Sì rubella d’Amor, né sì fugace
Non presse erba col piede,
Né mosse fronda mai Ninfa con mano,
Né trezza di fin oro aperse al vento,
Né ’n drappo schietto care membra accolse
Donna sì vaga e bella, come questa
Dolce nemica mia.
Quel che nel mondo, e più ch’altro mi spiace,
Rade volte si vede,
Fanno in costei, pur sovra ’l corso humano,
Bellezza e castità dolce concento.
L’una mi prese il cor come Amor volse,
L’altra l’impiaga, sì leggiera e presta,
Ch’ei la sua doglia oblia.
Sola in disparte, ov’ogni oltraggio ha pace,
Rosa o giglio non siede,
Che l’alma non gli assembri a mano a mano,
Avezza nel desio ch’i’ serro drento,
Quel vago fior, cui par uom mai non colse.
Così l’appaga e parte la molesta
Secura leggiadria.
Caro armellin, ch’innocente si giace,
Vedendo, al cor mi riede
Quella del suo penser gentile e strano
Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:
Sì novamente me da me disciolse
La vera maga mia che, di rubesta,
Cangia ogni voglia in pia.
Bel fiume, alor ch’ogni ghiaccio si sface,
Tanta falda non diede,
Quanta spande dal ciglio altero e piano
Dolcezza, che pò far altrui contento;
E sé dal dritto corso unqua non tolse.
Né mai s’inlaga mar senza tempesta,
Che sì tranquillo sia.
Come si spegne poco accesa face,
Se gran vento la fiede,
Similemente ogni piacer men sano
Vaghezza in lei sol d’onestate ha spento.
O fortunato il velo, in cui s’avolse
L’anima saga e lei, ch’ogni altra vesta
Men le si convenia.
Questa vita per altro a me non piace,
Che per lei, sua mercede,
Per cui sola dal vulgo m’allontano;
Ch’avezza l’alma a gir là ’v’io la sento,
Sì ch’ella altrove mai orma non volse;
E più s’invaga, quanto men s’arresta
Per la solinga via.
Dolce destin, che così gir la face,
Dolci del mio cor prede,
Ch’altrui sì presso, a me ’l fan sì lontano;
Asprezza dolce e mio dolce tormento,
Dolce miracol, che veder non suolse,
Dolce ogni piaga, che per voi mi resta
Beata compagnia.
Quanto Amor vaga, par beltate onesta
Né fu giamai, né fia.