Capitolo XXXIV

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XXXIII XXXV


La sua vita politica fu d’un punto, e le amarezze che glie ne vennero o che piuttosto gli sarebbero venute s’egli era altr’uomo, ebbero occasione innocente dal Gioberti che l’inviò a Roma a trattare della Lega Italiana: ove dicesi che il Rossi intendeva chiamarlo Ministro. Ucciso il Rossi, chiamato il Rosmini a Ministro, rifiutò per non essere libera la volontà del principe, e non osservato però lo Statuto. Seguì Pio IX a Gaeta; e avrà forse lì rammentata la morte e la vita di quel Cicerone da lui citato sovente, che tanto sentì l’amicizia, e che invitando il suo diletto liberto in un villa lì presso, scrive quelle parole di tenerezza elegante: Litterulae meae, sive nostrae, tui desiderio oblanguerunt. Ma nell’esilio il Rosmini trovò la corte; nè egli ci andava per questo. Ritiratosi in Napoli in Sant’Efremo, in Santa Lucia, in Caserta, scrisse delle più affettuose pagine del Comento a Giovanni, testimoni d’animo alto e sereno. Ed egli soleva notare il dì e il luogo degli scritti, e dove e quando un’idea feconda gli si fosse offerta alla mente. Così nel 1825, dopo meditare lungo, gli apparì a un tratto formato il disegno dell’Istituto della Carità; così quello del Nuovo Saggio, al quale fu occasione la Biblioteca Italiana con le obbiezioni sue, acciocchè possa dirsi che nulla è inutile agli uomini destinati e devoti a giovare.

Quand’ecco un giorno gli appariscono i carabinieri del re: «Se ne vada». Rispose: io son qui di consenso del Papa; al suo ordine me ne anderò, non prima, se non di forza. - S’inchinano ed escono. Egli fu al Papa, il quale dicesi rispondesse: «Che volete? Sono anch’io in casa altrui». - Questo io non so; ma per il vero debbo affermare quanto udii dal Rosmini stesso, che, avuta, o per parole di Pio IX o per altro, facoltà di rimanere, egli ringraziò e se n’andò. Per non parere nè fuggitivo nè pauroso nè dispettoso, rimase in Albano all’ospitalità del Cardinale Tosti che con riverenza l’amava.

I luoghi ov’egli ebbe più o men lunga dimora, sono dunque, di città memorande per monumenti, Padova, Verona, Milano, Napoli, Venezia, Roma; i paesi, Albano e Caserta, Domodossola e S. Michele della Sagra ; la villa paterna, e una del Padovano dove nel 1832 cominciò scrivere delle Piaghe; il Benaco al cui margine era nata sua madre; il Verbano sulle cui rive l’avevano ad affidare alla terra i suoi figli, il Verbano la cui vista ispirò dalle alture di Casciago Agostino raccoltosi con Alipio e altri amici fuor del fiotto del secolo. Di Verona l’Istituto suo fu quietissimamente congedato, da Pisa si licenziò il Rosmini stesso, non accettando la cattedra offertagli se non a patto che ammettessesi dalla città l’Istituto, e questo non per introdurvelo di forza, ma perchè la Regola impone che chi gli appartiene non possa se non per poco o per necessità viverne distaccato; la Regola che fu data molto innanzi la profferta di Pisa. Or taluni presi d’uno di que’ coraggi timidi o di quelle convulsioni animose che pigliano gli uomini dotti, ebbero paura dell’Istituto della Carità come di cosa gesuitica; e ci fu chi, per confermare i trepidanti nel valoroso rifiuto, spacciava una parola mia, non so se detta, certo frantesa tortamente, che avrebbe dipinto il Rosmini come persona feroce. A che vittorie siano riusciti quei coraggi della sapienza di Pisa, che in campo fece poi prova degna, lo dica lei. Ma al Rosmini fu bene non essere professore, come gli fu bene non essere Cardinale.

Tralasciavo di dirvi che il Papa con lettera di sua mano annunziò il cardinalato al Rosmini, e a lui renitente e chiedente tempo a sentirne i suoi confratelli, rispose: scrivete che io ve lo do non come dignità, come croce. Ma cotesta croce almeno doveva essergli risparmiata: e’ doveva anche in questo conformarsi a quel Calasanzio rammentato da lui sul letto di morte, a quel Neri da lui in giovanezza amorosamente lodato, a Vincenzo de’ Paoli. E, presago e quasi fermando da sè il suo destino, nella fronte de’ primi suoi libri, come in prospetto del già architettato edifizio dell’intera sua vita, egli intitolava sè prete roveretano, come scriveva sè Hieronymus Presbyter, quel Dalmata ammirato da lui e per gl’impeti santi e per la forte delicatezza dell’animo, e per la triplice potenza dello studiare, del contemplare e del dire, quell’amico ardente di poveri e tremendo censore di grandi, quel Romito cittadino, quel filologo artista, quel traduttore eloquente, la cui parola immedesimata, se così posso dire, con la parola di Dio, risuona da quattordici secoli per tutta la terra, ed è più che altra parola d’uomo, ripetuta da principi e da popoli, accompagnata d’armonie, di meditazioni, di conforti, d’amori.

Un giorno, che poco mancava al quarantotto, io nel bel mezzo di piazza S. Marco mi rintoppai in due chiarissimi, begl’ingegni, a cui però non dispiaceva che la lor fama avesse le penne in punta lustre di foglia d’argento; e canzonandomi sotto sotto i due begl’ingegni che la mia piccola fama volante terra terra non lustrasse di nulla, io additai i due capi di piazza, e guardando fiso in que’ volti d’anime barcollanti tra audacia e prudenza, tra cupidigia e vergogna, ambigue agli altri e a sè, sfondando con gli occhi miei que’ quattr’occhi che scappavano e da altri e da sè medesimi come d’animale che non sai se scansi insidie o ne tenda: meglio colomba, risposi, che... - e non m’aspettavo che di lì a poco io dovrei abitare a un de’ capi di piazza senza lustro d’argento, e che i due chiarissimi con ben altro sorriso si verrebbero a profferire, Et docuisse pares et dedocuisse parati. Poteva il Rosmini a ben più alta ragione di me assomigliarsi nel colore senza mutare cangiante a’ raggi del sole e nel gemito innocente e ne’ liberi voli alle colombe, ricordanza sempre rinascente di storia e di pietà, abitanti i pinnacoli di San Marco, e ora passeggianti tra domestiche e solitarie, sotto lo stendardo di Cipro, ora raccolte intorno alla Vergine del Palazzo unico, noto col titolo di Ducale per eccellenza, titolo che per religione immortale gli resta in mezzo a tanta ruina di cose e di nomi. Più splendente che di porpora cardinalizia o di porpora imperiale, doveva l’amico nostro ascendere con nell’una mano i suoi libri, e nell’altra le sue opere di bontà, gli uni alle altre convento, e dolersi di non aver fatto abbastanza. Possano con ricchezza così legittimamente acquistata, presentarsi alla banca del mondo di là i suoi censori e i suoi giudici.

Dovevano le onoranze serbate all’agonia e alla morta spoglia del sacerdote Roveretano essere anco nel cospetto degli uomini dedicate all’intimo della persona sua e non ai color della veste; acciocchè non fosse confuso quello che la consuetudine e l’adulazione concedono a un berretto con quel che era debito al capo del pensatore, al cuore dell’uomo, al puro abito del semplice prete. Dal titolo suo di prete dovevano acquistar più valore e le preghiere per la sua guarigione ordinate nella diocesi di Montalcino quasi memore che su quelle alture tre secoli fa per l’appunto agonizzava fortemente la vita civile di tutta la Toscana; e le preghiere ordinate per tutte le chiese cattoliche di Inghilterra, e dallo stesso Wiseman che non gli fu benevolo sempre; e le preghiere forse più onorevoli al morente che s’innalzavano tacite da’ cuori della povera gente. Doveva da quel titolo raddoppiarsi calore e merito alle parole che disse in Torino di lui un prete dotto1 con affetto tenero e coraggioso; e a quelle che il cardinale Tosti, poco innanzi la perdita scriveva col cuore: Dio tolga me vecchio inutile, e lasci lui. Se il Rosmini finiva cardinale, non avrebbe Rovereto alla novella del riaversi di lui inviato con lettera solenne il suo podestà a rallegrarsene all’antico suo parroco; non sarebbero potuti accorrere gli amici della sua giovanezza, quale occupato, quale povero, quale vecchio, quale infermo, ad abbracciare il condiscepolo ispiratore, il fratello padre, l’amico modello; e’ non avrebbe visto inginocchiato un vescovo chiedere la sua benedizione, dopo data la propria, inginocchiato appiè del suo letto insieme co’ figli unanimi pregare per lui e con lui

. . . . . . . per quei che soffrono, per quelli
Che fan soffrir per tutti . . .

Alessandro Manzoni. Era nelle sorti di Dio che lungo le acque ove Carlo Borromeo ebbe la culla, abbia Antonio Rosmini la tomba; che là dove sorse limpido un astro di carità, un’altra luce di carità e di scienza e d’onesti dolori tramonti serena.

Note

  1. Il Prof. BARONE. Veggasi anco l’Orazione detta dall’Ab. GATTI in Casale.