Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/73
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Anno di | Cristo LXXIII. Indizione I. Clemente papa 7. Vespasiano imperadore 5. |
Consoli
Flavio Domiziano Cesare per la seconda volta, e Marco Valerio Messalino.
Console ordinario fu in quest’anno Domiziano1, non già per li meriti suoi nè per elezione del saggio suo padre, ma perchè il buon Tito suo fratello, designato per sostenere anche nell’anno presente sì riguardevol dignità, la cedette a lui, e pregò il padre di contentarsene. E si vuol qui appunto avvertire che esso Tito era in tutti gli affari il braccio diritto del vecchio padre2. A nome di lui dettava egli le lettere e gli editti, e per lui recitava in senato le determinazioni occorrenti. Secondochè s’ha dalla cronaca d’Eusebio3, circa questi tempi (se pur ciò non fu più tardi) l’Acaia, la Licia, Rodi, Bizanzio, Samo ed altri luoghi di Oriente perderono la lor libertà, perchè se ne abusavano in danno lor proprio per le sedizioni e nemicizie regnanti fra i cittadini. Non si mandava colà proconsole o governatore romano in addietro, lasciando che si governassero coi propri magistrati e colle lor leggi. Da qui innanzi furono sottoposti al governo del presidente inviato da Roma, e a pagare i tributi al pari dell’altre provincie. Per attestato ancora di Filostrato4, Apollonio Tianeo, filosofo rinomato di questi tempi, grande strepito fece contra di Vespasiano, perchè avesse tolta alla Grecia quella libertà che Nerone, tuttochè principe sì cattivo, le avea restituita. Ma Vespasiano il lasciò gracchiare, dicendo che i Greci aveano disimparato il governarsi da gente libera. Il Calvisio, il Petavio, il Bianchini ed altri, non per certa cognizione del tempo, ma per mera congettura, riferiscono a quest’anno la cacciata de’ filosofi da Roma: risoluzione che par contraria alla saviezza di Vespasiano, ma che fu fondata sopra giusti motivi. Le diede impulso Elvidio Prisco nobile senatore romano, e professore della più rigida filosofia degli stoici, la qual era allora più dall’altre in voga presso i Romani. A questo personaggio fa un grande elogio Cornelio Tacito5, con dire, aver egli studiata quella filosofia, non già per vanità, come molti faceano, nè per darsi all’ozio, ma per provvedersi di costanza ne’ varii accidenti della vita, per sostenere con equità e vigore i pubblici uffizii, e per operar sempre il bene, e fuggire il male. Perciò s’era acquistato il concetto d’essere buon cittadino, buon senatore, buon marito, buon genero, buon amico, sprezzator delle ricchezze, inflessibile nella giustizia, ed intrepido in qualsivoglia sua operazione. Anche Ariano6, Plinio il giovane7 e Giovenale furono liberali di lodi verso di Prisco. Ma egli era troppo invanito dell’amor della gloria, cercandola ancora per vie mancanti di discrezione8. Gli esempli di Trasea Peto, suocero suo, uomo da noi veduto lodatissimo ne’ tempi addietro, gli stavano sempre davanti agli occhi, per parlare francamente ove si trattava del pubblico bene. Ma non sapea imitarlo nella prudenza. Trasea, ancorchè avesse in orrore i vizii e le tirannie di Nerone, pure nulla dicea o facea che potesse offenderlo. Solamente talvolta si ritirò dal senato, per non approvare le di lui bestialità e crudeltà: il che poi gli costò la vita.
Ma Elvidio si facea gloria di parlar con vigore e libertà senza riguardo alcuno. Così operò sotto Galba, sotto Vitellio; [p. 302]ma più usò di farlo sotto Vespasiano, quasichè la bontà di questo principe dovesse servire di passaporto alla soverchia licenza delle sue parole. Il peggio fu ch’egli, scoprendosi nemico della monarchia, tenendo sempre il partito del popolo, non si facea scrupolo di darsi in pubblico e in privato a conoscere per persona che odiava Vespasiano. Allorchè questo principe arrivò a Roma, ito a salutarlo, non gli diede altro nome che quello di Vespasiano. Essendo pretore nell’anno 70, in niuno de’ suoi editti mai mise parola in onore di lui, anzi nè pure il nominò. Ma questo era poco. Sparlava di lui dappertutto, lodava solamente il governo popolare, e Bruto e Cassio; formava anche delle fazioni contra del dominio cesareo. Andò così innanzi l’ostentazione di questo suo libero parlare, che nel senato medesimo giunse a contrastare e garrire insolentemente collo stesso Vespasiano, quasichè fosse un suo eguale9; perlochè, d’ordine dei tribuni della plebe, fu preso e consegnato ai littori, o sia ai sergenti della giustizia. Il buon Vespasiano, a cui forte dispiaceva di perdere un sì fatt’uomo, eppur non credea bene d’impedire il riparo alla di lui insolenza, uscì di senato quel dì piangendo e con dire: O mio figliuolo mi succederà, o niun altro: volendo forse indicare che Elvidio con quelle sue impertinenti maniere additava di pretendere all’imperio. Pure la clemenza di Vespasiano non permise che si decretasse ad uomo sì turbolento, che inquietava e screditava il presente governo, e mostravasi tanto capace di sedizioni, se non la pena dell’esilio. Ma perchè verisimilmente neppur si seppe contener da lì innanzi la lingua di questo imprudente filosofo, fu (non si sa in qual anno) condannato a morte dal senato, e mandata gente ad eseguire il decreto. Vespasiano spedì ordini appresso per salvargli la vita; ma gli fu fatto falsamente credere che non erano arrivati a tempo. Probabilmente Muciano, che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione10 ch’esso Muciano persuase all’imperatore di cacciar via da Roma tutti i filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica, maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e fors’anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l’ossequio e la fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe, quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra gli altri andarono relegati nelle isole Ostilio e Demetrio filosofi anch’essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s’infervorò a dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di chicchessia11 dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano, nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre, solamente dicendo: Ve’ che cane! Nè mutò registro, ancorchè Demetrio continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta tracotanza, pure non altro gli fece dire all’orecchio se non queste poche parole: Tu fai quanto puoi perch’io ti faccia ammazzare: ma io non mi perdo ad uccidere can che abbaia. Per attestato di Dione, il solo Caio Musonio Rufo, cavaliere romano, eccellente filosofo stoico, [p. 304]non fu cacciato di Roma: il che non s’accorda colla Cronica di Eusebio, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò dall’esilio.
- ↑ Suet., in Domiziano, cap. 2.
- ↑ Idem, in Tito, cap. 6.
- ↑ Euseb., in Chron.
- ↑ Philostratus, in Apollon. Tyan.
- ↑ Tacitus, Historiar., lib. 4, cap. 5.
- ↑ Arrian., in Epictet.
- ↑ Plinius junior., lib. 4, epist. 23.
- ↑ Dio., lib. 66.
- ↑ Sueton., in Vespasiano, cap. 15.
- ↑ Dio., lib. 66.
- ↑ Sueton., in Vespasiano, cap. 13.