Aridosia/Atto secondo/Scena prima
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Lorenzino de' Medici - Aridosia (1536)
Atto secondo
Scena prima
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Cesare giovane, Lucido servo
- Cesare
- E’ non è cosa al mondo, che dalla sorte proceda, della qual gli uomini si possin più dolere, che quella che dà suoi beni a chi non gli merita, come dir ricchezze, figliuoli, sanità, bellezze e simil cose; imperocchè prima la offende quelli che gli meritano, e in caso che ancor a lor ne dia, il paragon non gli lassa lor parer buoni; e così gli uomini, veggendo che da tristi a buoni la fortuna non fa differenza, non si curano di coltivar e levar l’animo loro, ma inclinati dove naturalmente il suo uso gli tira, cioè al male, si precipitano, onde accade che pochi se ne trova dei buoni, e assai dei tristi; e di qui si mettono gli stolti a negare la provvidenza e giustizia insieme, non comporterebbe mai, che certi, che ne son indegni, abbondassin di tanti beni, e certi altri, che meritano, gli mancasse. E bench’io ne era altramente risoluto, questa essere falsissima opinione, niente di manco quando io considero quel mostro d’Aridosio, di quanti beni egli abbonda, al qual di buona ragione avean a mancare tutti, non posso far non dubiti, o almanco non mi doglia, tornandomi questo in mio pregiudizio, che egli è ricchissimo, e io no, e ha due figliuoli, che son giovani molto da bene, e ha una figliuola, se l’amor non m’inganna, ch’è la più bella, la più gentile, non dico di Firenze, ma di tutta Italia: dall’altro canto, qual egli sia, se nol sapete, lo intenderete. Egli avaro, invidioso, ipocrito, superbo, dappoco, bugiardo, ladro, senza fede, senza vergogna, senza amore, e insomma è un mostro ingenerato da’ vizj e dalla sciocchezza; la mia sorte ha voluto ch’io abbia ad esser sottoposto a tanto male, nè mi manchi, perchè quattro anni sono ch’io incominciai a voler bene a Cassandra sua figliuola, non pensando però che questo nostro amore avesse ad avere sì tristo effetto; ma andando crescendo, come fanno tutti gli amori ben collocati, mi condusse a tal grado, che poco più accender mi potrà di quel ch’io era, rendendomi pur ella del continuo il cambio, nè altro far poteva mò che scriver talvolta l’uno all’altro qualche lettera, pur con molto rispetto; essendo venuto a termine, che viver più senza lei non poteva, nè trovando via più facile a soddisfare il desiderio mio, pensai di addimandarla per moglie, e conferito la cosa con mio padre, lodò il parentado per ogni altro conto, che per il suocero; ma considerando la voglia ch’io n’avea, e l’altre tutte buone parti, deliberò farne parlare a persone d’autorità con Aridosio, pensando che la cosa dovesse aver effetto; perchè era giudicato così da ogni uomo; e così trovato, pur con fatica, chi volesse negoziare tal cosa, e parlato seco, s’ebbe risposta, che il parentado gli piaceva: ma che era povero, e che non aveva il modo a dar una dote conveniente alla sua figliuola: e a me, questa che in sul principio mi pareva buona, mi diventò col tempo cattivissima infra le mani, perchè io cerco lei, e non la dote, e lei ignuda, non che senza dote, mi bastava: ma mio padre mi comandò, che senza mille ducati d’oro mai concludessi il parentado, o facessi conto di non capitarli più innanzi: ond’io per paura di lui fui forzato a chinar le spalle, e a cercar nuove vie, perchè a farli dar mille ducati era tanto possibile, quanto a farlo diventar uomo da bene: e così ritrovando altri modi, lo feci, credo, insospettire, e forse anche per far più masserizia, il buon uomo se n’andò in villa, e evvi già stato più d’un anno, dove mal contenta tien quella povera figliuola, credo a zappar la terra, che meriterebbe esser regina.
- Lucido
- Io sarò qui adesso.
- Cesare
- La qual oggi mai, per la miseria di suo padre, fornirà inutilmente la sua gioventù.
- Lucido
- Chi è questo, che così si scandalezza?
- Cesare
- Costui m’avrà udito.
- Lucido
- Ah! Ah! egli è il guasto di Cassandra; tu stai fresco.
- Cesare
- O Lucido, quant’è che sei qui?
- Lucido
- È un pezzo, e ho inteso quel che tu hai parlato.
- Cesare
- S’io non avessi voluto, che si fosse inteso, non l’avrei detto.
- Lucido
- Io mi burlo teco; adesso vengo: ma i ragionamenti dei giovani innamorati vanno in istampa, e perch’io ne avea sentiti degli altri, che come te innamorati erano, mi parea con verità poter dire d’aver sentito anco i tuoi.
- Cesare
- I miei, Lucido, pur escono di stampa, perchè i miei mali sono estraordinari.
- Lucido
- Oh così dicon tutti, ma ei mi sa male di non aver tempo da badar teco, perch’io t’ho da dir cosa molto al proposito, e se tu m’aspetti qui, te la dirò, e starò poco.
- Cesare
- Aspetterò mill’anni, se m’hai da dir cosa di buono.
- Lucido
- Lo intenderai, e adesso torno a te.
- Cesare
- Che diamine può esser questo che Lucido dir mi vuole? Cosa appartenente a Cassandra bisogna che sia; perchè sa bene, ch’altro amore non ho che il suo, e anche cosa che importa debb’essere, chè non mi farebbe aspettar qui indarno; ma, matto ch’io sono, anche mi vo appiccando, quasi com’io non sapessi, quali sieno le novelle dei servi: trovano certi lor arzigogoli sofistici, che hanno apparenza di veri, e poi non reggono al martello; ma l’udirlo, che mi nuoce? sempre è buono ascoltare assai pareri, quando in te è rimessa la elezione. Ecco ch’egli è ritornato molto presto, e tutto sottosopra, secondo che mi pare al volto.
- Lucido
- Guarda, s’io sapea, come la cosa avea ad andare? Oh povero Tiberio, ti converrà pensare ad altro che il trastullarti con Livia.
- Cesare
- Tu sei tornato sì presto!
- Lucido
- Non è tanto presto, che non bisognasse più; io ti fo intendere, che Aridosio è in Firenze.
- Cesare
- Volevi tu dir altro che questo?
- Lucido
- Sì, ma ho più fretta adesso che dianzi.
- Cesare
- Tu hai molte gran faccende?
- Lucido
- Tiberio, oh Tiberio, oh Erminio, uscite un po’ qua.
- Cesare
- Che fretta è questa? mi voglio tirar in questo canto, e star a vedere che cosa ella è.