Antropologia/VII
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Caratteri intellettuali. — L’intelligenza è sviluppata negli uomini in grado assai diverso. Nei selvaggi, come nei popoli antichissimi, essa è in uno stato latente. Un esimio osservatore, parlando dei Boschimani, osserva che «questi individui non hanno mai mostrato se sono o no capaci di riflettere». Un viaggiatore descrive i Tasmaniani come particolarmente distinti «per una totale mancanza di idee». I Fuegiani non hanno termini astratti. Fra i Coroado (Brasile) si cercano invano i vocaboli che esprimono le idee astratte di pianta, animale, ecc. Gli Indiani del Brasile non contano al di là di due. Nessun Australiano può contare fino a quattro; il termine che esprime cinque significa semplicemente un numero grande. I Dammara non contano al di là di tre; quando vogliono esprimere quattro, fanno uso delle dita, e se debbono contare oltre cinque si smarriscono, perchè allora non hanno più una mano libera per tener ferme le dita che servono come unità. Gli Indiani Zamuca e Muysca per cinque dicono mano finita.
Nè i selvaggi antichi furono più intelligenti degli odierni, poichè sappiamo che vivevano nelle caverne; possedevano utensili di pietra o di osso o di corno di cervo, ma non conoscevano i metalli; e non avevano alcuna scrittura, nemmeno geroglifica.
D’altra parte anche gli animali compiono degli atti che non possono considerarsi come istintivi. Huber padre constatò che nel 1806 la sfinge testa di morto abbondava, e che, ghiotta di miele, entrava nelle arnie e rompeva i favi, traendo dappertutto il suo corpo che è assai più grande di quello delle api. Queste, spaventate, non sapevano che fare, non essendosi mai trovato in faccia ad un tale nemico. Dopo molte esitazioni, ecco quello che fecero. Un forte bastione di cera si elevò all’entrata di tutte le arnie del paese; un piccolo foro non lasciava passare che un’ape alla volta, e le sfingi, sprovviste di organi taglienti, volavano fremendo contro l’ostacolo che non potevano vincere.
Un naturalista, per impedire alle formiche l’accesso sopra un albero carico di frutta, ne avea circondato il tronco, ad una certa altezza, con del vischio. Molte formiche vi perirono, ed altre dovettero retrocedere appena giunte a quella zona di vischio. Ma un giorno egli vide le formiche incamminarsi in grande numero verso quell’ostacolo, ciascuna con una bricciola di terra in bocca, e deporre questa bricciola sul vischio. Non andò a lungo, e le formiche oltrepassavano l’ostacolo impunemente sopra i sentieri di terra così costruiti.
Fra gli animali più elevati, le scimie adoperano clave, e scagliano bastoni, frutti spinosi e pietre contro i loro nemici, ed impiegano pietre rotonde per rompere i gusci di noce. Lo schimpanzè si fabbrica una capanna o un riparo che non la cede guari a quello di certi selvaggi. L’intelligenza del cane è nota a tutti.
Ma quanta distanza non corre fra gli animali e gli uomini selvaggi da un lato, e gli uomini di alta coltura dall’altro lato! Quanta distanza fra la povertà di spirito dei primi e la potenza mentale di Giulio Cesare, Napoleone I e Giorgio Cuvier!
Alcuni uomini hanno dei talenti speciali e straordinarii, per esempio per l’aritmetica o per la meccanica o pel giuoco degli scacchi o per la musica o per le lingue; e simili talenti sono spesso già bene sviluppati in età precoce.
Linguaggio. — L’uomo può dirsi l’animale parlante, perchè egli solo ha una favella ben articolata e ricca di vocaboli. Giova peraltro osservare che il linguaggio dei selvaggi è molto semplice e povero. Così l’idioma dei Veddah nel Ceilan contiene solo quelle certe frasi che sono necessarie per descrivere gli oggetti naturali più evidenti, e quelli che s’incontrano nella vita giornaliera delle persone medesime. Il loro dialetto è tanto primitivo e rozzo che gli oggetti più comuni sono descritti, e le azioni della vita sono narrate colle più singolari perifrasi. Se noi misuriamo la distanza che passa fra l’uomo civile e gli animali in ordine al linguaggio, la troviamo di certo grandissima, ma è grande pure quella che separa un valente oratore da un selvaggio qualunque.
Nello studio antropologico dei popoli riesce utile tener conto dei caratteri offerti dal linguaggio, e quando vediamo due popoli concordare, oltre che nella fisica struttura, nel linguaggio, noi abbiamo la conferma della loro primitiva unità. A questo carattere peraltro non deve attribuirsi una importanza eccessiva, perchè sappiamo che nel corso dei secoli l’idioma si modifica e si trasforma, mentre invece l’organizzazione si cambia così lentamente che fu creduta immutabile.
Quando due razze vivono in un medesimo distretto e si mescolano insieme, il tipo fisico si altera in proporzione della intensità dell’incrocio; ma poi, nel corso delle generazioni, la razza incrociata suol ritornare ai caratteri della razza madre prevalente di numero. Non altrettanto avviene sempre delle due lingue, perchè può estinguersi quella della maggioranza e sopravvivere quella della minoranza. È quindi possibile che una razza perda il suo linguaggio, adottando quello di un’altra, e nondimeno rimanga inalterato il tipo fisico, come più volte è avvenuto nei tempi storici.
Quantunque la filologia non fornisca all’antropologo caratteri di prima importanza, tuttavia è utile nello studio storico delle razze. Si può perfino, colla scorta della filologia, tracciare, dopo molti secoli, le vie che un popolo ha percorso nelle sue migrazioni, ed indicare gli altri popoli, coi quali è venuto a contatto.
Qualche autore considera il linguaggio come l’unica base della classificazione dell’uomo, asserendo che le lingue durano più che gli scheletri. Questa è una esagerazione. Un Negro può imparare l’inglese in pochi mesi, e dimenticare la propria lingua in pochi anni; ma il suo cranio resta per moltissime generazioni quello di un Negro. I popoli del Nicaragua e dell’Ecuador sono quasi tutti mulatti; parlano essi forse mezzo negro e mezzo spagnuolo? E se ci volgiamo agli animali, noi sappiamo che la volpe abbaia come un cane, e che gli orsi di specie molte distinte muggiscono nello stesso modo. Sebbene dunque la lingua sia un importante elemento antropologico, non può tuttavia considerarsi come unica base di classificazione, senza falsare le leggi della eredità naturale.
Riguardo al linguaggio, è degno di menzione il fatto che presso alcuni popoli le donne parlano un idioma diverso da quello degli uomini; dicasi ciò di alcune stirpi americane e particolarmente di quelle che abitano le piccole Antille. Il Rochefort fu condotto alla supposizione che in un lontano passato i Caribi abbiano invaso le piccole Antille, vi abbiano uccisi tutti gli uomini e conservato le donne che rimasero fedeli alla loro lingua primitiva. Ma questa spiegazione è stata dimostrata erronea dallo Stolle, senza però che questo ne esponesse una migliore. Il fenomeno si ripete presso i Guyacurus ed altre stirpi del Brasile e secondo Erodoto, è avvenuto anticamente alcun che di simile presso gli Ionii. Del resto, anche presso di noi le donne hanno delle espressioni diverse da quelle degli uomini per designare cose e fatti che riguardano la loro vita sessuale.
Scrittura. — L’uomo solo conosce la scrittura, e non si può dubitare che il progresso rapido, compiuto dall’umanità, sia dovuto in parte a lei. Ma essa non è una qualità insita nell’organismo umano, è invece un’arte che ognuno deve imparare e che si è a grado a grado perfezionata. I popoli antichi non la conoscevano. Probabilmente nessuna razza di uomini dell’età della pietra sapeva comunicare i fatti nemmeno col più rozzo sistema di geroglifici; e quello che oggi sorprende maggiormente i selvaggi si è il vedere che gli Europei possono comunicare gli uni cogli altri mercè qualche linea nera tracciata sopra un pezzo di carta. I Minataru dell’America settentrionale vedendo Catlin leggere attentamente un giornale, non sapevano che pensarne, e conclusero finalmente ch’esso era un talismano per le malattie d’occhi, ed uno di loro lo comperò a caro prezzo. Questo uso della scrittura come medicamento è molto sparso in Africa, dove i preti e gli incantatori scrivono una preghiera sopra un pezzo di legno, lo lavano e ne fanno bere l’acqua al malato.
Per gli Africani occidentali un pezzo di carta che contiene della scrittura è causa di orrore. Il Buchholz mentre medicava un Negro gravemente malato perdette un pezzo di carta senza accorgersene; e quando più tardi volle visitare il malato, questi aveva mutato abitazione, perche l’anteriore, secondo lui, era stata stregata da quella carta.
Quanto sia incomprensibile a certi selvaggi la scrittura, lo prova il seguente aneddoto. Un missionario mandò un selvaggio ad uno de’ suoi colleghi per portargli alcuni pani e gli diede anche una lettera che indicava il numero di quei pani. Il messo mangiò una parte del pane, consegnò la lettera ed il suo furto venne per conseguenza scoperto. Un’altra volta fu incaricato di portare quattro pani, ne mangiò due, ma mentre lo faceva nascose sotto una pietra la lettera da consegnare, credendo che in tale modo il suo furto non sarebbe scoperto, perchè la lettera non lo aveva veduto mangiare i pani.
La scrittura non è sorta d’un tratto quale è oggi, ma si è lentamente perfezionata nel corso dei secoli. Presso alcuni popoli selvaggi e semiselvaggi noi la troviamo ancora oggi in uno stato primitivo. I primi segni, coi quali l’uomo manifestava ad altri le sue idee o veniva in aiuto alla propria memoria, erano affatto materiali, ad esempio pietre disposte in varie guise, od intagli degli alberi, o nodi in alcune parti del vestiario. Quest’ultimo modo s’è conservato fino a oggi, e noi vediamo la gente di breve memoria farsi un nodo nel fazzoletto, per richiamarsi alla mente un fatto avvenuto od un impegno preso. Più tardi gli oggetti furono rappresentati con figure, rozze sì ma tuttavia intelligibili, ed alle diverse figure fu dato un significato particolare: si giunse così alla scrittura geroglifica. Più tardi assai si passò dai geroglifi all’alfabeto, nel quale ogni segno ha il proprio suono, così che riesce possibile comporre le sillabe e le parole. Al presente le lettere hanno un suono, mentre una volta erano simboli. Così la o era il segno del sole, e noi la troviamo nelle parole ob dei Fenici, nel sol dei Latini, nel soleil dei Francesi e nella sonne dei Tedeschi, come nel nostro sole.
I sentimenti e la loro espressione. — Il matrimonio ed i rapporti di parentela di un figlio con suo padre e con sua madre ci sembrano tanto naturali e tanto evidenti, che siamo disposti a considerarli come caratteri essenziali della specie umana. La cosa, tuttavia, è ben lungi dall’essere tale. Le razze inferiori non hanno l’istituzione del matrimonio; il vero amore è quasi sconosciuto fra loro, e il matrimonio, nelle sue fasi più basse, non è in modo alcuno un affare di affetto. Gli Ottentoti sono tanto freddi ed indifferenti gli uni verso gli altri, che quasi si è tratti a pensare che l’amore non esista fra loro. Fra i Koussa Kaffir non entra nel matrimonio alcun sentimento d’amore. Alcuni selvaggi non hanno parole per esprimere caro o amatissimo. Nè fra gli Osage, nè fra i Cherokee si trova un solo sentimento poetico o musicale, fondato sopra una tenera passione fra i due sessi. Nello Yariba (Africa centrale) il matrimonio è celebrato dagli indigeni colla maggiore indifferenza possibile; l’affetto è al tutto estraneo a tale questione. Fra i Mandingos il matrimonio non è altro che una forma sistematizzata di schiavitù. Le tribù delle colline del Chittagong, nell’India, considerano il matrimonio come una semplice unione animale e conveniente; esse non hanno alcuna idea di tenerezza, nè di nobile devozione. Fra i Gayucuru del Paraguay i legami del matrimonio sono tanto leggeri che, quando le due parti non si convengono più reciprocamente, si separano senz’altra cerimonia. Nell’Australia le donne sono tenute come schiave, o vengono percosse e trafitte a colpi di lancia nelle gambe alla più piccola provocazione.
L’infanticidio è frequente presso i selvaggi; così presso gli Indiani dell’America del Nord. Anche presso gli Ottentoti è comunissimo e non viene considerato come delitto. Le fanciulle ne sono lo vittime più ordinarie, e quando una donna dà alla luce dei gemelli, quello che è peggio conformato viene quasi sempre sotterrato vivo. Anche tra i Maori, come fra altri Polinesii, è comune l’infanticidio.
Nemmeno l’amore dei figli verso i genitori è generale e costante in tutti i popoli. Presso gli Ottentoti, appena un individuo, uomo o donna, sia posto per l’età nella impossibilità di lavorare, e non possa più rendere nessuna sorta di servigi, viene bandito dalla società dei suoi simili, e relegato in una capanna solitaria, ad una considerevole distanza dal Kraal, con una piccola provvista di viveri vicino a lui, ma senza che nessuno gli venga in soccorso, finchè muoia di vecchiezza, di fame, o sotto le zanne delle belve. Fra i Figiani il parricidio non è delitto; i genitori vengono ordinariamente uccisi dai figli. Talora i vecchi si persuadono che è giunto il tempo di morire; talora sono i figli che avvisano i genitori che essi sono loro a carico.
Questi fatti potrebbero sembrare incredibili, se non ci fossero raccontati da viaggiatori degni di fede. Essi ci provano, quanta differenza passi tra l’uomo selvaggio e l’uomo incivilito. L’amore coniugale, materno e figliale sono nobilissimi ed insieme naturali sentimenti dell’uomo civile; e tuttavia, per tale riguardo, molti uomini stanno al disotto degli animali.
Quanto il selvaggio possa trovarsi ad un basso livello nell’amore verso il prossimo, ce lo prova il cannibalismo che fu praticato in tempi andati ed è praticato anche oggidì da parecchie barbare tribù. Ai tempi di Strabone gli Irlandesi erano cannibali, e consideravano come un atto lodevole mangiare i propri parenti. San Girolamo ci racconta, che gli Scoti, sebbene avessero a loro disposizione dei porci e dei bovi, tuttavia mangiavano carne umana, preferendo ad ogni altra parte le natiche dei fanciulli e le mammelle delle donne. Il cannibalismo era in tempi remoti praticato anche in Italia.
Anche oggidì l’antropofagia è molto estesa. Essa è tanto inveterata presso i Figiani, ch’essi non possono fare un maggiore elogio di un manicaretto che dicendo che è tenero come un uomo morto. Inoltre, la delicatezza del loro gusto è tanta, che sdegnano la carne dei bianchi, preferiscono quella delle donne a quella dell’uomo, e considerano l’avambraccio e la coscia come i pezzi più gustosi; e ne sono tanto ghiotti che serbano la carne umana pei soli uomini, giacchè, secondo loro, lo donne non sono degne di pascersene. Quando il re dà un banchetto, uno dei piatti è sempre composto di questo cibo, e quantunque i corpi dei nemici uccisi sul campo di battaglia vengano sempre mangiati, non sono punto sufficienti, e si ingrassano schiavi per venderli sui mercato.
Gli Indigeni della Terra del Fuoco sono pure cannibali; quasi sempre in guerra colle tribù vicine, è raro che si incontrino senza che ne risulti una battaglia, e i vinti, se non sono già morti, vengono uccisi e mangiati dai vincitori. Le donne divorano le braccia e il petto, gli uomini si cibano delle gambe, il resto vien gettato in mare. Negli inverni rigidi, quando difettano altri alimenti, prendono la più vecchia donna della schiera, la strangolano sopra una nube di fumo e la divorano. Interrogati perchè non uccidessero piuttosto i cani, rispondevano che i cani si rendevano utili col prendere lontre.
Anche i Neo-Zelandesi sono antropofagi. Un fatto crudele avvenne nel 1857. Il bastimento Saint-Paul naufragò presso l’isola di Rossell, dove cercarono rifugio i naufraghi che erano parecchie centinaia di persone; ma ben tosto furono assaliti dagli indigeni cannibali. I pochi che poterono salvarsi raccontano, che alcuni dei loro compagni erano stati divorati immediatamente dopo la lotta, di altri non fu mangiato che il cervello, ad altri ancora erano stati aperti i vasi del collo per succhiarne il sangue, ed altri erano stati nutriti per parecchi giorni, e venivano trucidati pochi per volta, per avere così carne sempre fresca. La carne dei vecchi veniva battuta con clave allo scopo di renderla morbida. Se si riflette intorno ai fatti sopra citati, il cui numero potrebbe essere aumentato, si arriva alla conclusione, che i più nobili sentimenti sono o affatto sconosciuti nell’uomo selvaggio o grandemente abbrutiti.
Il cannibalismo è praticato dai selvaggi per ragioni assai diverse, e cioè:
a) Per bisogno, come nelle isole del Pacifico e nell’Australia, dove i mammiferi commestibili sono od erano molto rari. Gli Australiani affamati uccidono le donne per mangiarle e giungono fino a dissotterrare i cadaveri. L’antropofagia è diffusa in tutta la Melanesia.
b) Per religione. Il cannibalismo è stato consacrato dalle primitive religioni; esempi di questa forma si riscontrano nella Nuova Zelanda, a Tahiti e più ancora nel Messico.
c) Per pregiudizio. Alcuni selvaggi credono, ad esempio, che il cuore trasmetta il coraggio, l’occhio la perspicacia, gli organi genitali la virilità; nell’Africa, nell’Australia e nella Polinesia il cuore è il boccone privilegiato dei capi e dei sacerdoti; nella Nuova Zelanda si preferisce mangiare l’orecchio sinistro, che è ritenuto sede dell’anima.
d) Per pietà filiale. Questo sentimento è causa di cannibalismo, per l’idea di migliorare la condizione dei genitori nella vita ultramondana; così tra i Batta di Sumatra, ai tempi di Marco Polo nel regno di Angrinam nell’India, ed ai tempi di Erodoto fra i Messageti nell’Europa orientale.
e) In guerra. È questa la forma più comune e più feroce di cannibalismo; anzi sovente i selvaggi fanno la guerra ad una tribù vicina all’unico scopo di procurarsi carne umana.
f) Per ghiottoneria, la carne umana costituendo presso molti selvaggi una leccornia, che non può mancare in un lauto banchetto.
g) Cannibalismo giuridico, ossia l’antropofagia per vendetta di sangue o di delitti commessi. Così presso i Batta l’adultera, il ladro notturno, quelli che avevano assalito proditoriamente una città, un villaggio od un particolare, erano condannati ad essere mangiati dal popolo. All’isola di Bow, nella Melanesia, si divorano gli assassini, mezzo molto semplice per non popolare le carceri.
I sentimenti sono espressi in tutto le razze umane in modo analogo. E sembra che i diversi modi di espressione si compiano secondo tre principii, che sono i seguenti: Il primo è quello delle abitudini associate, di cui una chiama l’altra, anche se questa non fosse più utile. Chi ha mosso il primo passo, continua a camminare senza saperlo, e senza volerlo. Chi approva un’opinione, annuisce colla testa spesso involontariamente. Di ritorno da una lunga gita in mare, stiamo sui piedi o camminiamo colle gambe molto divaricate, per guadagnare una larga base. La gente ordinaria, quando è nell’imbarazzo, si gratta la testa, come se avesse una sensazione materiale molesta nel capo; altri nella confusione si fregano gli occhi. Se un uomo vede un fatto che desta orrore, chiude gli occhi e volge altrove la faccia; nel rammemorare quel fatto, anche se si trova all’oscuro, eseguisce i medesimi movimenti che di certo non sono più utili. Chi vuole richiamarsi alla memoria un nome, guarda talvolta verso gli angoli della camera in cui si trova, quantunque colà il nome non sia scritto.
Questo principio è vigente non solo in tutte le razze di uomini, ma anche negli animali. Così, quando un cane vuole accovacciarsi, gira intorno a sè stesso per farsi un letto; ma altrettanto si vede fare sovente il cane sopra un terrazzo, dove questo movimento è inutile. I cani ed i gatti gettano terra sui proprii escrementi colle gambe anteriori gli uni, colle posteriori gli altri; ma essi fanno gli stessi movimenti anche dove non v’ha una bricciola di terra.
Il secondo principio è quello dell’antitesi o del contrasto; ossia per sentimenti opposti eseguiamo movimenti opposti. Nella gioia il corpo è portato eretto, alta la testa ed aperti gli occhi, e la fronte è liscia; questa espressione è l’opposto di quella di un uomo abbattuto, il quale cioè si trovi sotto il peso di una grave preoccupazione od amarezza.
Il sì ed il no sono da tutti i popoli espressi con movimenti affatto diversi.
Anche questo principio è vigente negli animali, ed il cane può fornirne un bell’esempio. Allorchè un cane di umore ostile si abbatte in uomo che suppone straniero, cammina diritto in avanti, tenendosi duro; la sua testa è leggermente rialzata o poco abbassata; la coda ritta in aria; i peli si rizzano, specialmente lungo il collo e la schiena; le orecchie tese si dirigono in avanti e gli occhi guardano fissi. Supponiamo ora che il cane riconosca d’un tratto nell’uomo, cui s’avvicina, non già uno straniero, ma il proprio padrone; e vedremo come si trasforma tutto in modo subitaneo e completo. In luogo di avanzarsi rapidamente, si abbassa od anche si cuccia, imprimendo al suo corpo movimenti flessuosi; la coda non è più ritta in aria, ma volta all’ingiù e dimenata da una parte all’altra; i peli si fanno lisci, le labbra pendono liberamente e le orecchie si riversano allo indietro.
Il terzo principio riposa sull’azione diretta del sistema nervoso, indipendentemente dalla volontà ed in parte anche dall’abitudine. Così noi tremiamo dallo spavento; nel dolore e nel timore la nostra pelle si copre di abbondante sudore.
Fra i vani modi di esprimere i sentimenti, meritano una speciale menzione il pianto, il riso ed il rossore.
I neonati gridano, ma non piangono, ossia i loro occhi non si riempiono di lagrime. Il vero pianto apparisce in epoca assai variabile, ora già all’età di 20 giorni, ed ora soltanto all’età di parecchi mesi. I selvaggi sono come i bambini, piangono per ogni inezia, ed una piccola distrazione li fa passare dal pianto al riso. Un capo dei Neo-Zelandesi sparse lagrime amare, perchè i marinai gli avevano insudiciato di farina il suo mantello prediletto; gli abitanti della Terra del Fuoco passano dal dirotto pianto ad un riso convulsivo, quando vedono un oggetto che li diverte. Anche fra gli abitanti dell’Europa v’ha una differenza per tale riguardo; così si asserisce che gli Inglesi piangono assai più raramente degli altri popoli. È noto del pari che si comportano in modo diverso anche i due sessi; la donna piange più facilmente dell’uomo, e, come si suol dire, certe donne hanno le lagrime in tasca, per metterle in mostra quando che sia. Anche gli alienati piangono per cause leggere, siano reali od immaginarie; così una ragazza malinconica fu vista piangere per un giorno intero, perchè si ricordava di aversi rase, tempo addietro, lo sopracciglia, affinchè crescessero meglio. Certi individui piangono dirottamente tutte le volte che si trovano in istato di ubbriachezza.
Il pianto, per altro, non è sempre prodotto dal dolore fisico o morale; si piange anche dalla gioia e si piange per effetto dei riso sgangherato e di una tosse violenta.
Il riso è generalmente segno di gioia: e come tutte le razze umane piangono nel dolore, così tutte ridono nell’allegrezza. I bambini non ridono nè sorridono nei primi giorni dopo la nascita; ed il riso si manifesta in età diverse, ora già a quella di un mese e mezzo, talvolta soltanto all’età di quattro o cinque mesi. Quando l’animo è lieto, anche piccole cose producono il riso. Il riso sfrenato è frequente nella gente rozza; l’uomo civile ride poco, ma sorride spesso. Certi alienati ridono di continuo, senza una causa evidente. I selvaggi ridono di gioia, ed in pari tempo saltano, ballano, gridano, si fregano il ventre colle mani e fanno altri strani movimenti. Fu fatta l’osservazione in molte razze che, durante il riso, gli occhi si riempiono di lagrime.
Il rossore è la forma più caratteristica dell’uomo nell’espressione del sentimento. Il bambino non arrossisce; invece si palesa il rossore di frequente nell’epoca della pubertà. Lo donne arrossiscono più facilmente degli uomini. Le parti del corpo che si fanno rosse sono principalmente la faccia, le orecchie ed il collo, ossiano le parti esposte alla vista altrui; in casi rari il rossore si estende al petto, alla regione scapolare e perfino all’addome o alle coscie. Il rossore si manifesta in tutte le razze umane; ma in quelle a tinta molto oscura è difficile a vedersi, come nei Negri e negli Australesi. Il rossore fu positivamente osservato, oltre che nella razza nostra, nei Chinesi, nei Polinesii, negli Indiani dell’America settentrionale ed in altri popoli. Chi arrossisce di vergogna, abbassa gli occhi, volge la faccia altrove o cerca di nasconderla colle mani.
Fra i modi di esprimere i sentimenti non va dimenticato il ballo, che è diffuso in tutte le razze umane, talvolta caratteristico, e che presso i selvaggi non è, come da noi, un semplice pretesto di avvicinamento dei due sessi, ma una cosa seria ed importante. Esso è, dice Robertson, un’occupazione che ha parte in qualunque atto della vita pubblica o privata. Se due tribù americane sono poste nella necessità di stringere relazioni l’una coll’altra, gli ambasciatori dell’una si avvicinano ed eseguiscono un ballo solenne e presentano il calumet o emblema di pace; i sachem dell’altra tribù lo ricevono colla stessa cerimonia. Se dichiarano la guerra ad un nemico, lo fanno con un ballo che esprime il risentimento che provano e la vendetta che meditano. Se si tratta di placare l’ira degli Dei, o di celebrare i loro benefizii, se bisogna rallegrarsi della nascita di un figliuolo, o piangere la morte di un amico, hanno balli appropriati ad ognuna di queste situazioni e che esprimono i diversi sentimenti dei quali sono animati. Se un individuo è indisposto, gli si prescrive il ballo come il miglior mezzo per ricuperare la salute; se egli non può sopportare la fatica di un tale esercizio, il medico o mago lo eseguisce in suo nome, come se la virtù della sua attività potesse trasfondersi nel malato. I balli presso i popoli selvaggi sono sovente faticosi e quasi sempre romorosi; fa maraviglia il vedere, come quest’avanzo di gusti depravati non sia ancora scomparso dalle società civili.
La moralità. — Si potrebbe credere che nessuna razza umana fosse al tutto sprovvista di senso morale, ma la testimonianza dei viaggiatori dimostra erronea siffatta idea. Passiamo in rivista i selvaggi moderni. Gli abitanti delle isole Andaman, a quanto sembra, non hanno nessun sentimento di pudore, e molte delle loro abitudini sono simili a quelle dei bruti; il pudore infatti non è che un parto della civiltà, tanto è vero che l’uomo nasce nudo.
A questo proposito merita di essere riferita la descrizione che dà il Langsdorff del ricevimento avuto a Nukabiva dagli Indigeni. «Dapprima, egli scrive, scorgemmo da notevole distanza un grande numero di teste nere che emergevano dalle acque; ma poco dopo ebbimo il raro spettacolo di vedere alcune centinaia di uomini, donne e ragazze, tutte nude, che nuotavano intorno alla nostra nave ed offrivano in vendita noci di cocco, banane e frutti dell’albero del pane. Il gridare, ridere e tumultuare di quella gente sempre allegra era indescrivibile, e faceva sopra tutti un singolare effetto. Il romore era maggiore che sui nostri mercati più frequentati, e tale che alla nostra mensa non potevamo udire le parole dei vicini. Le giovani ragazze e le donne, che trovavansi raccolte in buon numero ed erano affatto nude al pari degli uomini, alzavano la voce in modo straordinario, ed erano divenute assai loquaci e molto sfacciate secondo il concetto europeo. Ad ogni nostro movimento, ad ogni nostra azione, scoppiavano in un riso sgangherato, e siccome non capivamo nulla di tutte le belle cose che ci raccontavano, cercavano ben tosto di farsi comprendere colle gesta e colla pantomina, offrendoci con modi indecorosi ed impudenti le loro bellezze. Gli uomini, che nuotavano appresso, non si mostravano per nulla gelosi, chè anzi sembrava che il marito decantasse i vezzi della moglie, il fratello quelli della sorella, il padre quelli della figlia, e l’amante quelli della sua amata.»
I Tasmaniani erano affatto sprovveduti di idee e di sentimenti morali. L’assassinio, lungi dall’essere a Figi un fatto accidentale, è abituale e sistematico, e conta fra gli avvenimenti ordinarii della vita. Un Figiano non si crede mai sicuro quando ha dietro di sè uno sconosciuto; e l’arrivare ad essere un assassino famigerato è la cosa più ambita da un Figiano. Nell’isola di Vanna Levu v’erano ben pochi abitanti, tanto uomini che donne, che non avessero commesso un assassinio; colà una delle prime lezioni che si dànno ad un fanciullo si è d’insegnargli a percuotere sua madre. I Tahitiani non hanno nè leggi, nè Corti di giustizia; e poca importanza hanno fra loro la sicurezza personale e i diritti della proprietà privata. Essi sono assolutamente privi di ogni idea di decenza. Nel valutare il carattere morale dei selvaggi, conviene ricordarsi che non solo fra loro la regola del bene e del male era ed è ancora in molti casi assai lontana dalla nostra, ma anche che molti di loro possono appena venire considerati come esseri responsabili, e non posseggono nessuna nozione, anche difettosa e vaga, della rettitudine morale.
Nei Tonga l’idea del buono è espressa con quella del robusto. Un giorno un convertito Dacota presentavasi ai missionarii chiedendo il battesimo, ma fu respinto perchè poligamo. Alcuni mesi dopo ritornava dicendo che non aveva più mogli, e quindi era in piena regola colla Chiesa. «E che ne avvenne delle tue donne?» gli domandava il missionario. «Io lo ho mangiate» rispose il neofito. Un selvaggio australiano, richiesto da un Europeo, che cosa fosse il bene od il male, rispose: «Bene, è mangiare il proprio nemico; male, è esserne mangiato.» Assai analogamente sentenziava a Baker il re Commor: «Buono vuol dire essere forte.» Un Rongatura (Australe) côlto in furto e domandato da un viaggiatore se non temesse di esserne punito dagli Dei: «Oh! no, disse, quando gli Dei erano in terra facevano altrettanto, e i genitori amano essere imitati dai figli.» Nell’Africa orientale non si capisce che cosa sia il rimorso: il ladro è un uomo rispettabile, l’assassino è un eroe. Nell’Africa australe, presso i Bechuana, quando si vuol prendere un leone di quelli che hanno fame di uomo, gli si mette per esca nella fossa un bambino od una donna vivi, che naturalmente riescono le prime sue vittime. Non si può certamente dire che questi uomini conoscano la massima: «Non fare ad altri ciò che non vuoi che sia fatto a te.»
L’idea del bene, al suo infimo grado, si identifica con quella dell’utile individuale e momentaneo. Ma per poco che la memoria e la riflessione agiscano, l’idea del bene si eleva a quella dell’utile individuale complessivo, e quindi è ritenuta per cattiva un’azione che trae seco delle conseguenze dannose. Negli animati sociali l’idea del bene si allarga ancora, ed abbraccia l’utile della società cui l’individuo appartiene. La moralità, nei primi due gradini, noi la troviamo tanto negli animali che conducono una vita isolata come nell’uomo selvaggio; al terzo gradino sviluppasi negli animali sociali e nell’uomo civilizzato. Infatti l’ape che punge ed in conseguenza muore, si sacrifica per la propria colonia; i lupi e molte scimie vanno alla caccia a stormi, ed ogni individuo all’occorrenza difende i suoi compagni; le scimie ed altri animali furono visti prendere nella loro custodia gli orfani della propria specie, ed anche di specie diverse.
La religiosità. — Alcuni autori, e recentemente anche il dottor Ratzel, hanno sostenuto che non esiste alcun popolo privo di religione; ma questa idea è contraddetta dalla testimonianza di molti ed autorevoli viaggiatori. Gli abitatori dello isole Andaman non hanno idea di un essere supremo, nè religione, nè credenza ad una vita futura. Gli Australiani non hanno una religione sistematica, nè culto, nè preci, ma molti di essi credono agli spiriti maligni, e tutti hanno un gran terrore del buio e delle stregonerie. I Figiani considerano gli Dei come esseri animati dalle stesse passioni di loro. La principale divinità dei Neo-Zelandesi era Atoua, un feroce cannibale. Gli Eschimesi della Groenlandia non hanno religione, nè culto idolatrico, e non si osserva tra loro alcuna cerimonia che sia rivolta a questo. Gli Indiani del Paraguay non avevano idee religiose. Nè i Patagoni, nè gli Araucani non hanno alcuna idea di preghiera e nessuna traccia di culto religioso. Gli abitanti della Terra del Fuoco non hanno la minima traccia di religione. I Niam-Niam dell’Africa centrale non conoscono alcun vocabolo per designare la divinità. I Tasmaniani non avevano alcuna traccia di religione, nessun culto, nè alcuna idea di Dio.
I selvaggi considerano quasi sempre gli spiriti, se ne hanno un vago concetto, come esseri malefici, probabilmente perchè ogni essere, che sia estraneo alla loro tribù, viene considerato come un nemico. Così gli Ottentoti non hanno che idee assai superficiali intorno alla esistenza di una divinità benefica; invece essi hanno concetti più precisi intorno ad uno spirito malefico che temono, perchè credono che cagiona le malattie, la morte, il fulmine e tutti i malanni che li colpiscono. Gli Abiponi dell’America del Sud hanno delle vaghe nozioni d’uno spirito cattivo, ma nessuna intorno ad una divinità benefica. I Coroados del Brasile non conoscono alcun Dio buono, ma soltanto un principio malefico che li tormenta e li conduce nelle sciagure ed alla morte. I «Cemis» alle Antille erano spiriti cattivi che si accusavano di produrre tutti i mali che affliggono la specie umana. Nella Virginia e nella Florida si adorava lo spirito malefico e non il buono, e si cercava di calmare soltanto l’ira del primo, nella persuasione che il secondo avrebbe fatto in ogni modo il miglior bene che poteva. Allorchè il Burton parlò di Dio ai Negri dell’Africa orientale, fu subito da essi domandato dove fosse, perchè volevano andare ad ucciderlo, ritenendolo la causa di tutti i mali che colpivano essi ed i loro animali domestici.
Una donna araba, la quale era tormentata da male ai denti, fu udita recitare la seguente preghiera: «Oh Allah! possano i tuoi denti fare tanto male a te, quanto a me ne fanno i miei! Possano le tue gengive farti soffrire tanto, quanto mi fanno soffrire le mie!»
Mentre alcuni popoli selvaggi o barbari non hanno alcuna religione, o soltanto il timore degli spiriti malefici, altri adorano quegli oggetti che colpiscono la loro immaginazione; essi hanno Dei fetisci, cui domandano la soddisfazione dei proprii desiderii, e che maltrattano e percuotono se non ottengono ciò che vogliono. Un viaggiatore ci racconta che nella Cina il popolino, se dopo aver lungamente pregato le immagini non ottiene ciò che desidera, si rivolta contro gli Dei impotenti e li copre di ingiurie. «Come, cane di uno spirito, essi dicono, ti diamo uno splendido alloggio in un bellissimo tempio, ti adoriamo e dipingiamo bene, e ti offriamo incenso; e tuttavia, malgrado queste cure, sei tanto ingrato da rifiutarci quello che ti domandiamo?» Allora legano l’immagine con corde, l’atterrano e la trascinano per le strade in mezzo al fango ed alle sozzure. Se nel frattempo accade che il loro desiderio sia soddisfatto, allora, con grande cerimonia, rialzano l’idolo, lo lavano, lo ripuliscono, lo rimettono nella sua nicchia e gli domandano scusa di ciò che hanno fatto.
Alcunchè di simile osservasi a Napoli, dove gli abitanti meno colti imprecano a S. Gennaro, se non ottengono una grazia domandata, salvo a riconciliarsi con lui non appena il loro desiderio sia soddisfatto. Le imprecazioni al Santo risultano dai seguenti versi riferiti da Angelo Brofferio.
- Santo d’inferno — va ’n fuoco eterno!
- Tu lo colore — tieni abbrunzito,
- Hai la figura — del babbuino,
- Si no spersicchio — figlio malnato
- No te n’adduone — che screanzato
- Tutti te chiamano — pe sta cetà?
- Tu si squamuso — sì brutto muso,
- Si sgraziato — si disperato,
- Va ’n fuoco eterno — santo d’inferno.
Assai estesa è presso i selvaggi l’adorazione degli animali. Nell’antichità il serpente era adorato in Egitto, nell’India, nella Fenicia, nella Babilonia ed in Grecia; oggidì lo si adora in una gran parte dell’Asia e specialmente in Persia, a Cachemir, nel Tibet, nella China, a Ceylan e presso i Calmucchi; inoltre in alcune parti dell’Africa, come nell’Alto Egitto, nell’Abissinia ed alla costa di Guinea; finalmente presso i Peruviani, gli Aztechi, i Caribi, ecc., dell’America. Molti altri animali sono adorati presso i varii popoli; così in America le Pelli rosse adorano l’orso, il bisonte, il lepre, il lupo e qualche specie di uccello; nel Brasile e alla Plata è sacro il giaguaro. I Samojedi venerano l’orso bianco, gli Ostiacchi l’orso nero. Il bue è sacro nell’India ed a Ceylan, il coccodrillo a Madagascar. I popoli d’Europa hanno abbandonato da lungo tempo il culto degli animali; tuttavia se ne hanno ancora le vestigia. Nel Tirolo, ad esempio, il popolo basso ha una grande venerazione per le rondini, e chi uccidesse uno di questi uccelli si esporrebbe al pericolo di essere ingiuriato. Io non dimenticherò mai il sacro orrore da cui fui preso all’età di dieci anni a Merano, dopo di aver ucciso con un sasso una rondine che trovavasi nel suo nido, poichè m’era stato detto che chi maltratta questo uccello incorre nella disgrazia della Madonna.
Estesa del pari tra i selvaggi è l’adorazione del sole, della luna e delle stelle, come anche quella degli alberi e delle foreste; quella delle montagne e dei fiumi, e quella di singole pietre. Non v’ha, per così dire, un oggetto in natura, di cui il selvaggio non possa fare un fetiscio, quindi si comprende anche come l’uomo stesso possa diventare un idolo ed essere venerato come un Dio. A Taïti il re e la regina sono esseri divini, e nessuno è degno di adoperare gli oggetti, di cui essi si sono serviti. La loro abitazione chiamasi nube del cielo; il canotto, in cui viaggiano, arca del cielo; la loro voce, il tuono; la fiaccola che illumina la loro abitazione, il lampo. Così che, se quegli uomini vogliono dire che nel palazzo reale vi sono delle fiaccole, essi dicono che il lampo brilla nelle nubi del cielo.
I bianchi furono più volte dai selvaggi considerati come Dei; ciò avvenne a Lander nell’Africa occidentale, ed a madama Thomson in Australia.
È anche noto che il capitano James Cook, al suo primo apparire fra i Canachi delle isole Sandwich, venne creduto un Dio, il Lono, ossia la divinità più popolare di quei siti. Gli indigeni non si ritenevano degni di averlo fra di loro e di vedere anche lui formato di ossa e carne, mangiare, bere e perfino dormire. Preti e laici facevano a gara per servirlo; bastava che esprimesse un desiderio perchè fosse soddisfatto, e dovunque si mostrava, la plebe, in segno di adorazione, si gettava bocconi a terra. Il seguito di Cook, e massime i marinai, profittarono largamente di quei pregiudizii, ed i Canachi furono tanto bonarii da sopportare ogni trattamento. Ma la pazienza ha i suoi limiti. Un giorno l’equipaggio violò il Tabu o bosco sacro, per prendersi della legna, ciò che indignò talmente quei selvaggi che assalirono furibondi l’equipaggio ed uccisero il Cook. Dappoi venne il pentimento. Gli indigeni piansero la morte del grande viaggiatore, al quale resero i maggiori onori che erano presso di loro in uso, e perfino portarono le sue ossa lunghe in un tempio, le deposero a canto ai loro idoli, e sacrificarono dei cani e dei majali per ottenere il perdono del misfatto.
Per assicurarsi la protezione de’ loro Dei i selvaggi ricorrono ai sacrifizii, ne’ quali spesso sono vittima gli animali domestici, e talvolta anche gli uomini. I sacrifizii umani si compiono in molte parti del globo; ad esempio nella Guinea, in tutte le isole del Pacifico e principalmente nell’isola di Sandwich. Nei tempi antichi questi sacrifizii erano più estesi e più frequenti che oggidì, e si compivano anche in alcune parti dell’Europa.
Quanta differenza non passa fra la religione di un selvaggio e quella di un Europeo! Il fatto che oggi v’hanno tante gradazioni fra la completa mancanza di religione ed il cristianesimo, ci conduce a pensare, che la religione sia sorta nell’uomo in epoca remota, e siasi gradatamente sviluppata, tanto da raggiungere l’altezza a cui è arrivata ne’ nostri tempi presso le nazioni civili.
Dove vi sono idee, dove si compie la riflessione, rimanendo ignote molte cause di fenomeni ovvii o rari, si costituisce un’idea complessiva dell’ignoto, che più spesso incute spavento, e talvolta inspira fiducia. Questo è il germe della religione. Nell’uomo selvaggio di scarsi concetti e di povera e lenta riflessione, quell’idea rimane incerta ed oscura, nell’uomo civile si svolge a sistema di fede, nel pensatore si risolve ne’ suoi elementi ed apparisce come un effetto necessario del nostro lavorio psicologico.
Un germe di religione sembra esistere anche negli animali. Il cane, ad esempio, ha certamente la paura dei fantasmi, ed ogni fenomeno sorprendente, di cui il suo naso non gli dà precisa cognizione, determina in lui un sentimento di terrore il più insensato. E questa credenza nel sopranaturale, nell’incognito, è la fonte di tutte le idee religiose. Sarebbe difficile di trovare una differenza essenziale fra il sentimento religioso di un australiano che teme le stregonerie ed il bujo, e lo spavento di un cane davanti ad un tronco di albero fracido e per conseguenza fosforescente e luminoso nella oscurità.