le rime inalzare, ché sopra il convenevole senza fallo alcuno essi giamai non saranno inalzati. Di quegli altri se tu pure ragionar ci volevi, biasimandogli a tuo potere e avallandogli dovevi tu farlo, che il buono amore aresti lodato acconciamente in questa guisa, dove tu l’hai sconciamente in quella maniera vituperato. Il quale, perciò che grande idio si dice essere, io ti conforterei, Gismondo, che tu ora il contrario facessi in amenda del tuo errore, di quello che fe’ già Stesicoro ne gli antichi tempi in amenda del suo; perciò che, avendo egli co’ suoi versi la greca Helena vituperata, e fatto per questo cieco, da capo in sua loda ricantandone, tornò sano; così tu oggi contrariamente tanto di loro ci rifavellassi disprezzandogli, quanto tu hieri ci hai apprezzandogli ragionato, e sì riaverai tu la luce del diritto giudicio, che hai perduta. -