Antonio Rosmini/XXVIII
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Qui m’è forza dire della contesa che il Gioberti ebbe seco: e il parlarne due anni dopo uscito di vita il Gioberti, e dopo che l’ebbe il Rosmini seguito, e per obbligo dell’assunto impostomi dall’altrui desiderio e dal mio dolore, sia prova delle mie intenzioni. Parlerò com’è debito ad uomo d’ingegno acuto e di studi operosi, di vita pura e infelice, a un morto, ad un offensore. Interrogato il Rosmini del parer suo intorno al libro del Soprannaturale, rispose parole brevi, non irriverenti, e fondate nella mente sua certamente in molte ragioni, e che in lettera privata correvano: ma egli stampò quella lettera senza munirla di prove; e stamparla non era necessario, e quella brevità poteva parere ai leggieri leggerezza, all’autore disistima d’un libro che meritava riguardi. Li meritava perchè di prete (nè i preti oggidì che studino forte, che scrivano potentemente, son tanti da non dover incuorare coloro che pure accennino di mettersi per tale cammino); li meritava perchè quella è l’opera da lui più meditata e corretta, dove più condensate le idee, dove non è messo innanzi il principio dell’intuito diretto, che nè filosoficamente nè teologicamente si può sostenere, nè l’atto creativo ci è posto come cardine della scienza umana, la quale sentenza per essere più che un atto di fede e per diventare un sistema, dovrebbesi dimostrare con ordinate argomentazioni, o almeno comprovarsi con la verità delle sue conseguenze per via di deduzioni ordinate. Io tengo per fermo che non lo sdegno del vedere il suo libro guardato così d’alto in basso muovesse il Gioberti, ma e il dispiacere della quasi crudele severità del Rosmini esercitata verso il Sr Mamiani, e l’esempio datogliene da esso Rosmini; giacchè anco le cose riprese negli autorevoli vengono da noi troppo spesso involontariamente imitate: e questo riguardo dovrebbe a uomini tali essere freno in ogni atto e parola, essere rigida legge impostagli dalla loro potenza stessa. Muoveva inoltre il Gioberti la sua vivacità non ancor temperata dalla prova della vita e dal lungo esercizio dello scrivere per la stampa, al quale egli s’era dato più tardi del solito, e poi affrettatosi e per la lena dell’ingegno e per amore della patria e per l’aura della favorevole fama; lo muoveva l’ebbrezza scusabile negli scriventi infusa non tanto dalle altrui lodi quanto dal calore della lor propria parola, nella cui sonorità si compiacciono, vagheggiandola come cosa non loro ma e della lingua e della nazione, come una di quelle idee separate che la poesia platonica idoleggiava; lo muovevano (e anche questa è agli occhi miei non accusa ma scusa) le istigazioni delatrici che venivano di vicino e di lontano a lui esule, poco esperto de’ pochi uomini che aveva veduti, ignaro di necessità, come agli esuli più esperti accade, dello stato presente della nazione e degli uomini nuovi che sorgono in essa; istigazioni di gente che, mescolando il vero colle apparenze, le dicerie d’accademia e di sagrestia cogl’intimi sentimenti, o per benevolenza malcauta e quasi perfida, o per vile malignità che faceva la facondia e la fama del degno uomo strumenti a proprie oscure passioni, gli amareggiavano l’anima e gli mandavano, quasi presente d’amicizia e d’ammirazione, vasi sigillati di fiele e veleno. Intitolare il libro Errori filosofici di Antonio Rosmini, era già un confessarsi più passionato che urbano: e a giustificare quel titolo di tre grossi volumi, bisognava con ordine severo tener dietro alle idee dell’autore, non si perdere in declamazioni se non forse dopo aver provato pienamente; non intessere alla confutazione de’ principî altrui l’esposizione de’ proprî che erano tuttavia disputabili. Bisognava, recando in sua difesa le sentenze d’Agostino e di Bonaventura, offrirne intero il concetto, senza tacere quelle di loro medesimi che fossero avverse o paressero; bisognava non solamente promettere che ragionerebbesi delle dottrine di Tommaso evidentemente conformi con quelle di Rosmini, ma ragionarne a disteso, e così fare che que’ tre volumi servissero, se non all’incremento, alla storia della scienza. Non conveniva ad un prete accusare quasi con vanto un altro prete di panteismo, e di tanti altri errori, che sarebbe difficile abbracciarne a un tratto tanti anco al più spasimato ricercatore del falso: nè bastava soggiungere che il Rosmini era poi tanto buono da non se ne accorgere punto, e alla scarsezza della sua mente la sua innocenza imputare. Non conveniva sfidarlo ogni tanto a duello, e dare a credere ch’egli, il Rosmini, dietro a taluno de’ suoi difensori s’appiattasse per paura dell’abate Gioberti, il Rosmini che, giovane ancora, s’era cimentato colla grande fama del Romagnosi, e colla divulgatissima arguzia del Gioia, e colla potente musa del Foscolo. Quand’anco fosse indubitabile che il Rosmini della penna altrui si servisse (e se il Gioberti lo conosceva, rifuggiva pur dall’imaginarlo), il discendere a siffatte particolarità in disputa filosofica e teologica era superfluo, in disputa tra Italiano e Italiano non era cortese; e dalla parte d’uomo che si teneva già vincitore, e si figurava di ballare sul capo de’ nemici atterrati, poteva parere men che pio. Eccitato il Rosmini a rispondere da chi, ascoltatore de suoi ragionamenti e spassionato intenditore de’ libri suoi, non temeva punto per esso, rispose che alle obbiezioni di que’ tre volumi tutte (e forse non ce n’è ch’una sola) rispondeva già la risposta fatta al Sr Mamiani. Ma fors’anco lo svogliò dalla disputa il vedere l’avversario tanto avido d’attaccarla come se fosse un nemico o se lui stimasse nemico; ne lo svogliò l’imagine scandalosa e quasi ridicola di due preti, di due filosofi, di due italiani, che si gettassero l’uno all’altro in faccia il titolo di panteista, e altre immondizie, tristo spettacolo ai disprezzatori dell’Italia e d’ogni filosofia e d’ogni fede; ne lo svogliava la tema che quella disputa riuscisse un perditempo, atteso il risico di sviarsi dalla questione in disgressioni oratorie e di ricadere nella ripetizione di cose già confutate, come segue ai contendenti più retti e più validi; ne lo svogliava la memoria dolorosa e il senso presente di controversie, altre potute evitare, altre fattegli inevitabili dall’onore e dalla coscienza; ne lo svogliavano le occupazioni molte, le idee nuove alle quali sentiva dovuto il tempo già poco; ne lo svogliava massimamente il consiglio di quella virtù generosa che s’era venuta con gli animi corroborando.
Debbo qui dire di me. Io conoscevo il Gioberti perchè visitato da lui cortesemente per primo in Parigi, e onorato poi di cortese sua lettera da Bruxelles alla quale risposi senza cerimonie che non sono di mio uso ma con riverenza; e poi consolato in Nantes del dono del suo volume, onde mi rallegrai seco di cuore. Non gli dissimulavo però che un suo cenno intorno al Rosmini, la cui dottrina era messa in forse senza prove, mi pareva sarebbesi potuto tralasciare: e forse quel cenno diede al Rosmini l’esempio del giudicare l’opera del Gioberti altresì senza prove. Ma quando lessi gli Errori, credetti debito non tanto al Rosmini quanto all’Italia ed al vero rispondere pacatamente, notando come nelle parole e nelle dottrine d’esso Gioberti fosse la risposta alle sue obbiezioni e il consiglio di disputare un po’ più temperato. Non ne feci, com’è ben da credere, avvertito il Rosmini, che forse me l’avrebbe interdetto; ben ne feci avvertito il Gioberti; e gli mandai di Venezia quel mio scritto innanzi che uscisse alla luce, e in lettera privata pregai non volesse parere accodato ad altri avversari del Rosmini, dall’esule allora lodati, battuti poi. Non rispose egli alla lettera in privato, nè in pubblico alle ragioni mie con ragioni, ma con celie che non provano se non cosa notissima, quanto difficile sia celiare. Alle celie frammischiò accuse ambigue, però più gravi: affermò avergli io scritto di quelle lettere alle quali e’ non soleva rispondere; il che potrebbe farle sospettare superbe insidiose o timide, o tutte insieme queste e altre cose. A chi conosce me, non fa di bisogno risposta; per gli altri, invito gli eredi di lui che stampino quante lettere trovano di mio tra’ suoi fogli. Anche disse (e non si sa bene come cotesto in questione filosofica avesse luogo) che s’io toccai la carcere, era stato in carcere anch’egli; come se io mai mi fossi sognato di paragonarmi o al Gioberti o a maggiori di lui o a minori; come se per prendere a stimarlo, io avessi chiesto la patente de’ suoi carcerieri; come s’io menassi vanto di quel sì ovvio patimento e sì breve, nel quale non era altro merito che l’aspettazione di patimenti maggiori, resomi del resto non men leggiero che onorato da’ tribunali dell’Austria: sia detto a lode del vero e a detrazione debita delle mie proprie lodi. Un’altra accusa più strana l’egregio mi mosse apponendo a me, come detta di un discorso pubblico e stampato alla lettera quale fu pronunziato, una parola contraddicente al tenore d’esso discorso e al suo effetto e a’ sentimenti e a’ fatti di tutta la vita mia, parola che io non debbo qui ripetere nè qualificare, perchè quella appunto che in senso più grave stampò in proprio nome un lodato dal Gioberti e perchè di più gravi ne stampò esso Gioberti, ritrattate poi: alla quale accusa io risposi, pubblicamente negando, con dolore per lui senza sdegno. Egli tacque: ma poi scrisse di me nel Rinnovamento parole che spirano benevolenza più cara a me d’ogni lode. E il valentuomo, che per fare più acerbe le sue doglianze di prima, aveva detto amico suo me che ebbi seco per pochi mesi colloqui rispettosi e cordiali sì ma non intimi; se meglio mi conosceva, non avrebbe fatte le maraviglie che io, due volte onorato di sua lode in istampa, contraddicendogli a proposito del Rosmini mi dimostrassi così poco curante di quel ch’era agli occhi miei un onore davvero, mi provocassi gli sdegni di scrittore famoso e di vivacità ormai nota, mi provocassi le ingiurie di que’ seguaci ai quali l’ammirazione e l’amore è maschera d’odio e di spregio; ch’io andassi incontro a dispiaceri e umiliazioni senza umano compenso per difendere l’onore dell’Italia e la dignità della scienza nel nome d’un padre, nelle opere d’un amico. Adesso egli è in luogo da cui vede con che rassegnazione accorata io m’esponessi al cimento, e come mi rincrescesse, scrivendo, d’aver troppa ragione, e innalzassi sovente gli occhi chiedendo che il mio linguaggio fosse temperato e temperatamente accolto; vede perchè io non facessi della mia risposta un volume da sè per più divulgarlo con vanto, perchè la gettassi in una nota ad altro lavoro in caratteri minuti da pigliar meno spazio e avventare meno; vede perchè, provocato, io non rispondessi, io che de’ suoni grandi e delle grandi potestà non ho mai dimostrato, dicono, gran paura, io che avevo ancora assai calda l’anima, e la mano assai ferma da scrivere poche sì ma di quelle parole che non si dimenticano; vede perchè, messa insieme una serie di sentenze contradditorie raccolte non da più libri di tempi diversi, ma da uno de’ libri suoi, ne interdicessi la stampa a un amico per non moltiplicare le discordie in momenti all’Italia gravi; vede perchè, quando de’ già esaltatori suoi, e piemontesi, gli si scagliavano contro ne’ primi mesi del quarantanove per fatti che io non posso nè riprendere nè lodare perchè non li intendo, io non cogliessi quel punto a sfogo d’ignobile e crudele vendetta; vede come e innanzi e dopo l’acerba sua morte io commendassi le buone qualità dell’animo suo, e lo difendessi a taluni di coloro che si sarebbero a lui vivente e vincente prostrati con esultazione trepida e con adorazione superba.
Se il Gioberti conosceva di persona il Rosmini prima, lo trattava in altra maniera: l’ebbe a dire egli stesso. Lo conobbe, ministro; e l’inviò al papa in nome del re. Il Rosmini che aveva per massima di accettare ogni opportunità di far bene senza eccettuarne le offertegli da’ suoi avversari; egli che, non offensore anche dopo provocato, poteva guardare a fronte alta e serena lo scrittore e il teologo e il ministro, congiungendo le tre qualità nella stima debita ai pregi dell’uomo, ubbidì con volto nè superbo nè modesto1. E quando onorata povertà fece l’esule maggiormente cospicuo, l’umile prete di Stresa scrisse a un amico di lui offrendosi di concorrere ad alleggerirgli quel nobile ma indebito peso, a patto di rimanersi celato, e la scelta de’ modi affidando a esso amico. Lo attesta il Sr Massari con alla mano un documento; ed era assai la testimonianze di lui che lodò degnamente il Rosmini, chiamandolo rivendicatore della dignità e delle franchigie del pensiero italiano; parole che Vincenzo Gioberti, se sopravvissuto, ripeterebbe con gioia, superbo meglio che di sua propria lode. Esso Sr Massari racconta come il Rosmini, sentita la morte di lui, pregasse pace alla sua anima, dicendo egli stesso la messa di requie; di quelle che tale anima e tale mente sapeva dire, sacrifizio veramente divino d’una umanità fatta per fede e amore sempre novellamente divina; di quelle, alle quali assistendo si sentiva esaltato sopra sè stesso il poeta che cantò Cristo e frate Cristoforo, Ermengarda e Lucia.
Fermiamoci un istante a questo pensiero, e consideriamo la messa detta dal filosofo artista e sentita dal poeta pensatore, come un fatto meramente umano, vuoi psicologico o estetico, vuoi morale e civile; guardiamo il rincontro di questi due uomini come un giuoco del caso, com’un accozzamento degli atomi d’Epicuro. Fatto è che il prete ed il laico commemorano la morte di Lui la cui parola fece la più grande di tutte le innovazioni che la storia ci narri; fatto è che essi credono (se a ragione o no, qui non è luogo a provare) che il sacrifizio offerto ha un valore immenso, e quanto a sè glielo dànno, e la loro intenzione è altresì un fatto, l’idea loro è più grande di quante si chiudono nel guscio del Bentham o spaziano per i vapori dell’Hegel; certo è ch’essi pregano non per sola la propria ma per salute di tutto il mondo; che sanno i mali e i difetti dell’umanità, il troppo che manca non solo alla perfezione suprema ma il bene pur possibile all’uomo misero in tempi miseri, e nondimeno nell’anima loro non è dispregio delle piccole cose che tutte nel lor concetto ingrandiscono, non è odio degli uomini anco più traviati, non è disperazione o ribrezzo delle malattie anco più orribili; ch’egli amano tutto e tutti nell’ordine debito, che credono e sperano tutte le cose grandi; che nella fede e nell’affetto comprendono non solo questo nido angusto di questo pianeta, ma l’ampio universo. Può essere che innanzi a Dio sacrifizii fecondi di merito più sublime siansi celebrati e si celebrino, e forse l’offerta dell’ignorante oscuro, del reo che incomincia appena a ravvedersi, ha innanzi a Dio merito ben maggiore: ma s’io ricerco nella memoria de’ tempi due intelligenze, due cuori, due saperi, due fame più pure e più grandi, collocate così l’una all’altare e l’altra a pie’ dell’altare, e così semplicemente eminenti, con tanta varietà consonanti; non ce lo trovo: e vedendo serbato questo spettacolo all’età nostra, all’Italia, a un angolo del Piemonte, sento che disperare della nostra età e dell’Italia sarebbe ingratitudine a Dio, o alla natura (se piace così) delle cose.
Il poeta che ci fa assistere agli ultimi sospiri di due donne affettuose, Ermengarda e la madre misera milanese, agli aneliti ultimi di due forti umiliati, Adelchi e Napoleone; doveva, esso, assistere con ambascia di spirito forse più grave che quella del moribondo alle ore ultime d’Antonio Rosmini; e raccomandargli l’anima, ora leggendo qualche terzina del Paradiso di Dante, ora ripetendo al moribondo le preci che dice nella sua gioia e nel suo dolore il bambino piccolo, il villico semplice, l’umile femminetta. Nè da migliore cattedra fu commentato il verso di Dante che da questo letto di pene, nè armonia più piena lo può accompagnare che l’affetto di queste due anime; nè onore più grande toccò all’esule infelice morto anch’esso circa l’età del Rosmini, che il trovare parole degne d’essere interpreti di tale amicizia, apportatrici di consolazione ad una cristiana, ad una contemplante agonia. Vogliano gli scrittori grandi scrivere sempre parole che siano mediatrici tra il cielo e la terra, parole da potersi leggere e rammentare e nell’esaltazione della gioventù e ne’ languori della vecchiaia, e nell’ardente raggiar della vita e presso alle sacre tenebre della morte.
Muore il Roveretano in Piemonte, il Piemontese in Parigi; muoiono riconciliati; nè avvicinò le loro anime umana speranza o paura. Esca dalle due sepolture, quasi unico spirito, un testamento all’Italia di perdono e di amore; e sia ad essi leggiera, non dico la terra, pietosa madre, ma la memoria degli uomini che sopravvivono, infelici, ai cimenti della solitudine, della calunnia, del tedio e del disinganno.