Antonio Rosmini/XXXIII
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Fin dal 1825, raccolto nel suo nido di Rovereto e nuovo delle cose del mondo e non a giorno di tutte le opere di fresco uscite sull’argomento, scriveva il Rosmini di cose civili; e delle notizie che veniva acquistando per via, faceva suo pro siccome di materia al lavoro, digerendole fin d’allora in sè, e con la mente propria dominandole: non però sì che a’ fautori degli ordini vecchi egli non inclinasse allora come a difensori dell’ordine puro in idea. Notabile come i discorsi e le letture fatte via via gli si venissero a collocare e a commettere ne’ suoi scritti quasi per prestabilita armonia; nè questo dovevasi solamente alla forza del suo pensiero, o a quell’arte delle transizioni scientifiche più difficile che la somigliante de’ retori, molto meno era caso; ma anco gl’ingegni minori sperimentano in sè come alle occasioni de’ loro concetti presegga una provvidenza che fa per essi senz’essi, e ha il maggior merito de’ loro pregi maggiori; come in questo rispetto possa più veramente dirsi che i libri hanno il loro destino. Nè quella propensione agli autori che tiravano al retrogrado era improvvida cosa; chè meglio è rifarsi dal meno e via via sempre ascendere, che non, prendendo dalle mosse una precipitosa rincorsa, cascare a mezza via, come tanti fecero, trafelati, e nella caduta schiacciarsi quasi da sè, o, come tanti altri con ancor più dolore e vergogna, retrocedere pavidi e disperati. E i grandi ingegni, ch’è quanto dire g’ingegni onesti, amano dal principio apprendere le tradizioni quali che siano de’ maggiori, e della docilità vanno alteri com’altri della indocilità, sentendo esser quella non pure più virtuosa e più cauta, ma più coraggiosa in certi tempi e più conducevole a’ veri progressi; e così tendendo l’una mano riverente al passato, l’altra confidente all’avvenire, nulla di bene respingono, e congiungono i secoli in amicizia efficace.
Non è però che de’ primi suoi o studi o sentimenti ricevuti dagli abiti e dagli esempi, non rimanesse all’egregio uomo alcuna opinione ch’io oserei dire alquanto pregiudicata: come laddove egli pone la proprietà degli averi materiali per condizione ai diritti politici e quasi per guarentigia allo spirito, il che non mi pare conforme nè alla dottrina cristiana, nè alla rosminiana de’ gradi dell’essere, nè all’esperienza, e nè anco alle norme della scienza de’ corpi, la quale, per bruta che voglia farsi, non può mettere alla pari una lamina d’alluminio e molto meno un pezzo di gneiss (perdonisi la voce barbara che qui ci cade) con la potenza del magnetico e della luce. Nè, quanto alla pratica, tutto quel ch’egli desiderava attuato mi pare accettabile; come quando e’ voleva che un giornale facessesi in cui notare gli spropositi logici de’ giornali e de’ nuovi libri; che sarebbe certamente riuscito guerra formidabile, massime se capitanata da lui, e in pochi colpi decisa ciascuna battaglia, mettendo il nemico alle prese seco stesso e facendo che da sè si disfaccia. Ma siccome lo schierare in lunga fila gli umani misfatti o deformità non renderebbe nè più santa la razza nè più gentile, così notare gli sbagli di logica che sono effetto e indizio degli errori morali, aprire una galleria miseranda d’assurdità, non sarebbe cosa nè lieta agli amici del bene, nè esemplare agli inesperti, nè fruttuosa agli erranti, i quali da un esempio di retto ragionare e sentire e operare sarebbero più che dalla schifosa contemplazione del contrario ravviati.
E per discendere a cosa più prossimamente pratica, io non so se il Rosmini che nello scorso dicembre approvava la spedizione di Crimea, non si sarebbe più tardi ravvisto, considerando che la dignità morale e lo scopo di religiosa civiltà messo innanzi conseguivasi del pari con un’alleanza la qual patteggiasse la cooperazione del Piemonte a guerra più prossima; che se i due potentati richiedevano per forza di più, questo impero pur sottinteso attestando paura toglieva ogni coscienza di dignità; considerando che i debiti contratti con esteri fanno lo stato dipendente e da esterne e da interne vicende, sì ch’egli mal può guarentire a sè non che ad altri indipendenza; che guerra in paesi ignoti fin qui pur di nome per causa al popolo ignota, incerta a coloro stessi che hanno più ingegno e voglia di giustificarla, non potendo ispirare zelo nè religioso nè patrio ai combattenti, non potendo confortare i timori e i dolori di tante sorelle e di tante madri, risicava esser fomite a mali umori fatti più pericolosi dalle inevitabili sopraccrescenti gravezze; considerando che le speranze al Piemonte veraci gli vengono dal suo sito, dalla gelosia de’ potentati maggiori, e da’ diritti de’ quali egli intenda in verità farsi vindice, non già dal mandare i suoi prodi a perire lontano di morte inerte e muta nel tedio e nello sgomento non già del ferro nemico ma d’una mano invisibile che dalla imprevidenza degli uomini è fatta alleata al nemico; che dal combattere confusi con genti assoldate di tutte le terre e di tutte le fedi, e che pur penano ad accozzarsi sotto un ambiguo vessillo, non può venire nè gloria nè grandezza, nè agio di sedere al banchetto de’ forti, giacchè i Cavalieri de’ santi Maurizio e Lazzaro pur troppo sanno quel che frutta il trattare lealmente le armi per imperatore infedele, e quel che possono i poveri attendere dalla mensa del ricco Epulone; considerando da ultimo che il doppio comando sotto al quale il fiore dell’esercito italiano mettevasi, poco poteva aggiungere alla freschezza de’ suoi tre colori, che l’onore del trionfo sarebbe stato per altri, per gl’Italiani (le guerre del primo Napoleone lo gridano) i pericoli e il dispendio e le inimicizie e la debolezza conseguente e il rammarico (Dio ce ne scampi, che senno umano non può) del finale disinganno.