Libro primo - Capitolo XI
Taceva da queste parole soprapresa madonna Berenice e sopra esse pensava, quando Gismondo sogghignando così disse: - Senza fallo assai agevolmente aresti tu oggi stemperata ogni dolcezza d’amore con l’amaro d’un tuo solo argomento, Perottino, se egli ti fosse conceduto. Ma perciò che a me altramente ne pare, quando più tempo mi fie dato da risponderti, meglio si vedrà se cotesta tua cotanta amaritudine si potrà raddolcire. Ora insegnaci quanto quell’altra proposta sia vera, dove tu di’ che amare senza amaro non si puote.
- Quivi ne veniva io testé - rispose Perottino - e di quello che io mi credo che ciascun di noi tuttavia in se stesso pruovi, ragionando, potrei con assai brievi parole, Gismondo, dimostrarloti. Ma poscia che tu pure a questi ragionamenti mi traesti, a me piace che più stesamente ne cerchiamo. Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbazioni dell’animo niuna è così noievole, così grave, niuna così forzevole e violenta, niuna che così ci commuova e giri, come questa fa, che noi Amore chiamiamo; gli scrittori alcuna volta il chiaman fuoco, perciò che, sì come il fuoco le cose nelle quali egli entra egli le consuma, così noi consuma e distrugge Amore; alcuna volta furore, volendo rassomigliar l’amante a quelli che stati sono dalle Furie sollecitati, sì come d’Horeste e d’Aiace e d’alcuni altri si scrive. E perciò che per lunga sperienza si sono aveduti niuna essere più certa infelicità e miseria che amare, di questi due sopranomi, sì come di proprie possessioni, hanno la vita de gli amanti privilegiata, per modo che in ogni libro, in ogni foglio misero amante, infelice amante e si legge e si scrive. Senza fallo esso Amore niuno è che piacevole il chiami, niun dolce, niuno humano il nomò giamai: di crudele, d’acerbo, di fiero, tutte le carte son piene. Leggete d’Amore quanto da mille se ne scrive: poco o niente altro in ciascun troverete che dolore. Sospirano i versi in alcuno; piangono di molti i libri interi; le rime, gl’inchiostri, le carte, i volumi stessi son fuoco. Sospizioni, ingiurie, nimicizie, guerre già in ogni canzone si raccontano, nella quale d’amor si ragioni; e sono questi in amore mediocri dolori. Disperazioni, rubellioni, vendette, catene, ferite, morti, chi può con l’animo non tristo o ancora con gli occhi asciutti trappassare? Né pur di loro le lievi e divolgate favole solamente de’ poeti, o ancora quelle che, per essempio della vita, scritte da loro state sono più giovevolmente, ma eziandio le più gravi historie e gli annali più riposti ne son macchiati. Che per tacere de gl’infelici amori di Piramo e di Tisbe, delle sfrenate e illecite fiamme di Mirra e di Bibli e del colpevole e lungo error di Medea e di tutti i loro dolorosissimi fini, i quali, posto che non fosser veri, sì furono essi almeno favoleggiati da gli antichi per insegnarci che tali possono esser quelli de’ veri amori; già di Paolo e di Francesca non si dubita che nel mezzo de’ loro disii d’una medesima morte e d’un solo ferro amendue, sì come d’un solo amore traffitti, non cadessero. Né di Tarquinio altresì fingono gli scrittori, al quale fu l’amore, che di Lucrezia il prese, e della privazion del regno e dell’essiglio insieme e della sua morte cagione. Né è chi per vero non tenga che le faville d’un Troiano e d’una Greca tutta l’Asia e tutta l’Europa raccendessero. Taccio mille altri essempi somiglianti, che ciascuna di voi può e nelle nuove e nelle vecchie scritture aver letti molte fiate. Per la qual cosa manifestamente si vede Amore essere non solamente di sospiri e di lagrime, né pur di morti particolari, ma eziandio di ruine d’antichi seggi e di potentissime città e delle provincie istesse cagione. Cotali sono le costui operazioni, o donne, cotali memorie egli di sé ha lasciato, affine che ne ragioni chiunque ne scrive. Vedi tu dunque, Gismondo, se vorrai dimostrarci che Amore sia buono, che non ti sia di mestiero mille antichi e moderni scrittori, che di lui come di cosa rea parlano, ripigliare. -